Alle porte d'Italia/La rocca di Cavour
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LA ROCCA DI CAVOUR
La campagna era velata da una nebbia leggiera, in cui erravano dei grandi nuvoli di fumo, sollevati da mucchi accesi di gramigna. Il sole, appena uscito, pareva che avesse una mezza idea di tornare in casa, e andava tentando l’aria con dei raggi pallidi, che ritirava subito indietro, come tentacoli scottati dal freddo. L’aria mordeva in fatti: i pochi viaggiatori seduti nei carrozzoni del tranvai a vapore avevano il becco rosso, e i miei due compagni non finivano più di fregarsi le mani, come se partendo da Pinerolo avessero ricevuto un sacco di buone notizie. Uno era un grosso proprietario, una specie di borghese campagnuolo, appassionato per l’agricoltura, per quella pratica, come diceva lui, non per quella dei professori: una faccia paciona di cinquant’anni, atteggiata a un perpetuo sorriso canzonatorio; l’altro, un ex professore ginnasiale, grande amatore di storia patria, e parlatore compassato e forbito, che s’era offerto gentilmente di farmi da guida storica. Eran gli ultimi giorni d’ottobre, quando la campagna piemontese spiega in tutta la loro bellezza i colori pomposi e tristi dell’autunno. Il treno correva in mezzo a vigneti color di porpora, a macchie di pioppi e di roveri svariati di giallo e di vermiglio, a boschi d’oro, a lunghe file di gelsi color di zolfo e di terra di ocra, macchiate qua e là dalle chiome ancora verdi di qualche albero ostinato a non invecchiare; e di là dagli alberi, fuggivano dalle due parti della via i prati vaporosi e i campi lavorati, nei quali spuntava il grano, come una barbetta rada e fine d’adolescente. La campagna era solitaria; solo qualche villanella bionda, appoggiata al rastrello, alzava gli occhi verso il treno con quell’espressione... con nessuna espressione. La gente faceva ancora il sonnellino di giunta della mattina, aspettando a svegliarsi del tutto che il sole desse il buon esempio, e i villaggi per cui passavamo, cominciavano appena a schiuder gli occhi e a stirare le braccia. Vedemmo però in un vicolo d’una borgata, passando, una comitiva nuziale di contadini, che aspettavan davanti a una porta: una sposa rossa, con grandi nastri bianchi sulla cuffia, le comari in pompa magna, gli uomini vestiti di nero, tutti immobili impalati, ma con gli occhi accesi dal dolce pensiero della scorpacciata e della sbornia. Siano felici senza moltiplicarsi! A tutte le fermate salivan delle contadine con dei grandi cesti pieni d’ova e di polli; in poco tempo ci fu tanta roba da sfamare una compagnia di soldati alpini. Andavan tutti al mercato di Cavour, che è dei più grossi del circondario; e si capiva dai visi immobili, e dal modo come si fissavano gli uni con gli altri senza guardarsi, ch’eran tutti occupati a sommare, a sottrarre e a dividere i quattrini che speravan di guadagnare: alcuni ragionavan tra sè movendo le labbra, altri facevano il conto con le dita, senza alzar la mano dal ginocchio, per non farsi scorgere. Nessuno discorreva. Si sentiva un odore acuto di cacio pecorino e di tartufi bianchi. Mi pareva di trovarmi in un treno speciale di Francesco Cirio, mandato sotto la mia alta direzione a portar le provviste del banchetto a una festa inaugurativa.
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Scendemmo all’entrata di Cavour, in pieno mercato d’animali neri, o canarini da ghiande, come si chiamano con gentile metafora in dialetto piemontese. La borgata, che conta circa ottomila abitanti, è tutta fabbricata sul piano, ai piedi della rocca famosa, alla quale deve la sua gloria e le sue sventure. Come tutti i piccini a cui manca l’occasione di paragonarsi, quella rocca ha l’aria di credersi una gran cosa; e in fatti, vista di là sotto, benchè non sia alta più di due volte il campanile di Giotto, e se ne possa fare il giro in mezz’ora, presenta l’apparenza d’una montagna, certe forme larghe e maestose di gigantessa alpina; e pare anche più grande all’occhio per effetto del mantello denso di vegetazione che le avvolge le spalle e i fianchi rocciosi. A primo aspetto, fa colpo, non c’è che dire. Chi capitasse là senza sapere, la crederebbe un monte artificiale, innalzato dal capriccio mostruoso d’un tiranno antico; una specie di colossale osservatorio guerresco, fabbricato per tener d’occhio tutti i feudatarii della pianura, dalle rive del Po alle rive del Sangone. Si capisce come sia stata sempre oggetto di meraviglia, cominciando da Plinio, che scrisse di non aver mai visto montem a montibus separatum nisi montem Caburri, e venendo fino a Carlo Denina, il quale la credette un masso precipitato dalle Alpi, e ad altri che la ritennero uscita tutta sola fuor dalle viscere della terra, quasi all’improvviso, come la testa d’un titano sepolto, curioso di vedere coi suoi occhi come andassero le faccende di Casa Savoia. La sua origine, con tutto questo, non ha nulla di meraviglioso: è l’estrema punta, o come suol dirsi, l’ultimo sperone del contrafforte alpino il quale scende dal monte Granero a dividere la valle del Po da quella del Pellice; sperone il quale si innalza in modo notevole rispetto alla giogaia di cui è termine (il che si vede di frequente), con questo di singolare peraltro: che appare isolato perchè la catena di rocce che lo riunisce al contrafforte delle Alpi è tutta coperta e perfettamente nascosta dai materiali d’alluvione che vi si sono accumulati in tempi antichi. Non è dunque un’avanguardia solitaria, una sentinella perduta dell’immenso esercito alpino; ma la testa d’una colonna non interrotta che fa la sua strada sotto terra. È un peccato. Sarebbe certamente più poetica se fosse ruzzolata giù dal Monviso come il masso della similitudine manzoniana, tanto più che i Cavorresi potrebbero vivere sicuri di non vederla mai riportare in alto da una virtude amica. Ma pure senza la origine meravigliosa, questo enorme blocco di gneiss (celebre fra i naturalisti per i bellissimi cristalli di quarzo affumicato che si ritrovarono nelle crepe delle sue rocce) è una fortuna per il paese: è il suo monumento storico e la sua bellezza, gli fa ombra e fresco d’estate, e lo ripara dai venti australi, e serve di rifugio agli innamorati e di belvedere agli artisti, e frutta di tanto in tanto il desinare d’un mineralista o d’un geologo al Persico reale o alla Posta. (Domandare il fritto di trote.)
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La borgata somiglia a tutte le altre borgate del Piemonte: pulita, di colori allegri, nessun monumento, molte osterie. Percorrendo la strada principale riuscimmo nella piazza del mercato. C’era pieno zeppo di gente: delle file di contadine venute da tutti i dintorni, e una doppia processione di uomini e di donne della campagna, pigiati come all’uscita d’una chiesa: per tutto ceste d’ova e di polli, panierone colme di burro, mazzi di capponi alla mano, gabbioni pieni di galline, d’oche, di tacchini, di conigli: una profusione di roba grassa, cicciuta, soda, fresca e sana, ch’era un gusto a vedere. La prima cosa che mi diede nell’occhio furon le polpe colossali di certi preti che passavan tra la folla: delle colonne, Dio li benedica, da disgradarne il Biancone di piazza della Signoria. Poi i cappelli delle contadine, curiosissimi: dei cappelli di paglia gialla, di tesa molto larga, foderati di stoffa di sotto, fasciati di sopra di larghi nastri di seta o di velluto ricascanti fin sulla schiena, coperti d’un velo di tulle nero, frangiati di conterie, ornati di penne, di rose, di mazzi di fiori finti, di catenelle d’ottone, di fermagli della forma di chiavi o di spade: dei veri botteghini da merciaio, con le più bizzarre stonature di colori che si possano immaginare. Molte avevan delle collane dorate a varii giri, dei grossi orecchini da madonna, e dei fazzoletti da collo gialli o scarlatti. C’eran dei bei pezzi di donne e dei bei fusti di ragazze, con dei colori di mela appiola, coi capelli d’un biondo di spiga, serrati sulle forti nuche come nodi di corda; larghe di spalle e di fianchi, tutt’altro che piallate, piantate diritte e salde in terra come pilastri, e così strette le une alle altre, che per passare bisognava strofinarsi alle gonnelle e ai grembiali e si sentivan da tutte le parti delle rotondità resistenti e dei fiati caldi. Era davvero un mercato di contadini piemontesi. Fuor che gli strilli dei merciaiuoli dei baracconi, non si udiva una voce più alta dell’altra: nessun dialogo concitato, nessun gesto impetuoso, nessun viso acceso; una placidità di aspetti straordinaria, le mani quasi immobili, dei sorrisi quieti, un girar lento del capo e degli occhi, un contrattare a parole riposate e sommesse. Mi pareva che tutte quelle donne non fossero mai state agitate da una passione e che dovessero dar l’amore come davan le ova. Eppure.... Ci trattenemmo un poco ad ammirare le bellezze più vistose; ma i nostri sguardi ammirativi, interpretati prosaicamente, non avevano altro effetto che di far alzare le galline verso di noi, in atto d’offerta. Provai però un vero piacere a girare, a sguazzare dentro a quell’abbondanza di tutto, a sentir tutti quei soffi di salute, quell’odor di stoffe da sedici soldi il metro, di capelli lisciati con l’acqua, di latte, di paglia, di piccionaia, di conigliera: mi pareva di purificarmi per un mese di tutti i profumi da parrucchiere, di tutti gli odori acri e misti di cattive salse, di botteghe umide e di teatri sudici, e di libri odiosi e di prove di stampa più odiose, che ero costretto a respirare in città. E non fu così facile levarci di là dentro. Alla uscita della piazza ci trovammo chiusi in mezzo a un gruppo di poderose venditrici di cacio, e ci bisognò fare alle gomitate; poi la cesta di una bella pollaiola mi separò dai compagni; infine non ebbi più che da dividere due maschiotte marmoree che chiudevan la via, e mi ritrovai all’aperto con gli altri, tutto fragrante di latticini e di galliname.
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Eravamo in un’altra piazza; entrammo un momento nella chiesa maggiore, grande e vuota, dove la voce del prete che diceva la messa era coperta da un cinguettio sonoro d’uccelli che svolazzavano per le navate; e poi ci avviammo per salire sulla rocca. In quella stessa piazza, dov’è ora una bella fontana di pietra, si crede, da certe iscrizioni antiche state scoperte nel paese, che ci fosse un bagno e una piscina, fatti costrurre in un podere proprio, e poi donati ai suoi concittadini, municipiis suis, da una Seconda Asprilla, sacerdotessa d’un tempio consacrato a Drusilla, sorella di Caio Caligola. — Non solo — mi diceva forbitamente il professore; — ma è tra i cultori di studi archeologici fondata opinione che l’antico bagno traesse alimento dalla sorgente medesima, che fornisce l’acqua alla odierna fontana. — Ma qui fu un vero divertimento, perchè il buon proprietario agricolo professava una tale pietà per tutte quelle bale di erudizione antica, e deplorava così sinceramente che persone di buon senso ci sciupassero il loro tempo invece di consacrarsi all’agricoltura “vero fondamento degli Stati„ che gli pigliava mal di stomaco solamente a sentirne discorrere; e guardava il mio professore con una faccia così provocante, fra la finta maraviglia e la corbellatura, che quello ci s’inverdiva dalla stizza, benchè mostrasse di non badarci. Già, mentre stavamo per entrare in chiesa, a sentir dire che Annibale aveva accampato vicino a Cavour l’ala sinistra del suo esercito (il qual fatto, oltre a potersi dimostrare probabile con certi passi di Tito Livio, veniva provato dai molti denti d’elefante che avevan ritrovati in quelle terre), si era soffermato in mezzo alla piazza, guardando fisso l’amico, come si guarda un matto da legare. Ma quando poi sentì aggiungere quella del regalo del bagno, e d’Asprilla, e di Drusilla, non si potè più contenere. — Non creda, sa, — mi disse; — son tutte cose che combinano fra loro i dottoroni. Già Cavour non è mai stato paese di forestieri. — Il professore fece un sorriso di infinito disprezzo, e ripigliò il suo discorso. La cosa era fuor di dubbio. Cavour era stato una colonia romana, e doveva aver avuto una fortezza e un presidio; negli scavi fatti in vari tempi, s’eran trovati cippi, capitelli con l’effigie di Romolo e di Remo, avanzi di acquedotti, statuette di metallo, lumicini, lacrimatoi, monete, medaglie; fra le quali essendo in maggior numero quelle del tempo di Nerone e degli Antonini, c’era luogo di credere che fosse stato sotto questi imperatori il periodo di maggior floridezza dell’antica Caburrum. In seguito le eran toccate le avventure comuni a quasi tutte le città e alle borgate di quella parte del Piemonte: distrutta dai barbari, ridistrutta dai Saraceni, soggetta al contado di Torino al tempo dei Franchi, castellania sotto i marchesi di Susa; poi posseduta dai Conti di Savoia, conquistata dagli Astigiani, caduta in potere dei principi d’Acaja, ceduta ai signori di Racconigi, tornata daccapo alla Casa di Savoia. E mentre ascoltavo questa litania di trattati, di assedi, d’incendi e di miserie, salivamo su per una viottola petrosa, in mezzo a un bosco di piccoli castagni, di querciuole e di marruche, colorite di tutte le sfumature del giallo, dal cadmio allo zafferano, e ancora verdi qua e là, e come brizzolate da una polvere dorata, che un soffio di vento dovesse portar via. Non c’eran case, non s’incontrava nessuno. Non si sentiva che il verso d’una ghiandaia, su in alto.
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In mezz’ora arrivammo sulla cima. Sono tre punte, distanti un cento di passi l’una dall’altra: quella di sinistra, chiamata la punta dei cani; quella di destra, del castello; quella di mezzo, del torrione. La prima non è notevole che per un precipizio spaventoso che le s’apre sotto, una specie di Salto di Tiberio, il quale misura tutta l’altezza della rocca, diritta, da quella parte, e terribile, come la muraglia d’una fortezza ciclopéa che minacci gli sbocchi delle valli alpine. Sulla punta di mezzo, non rimane più dell’antico torrione di Bramafame che un pezzo di muro rotondo, alto quanto il parapetto d’un pozzo, con due cannoniere, circondato di rose selvatiche e d’erbacce. La punta che serba maggiori avanzi è quella del castello. Ed è anche la più ardita e selvaggia: un gran masso, una specie di gobbo enorme della rocca, inaccessibile da ogni parte, fuorchè per una scaletta informe, cavata nella roccia viva, e tutta incisa di nomi e di date cubitali; salendo per la quale si riesce con un giro sopra il piccolo spianato dove sorgeva il castello. Qui, per una rete di piccoli sentieri che salgono e scendono tra i pruni, le ortiche e le vitalbe, si gira in un labirinto di rovine, in mezzo a buche di cisterne e di sotterranei, a frammenti di muri forati da feritoie, a traccie malcerte di porte, di scale e di segrete, da cui è quasi impossibile raccapezzare la forma del castello; il quale doveva essere angusto, peraltro, e intricato, e lugubre: uno spauracchio di castellaccio da streghe e da corvi, non meno triste per chi ci stava dentro a difenderlo, che tremendo per chi l’aveva da assalire. Eretto su quella cima, proteggeva mirabilmente la borgata sottoposta, che era tutta chiusa in una cinta rettangolare di muraglie turrite, le quali si prolungavano salendo su per la rocca, fino a congiungersi col castello e col torrione; legati anche questi fra loro da un parapetto, o da altra opera di difesa, intagliata nel sasso, al di sopra dei passi più scoscesi. Tale era la fortezza di Cavour sul finire del secolo decimosesto quando se la disputarono il generale Lesdiguières e Carlo Emanuele I, i due sovrani giostratori di quella guerra avventurosa e memorabile, con la quale il duca di Savoia iniziò la grande politica dell’altalena fra la Spagna e la Francia: ben combinati davvero, e fatti proprio a misurarsi, per temerità di capitani, e per coraggio di soldati, e per prudenza, e per astuzia, e per generosità usata a tempo, e per magniloquenza spiegata sempre. Il castello, si capisce, non poteva esser preso che per blocco. Non riuscì a conquistarlo per assalto il Lesdiguières, neppure dopo essersi impadronito del torrione, e averci fatto tirar su a forza di braccia e d’argani due pezzi d’artiglieria, coi quali fulminava le mura a cento passi, e ogni colpo era uno sdrucio: i quattrocento difensori, comandati dal conte Emanuele di Luserna, non si arresero che per fame. E neanche lo potè pigliare di viva forza Carlo Emanuele, malgrado la gran voglia che ne aveva, e il grosso esercito vittorioso che teneva in pugno: dovette costruire nel piano cinque fortini, e aspettare che al presidio non rimanesse più nè acqua nè pane. E l’una e l’altra volta i difensori uscirono con l’onore delle armi. Poveri cadaveri ambulanti! Doveva essere uno strazio d’inferno l’idea di morir digiuni lassù, pigiati in quella tetra bicocca, frecciati a traverso alle feritoie da quell’aria viva dei monti che mette nel corpo dell’uomo la voracità della fiera, e sentirsi torcere le viscere dalla fame e dalla sete vedendo giù nel piano fumar le cucine dei vivandieri, passare i carri carichi di pane, e correre i rigagnoli argentini in mezzo ai campi! Perchè dovevano veder tutto di lassù, come sulla palma della mano: le corsie degli accampamenti, l’interno dei padiglioni, i giochi e le risse dei bivacchi, e Carlo Emanuele che appuntava i cannoni come un capitano d’artiglieria, e Antonio d’Olivares che discuteva con lui, per distoglierlo, come fece, dal tentare l’assalto, tagliando l’aria tutti e due con dei gesti vigorosi, corrispondenti a de’ sonori frasoni spagnuoli, intercalati di Por Dios e di Por Vida mia e di Mal rayo me parta, che facevan rattenere il fiato allo Stato maggiore.
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Nel mezzo dello spianato del castello c’è una piccola cisterna rotonda, quasi tutta piena di sassi e di calcinacci, fra cui son mescolate molte ossa umane. Si dice, e non c’è ragione di non crederlo, che siano ossa di cavorresi trucidati dalle soldatesche del Catinat nel 1690. È piantata là vicino, in memoria di quei morti, una grande croce di legno, che si vede anche dal basso. Quella fu la più miseranda giornata della storia di Cavour, senza dubbio; degno principio di quella orribile guerra della lega, in cui i ministri davan degli ordini da assassini, ed era imposto ai generali l’ufficio di incendiarii, e ai soldati quello di carnefici e di ladroni. La tradizione di quel maledetto macello è ancora vivissima tra il popolo della città e della campagna. Era l’agosto del 1690. Scoppiata appena la guerra, il generale Catinat mosse l’esercito da Pinerolo verso Cavour. Se il bravo marchese di Parella, che stava con quattromila soldati, fra i quali molti valdesi, nelle vicinanze di Luserna, fosse stato avvisato poche ore prima di quella mossa, avrebbe fatto ancora in tempo a sopraggiungere; e allora si sarebbe visto un bel ballo. Sventuratamente, ricevette la notizia troppo tardi. La città era aperta, il castello diroccato da molti anni; il presidio non si componeva che d’una compagnia del reggimento di Monferrato e di pochi drappelli di milizie valdesi. Un’avanguardia comandata dal marchese di Plessis Belloire venne accolta a fucilate da alcuni contadini, che furon subito respinti nell’abitato. Il Catinat mandò a intimare la resa. Il presidio rifiutò. Una colonna francese si slanciò all’assalto con quattro pezzi d’artiglieria. La difesa fu valorosa, ma inutile. Le trincee furono superate, tutto l’esercito irruppe. E allora i soldati, irritati dalle lunghe marcie, infiammati dal sole, e inaspriti dalla resistenza inattesa, saccheggiarono, incendiarono, uccisero ufficiali e soldati, donne, vecchi, contadini, bambini, per le strade, nelle case, nelle chiese, nelle cantine, a calciate di fucili e a colpi di partigiana e di baionetta, sordi a ogni preghiera e ad ogni pianto, senza discernimento, senza tregua, senza misericordia. Una parte degli abitanti e del presidio s’era rifugiata in cima alla rocca: gl’invasori vi s’arrampicarono come un branco di tigri affamate, e trafissero e sgozzarono quanti c’erano. Solo ottanta persone, fra le quali il governatore, alcuni ufficiali, e il resto donne e ragazzi, riuscirono a salvar la vita rifugiandosi in una casa di Cavour, nella quale era entrato il Catinat a prendere un rinfresco da uno speziale, di cui s’è serbato il nome: Marentino. La città presentò per varii giorni uno spettacolo da agghiacciare le vene e da far rizzare i capelli: le piazze ingombre degli avanzi del sacco, quasi tutte le case bruciate, mucchi di cadaveri a ogni passo, rigagnoli di sangue giù per le scale e per le strade, i muri chiazzati di sangue, i cortili allagati di sangue, e in quella orribile solitudine grida di moribondi e risate di pazzi. Nelle memorie del Catinat si danno più di seicento persone morte, tra uomini, donne e bambini; il marchese di Quincy parla di ottocento soldati e di trecento cittadini macellati; un priore, testimonio e narratore del fatto, afferma che di cinquemila abitanti, quattromila furono uccisi. E questo si fece nel secolo di Luigi XIV, sotto Luigi XIV, da soldati del tempo del Pascal, del Descartes e del Corneille, nel paese dov’era passato da mezzo secolo il Galileo. Eppure tutto è dimenticato e ignorato.... a quattro miglia di distanza da Cavour. Solo le contadine dei dintorni salgono una volta all’anno, il giorno dei morti, a fare il giro della cisterna, in lunga fila, recitando il rosario per le “anime della rocca.„ E sarebbe un ufficio pietoso e onorevole, se ci andassero soltanto per i morti. Ma ci vanno anche per raccomandare “alle anime„ il seme dei bachi da seta.
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Mentre parlavamo di quella orrenda giornata, vedevamo sotto la piccola città fresca e allegra, una distesa di tetti d’un bel grigio chiaro, con qualche macchia rossa e verde di muri di case coperti da un tendone di pannocchie di gran turco o da una cortina di pampini. Vedevamo la piazza del mercato e la strada maestra nere di gente, e ci arrivavano all’orecchio, con una sonorità straordinaria, al di sopra del mormorio sordo e continuo della folla, grida stentoree di venditori, muggiti di bovi, canti di galline, rumori di carri, i rintocchi argentini d’una campana accompagnati dai colpi d’un martello sopra un’incudine, dei grugniti e dei latrati lontani, una voce acutissima che urlava: Le mutande a una lira! a una lira! a una lira! — e un vocione di basso che gridava: L’America! — ossia la cuccagna, la roba per niente; e di tratto in tratto, a intervalli uguali, un altissimo e lunghissimo raglio di somaro. Fuori della folla, la pace solita dei piccoli paesi: delle stradicciuole solitarie con dei bimbi che giocavan lungo i rigagnoli, un crocchio di signori davanti a una farmacia, dei terrazzini interni di case dove delle donne stendevan la biancheria ad asciugare, un prete in maniche di camicia dentro a un orto; si vedeva ogni cosa da un capo all’altro dell’abitato, e intorno intorno, il collegio, la piazza d’armi, il camposanto, il passeggio: tutto quello che basta da per tutto a qualche migliaio di persone per ripararsi dal freddo, fare gli affari propri, odiarsi e morire. Poveri accampamenti umani, poveri mucchi di baracche! Che misera cosa son mai, visti dall’alto, con quel piccolo campo chiuso da quattro muri, dove tutto va a finire!
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Alzati gli occhi dalle case, si vede tutto il cerchio delle alpi dal Monte Viso al Monte Rosa, e tutta la pianura piemontese, così vasta ed aperta, che quando è un po’ velata di nebbia, come quella mattina, vien fatto di cercarvi all’orizzonte le vele dei bastimenti e gli spennacchi di fumo dei piroscafi; e par di trovarsi sulla cima d’un’isola rocciosa, dentro a una grande baia, che si stenda da Saluzzo a Cumiana, dai colli dove Silvio Pellico scrisse i suoi più dolci versi, ai campi dove Vittorio Alfieri domò i suoi più focosi cavalli. Ma a me piaceva di più guardar lì sotto quella bella campagna, così uniforme e così varia insieme, tagliata in quadrati verdi e lisci, come panni tesi di scrivanie, in trapezi di terreno lavorato, d’un colore delicatissimo di caffè e latte, rigati di file grigie di salici; in losanghe d’un rosso chiaro, spallierate di siepi nere, contornati di filari d’alberello d’un giallo cromo; in triangoli bianchi di calce, terminati a un vertice dal vermiglio acceso della vite d’un capanno. E al veder tutta quella terra così accuratamente misurata, spartita e difesa, pensavo di quante riflessioni e di quanti conti era argomento ciascuna di quelle piccole figure geometriche, quanta carta bollata avevano fatto imbrattare, quante chiacchiere di avvocati e di procuratori avevan provocato quelle redole e quei rigagnoli, e quanti viaggi tristi alla città, e aspettazioni eterne nelle anticamere dei tribunali, e inimicizie di famiglia, e giuramenti di vendetta, e crepacuori, e partenze disperate per paesi lontani. E allora mi parve che tutti quei poligoni coloriti, così tranquilli e sorridenti poco avanti, si premessero coi lati, e cercassero di ferirsi con gli angoli acuti, e di spaccarsi a vicenda, e di sovrapporsi gli uni agli altri, e di travolgersi, come grandi zattere variopinte di due flotte nemiche e confuse. E pensai ch’era così infatti, e che la battaglia durava da secoli, e che sarebbe forse finita un giorno con qualche gran sottosopra, in mezzo agli urli d’innumerevoli naufraghi; per ricominciar poi più accanita e durare più lungo tempo, appena si fossero riformati gli equipaggi e riparate le flotte.
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Il buon agronomo, intanto, seduto in disparte sopra un rudero, con le braccia incrociate, e gli occhi rivolti alla campagna, pareva immerso in una profonda meditazione; e il professore ne approfittava per svolgermi intorno una specie di panorama storico della pianura di Pinerolo. Io non dovevo mica lasciarmi ingannare da tutti quei villaggi che si vedevan di là, e che presentavano un aspetto così gaio, in mezzo al loro bel verde. Avevan l’aria di buoni proprietari di campagna e di pastori tranquilli; ma eran tutti vecchi soldati travestiti, coperti di cicatrici e pieni di ricordi terribili. Quel grosso paese che si vedeva là a poche miglia, con quel chiesone rosso, che gli dava un’apparenza di beata pace, Vigone, aveva visto scacciare l’esercito di Carlo Emanuele I dagli ugonotti multicolori del generale Lesdiguières, e subito uno dei più orrendi saccheggi del secolo decimosesto. Ma chi poteva contare i sacchi e le fiammate di quell’anima persa del Lesdiguières? Era stato l’Attila della pianura pinerolese, quel cane di vecchio arciere e di ex leguleio. Non c’era uno di quei poveri paeselli che non fosse stato bollato a fuoco da lui. Così, rabbioso di non aver potuto strappar Carlo Emanuele da Cavour, aveva messo a ruba e a sangue Buriasco, un bel villaggio che io vedevo a destra di Pinerolo, come una piccola macchia rossiccia. È vero che ci son pure molti tristi ricordi di famiglia da quelle parti. Di qua da Buriasco, c’è Macello, dove passava il confine tra Francia e Piemonte, quando Pinerolo era dei francesi: lì, per esempio, intorno al castello antico, si ammazzarono fraternamente i soldati di Giacomo d’Acaja e i soldati di Barnabò Visconti. Più in qua di Macello, c’è Garzigliana, dove rimane un torrione del castello di Montebruno, vicino al quale toccò una sconfitta dagli Astigiani quel disgraziato Tommaso II di Savoia, che fu liberato di prigione dai suoi nemici per esser cacciato in carcere dai propri sudditi. A poche miglia di là, sulla destra di Vigone, si vedono i tetti di Pancalieri, un grosso borgo, che Carlo II di Savoia abbandonò al furore delle sue milizie, per punire Claudio di Racconigi, signor del luogo, dopo aver fatto impiccare tutti i soldati del marchese di Saluzzo, che l’avevano aiutato a invadere il Piemonte. Accanto a Pancalieri, Polonghera, presa d’assalto e malmenata da Ludovico d’Acaja, per dare un ricordo salutare al feudatario Riccardo Provana, che aveva amoreggiato col marchese di Saluzzo e coi Visconti. Abbiamo fatto un bel lavoro anche noi altri in casa nostra, come si vede. Lì appunto, vicinissimo alla rocca di Cavour, biancheggiano le case di Villafranca, una delle ventisette Villafranche dei due emisferi, che può dire d’averne visto una grigia nei tempi andati: il comandante della cavalleria di Leone X, Prospero Colonna, il quale, dopo essersi vantato d’acchiappare come uccelli in gabbia quanti francesi fossero calati dalle Alpi, si lasciò sorprendere dagli uccelli, mentre era a tavola in cimberli, e far prigioniero con tutti i suoi cacciatori. E pare che ci sia stato un influsso maligno del bicchiere in questo tratto di paese. Laggiù sulla via di Pinerolo si vede il campanile di Osasco: c’era di presidio nel 1705 una compagnia del reggimento di Monferrato, comandata da un capitano; avevan molto buon vino dei luoghi; presero una necca madornale; una necca così fatta che, essendo sopraggiunti i francesi, e avendo intimato la resa con minaccia di ferro e fuoco, nessuno si trovò in grado nè di resistere nè di negoziare, e ne sarebbe seguito l’incendio e la strage, se non trattava coi nemici una governante savoiarda dei conti di Cacherano, alla quale il paese dovè la sua salvezza, e il presidio una capitolazione onorata. Insomma, non c’è che miserie da ricordare da tutta quella parte. Per confortarsi un poco, bisogna girare a sinistra di Pinerolo: a Bricherasio, dove c’è l’assedio vittorioso di Carlo Emanuele I; a Bibiana, sulla cima del colle di San Bernardo, dove Vittorio Amedeo fece il voto della basilica di Superga, coronato un mese dopo con la splendida vittoria di Torino; a Luserna, dove il marchese di Parella investì, ruppe, fugò, sterminò i tremila soldati del Feuquières, nella guerra del 1690. Ma.... ohimè! da Luserna in avanti, ricominciano le dolenti note. Bagnolo, preso, ripreso e rovinato da francesi, da savoiardi e da spagnuoli. Barge, dove il Denina insegnò la grammatichetta, tartassato pure a venti riprese da imperiali e da francesi nelle guerre del decimosesto secolo. E poi peggio, Revello, e poi anche peggio, Staffarda, e Moretta, dove si raccolse tumultuosamente l’esercito di Vittorio Amedeo, dopo quella tremenda disfatta, protetto ancora nella fuga dal coraggio tranquillo del principe Eugenio. Ma non c’è dunque altre memorie che di batoste e d’ingiurie straniere in questo disgraziato paese? Che roba è questa, signor professore?... Un momento. Eravamo rimasti a Moretta. A Moretta passa la Varaita. Non c’è legato qualche buon ricordo a questa Varaita?... Ma sì, corpo d’un cannone da costa. Una grande giornata, una sfolgorante vittoria, l’esercito di Luigi XIII, accorso in aiuto del duca di Nevers, assalito, sfondato, sbaragliato, ricacciato come una mandra atterrita al di là delle Alpi da Carlo Emanuele I, nell’anno di grazia milleseicento e vent’otto. Dalla parte di Dio! Ecco quasi accomodate le partite. Ero lì lì per buttarmi via, in parola d’onore. — Che gliene pare? — mi disse forbendo le frasi il professore. — È davvero una specola istorica la rocca di Cavour. Io ci vengo una volta ogni anno, tutto solo, e mi assido su questi rottami a rimirar la pianura, e a riandar meco stesso le mie letture predilette; e facendo con la fantasia armeggiare gli eserciti e tuonare le bastite, rivivo, per dir così, nel passato, e in me stesso m’esalto.... come dice il divino Alighieri. —
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— Ebbene, cosa ne dice? — mi domandò il faccione dell’agronomo, avvicinandosi. — Son buoni terreni, glielo assicuro io. Terreni da frumento e da foraggi, da duemila a quattromila franchi l’ettaro. L’inconveniente è che mancano i buoni concimi. Cosa vuole? Fabbriche d’artificiali non ce n’è, lo stallatico non lo sanno conservare, e così bisogna farlo venir quasi tutto di lontano, che costa un occhio, per via dei trasporti. A Pancalieri, per dirle un caso, si fanno venire il guano da Carmagnola. Guardi là.... Campiglione e Fenile. Terre da vigna. Ci abbiamo delle uve eccellenti da queste parti: nebiolo, avarengo, del negretto anche, del fresia. Se si dessero un po’ dattorno a perfezionare i metodi, che non la vogliono intendere, potrebbero fare dei vini numero uno.... E stiamo bene anche a bestiami, sa lei. Dia un’occhiata ai nostri mercati: ottime condizioni fisiche, il bue da ingrasso da venti a venticinque marenghi, grande esportazione di buoi da lavoro. E poi burri, ricotte, formaggi, da leccarsi le mani, quantunque fabbricati all’anticaccia.... siamo sempre lì. Tome da cinque franchi il miria, la bontà personificata.... Quello che dobbiamo confessare, piuttosto, che è una vergogna, è che si sta male, ma molto male in quanto a stalle. Per questo, non s’è all'altezza dei tempi, no proprio. Degli orrori. Basta; è meglio non discorrerne.... Dove guarda? Laggiù c’è Osasio. Da quelle parti si coltiva la canapa. Ci abbiamo una bella varietà di coltivazione, nel circondario. Per esempio, dalle parti di Virle e di Castagnole si coltiva il ravizzone e il pistacchio, da terra; in altri luoghi la barbabietola; e anche un po’ di riso, lungo il Po. Ciascuna parte ha la sua specialità. Vada a Luserna, alla Maddalena: ci trova l’estrazione di fecola di patate. Vada invece a Bibbiana: c’è l’estrazione dell’alcool dalle rasche. Poi c’è un po’ da per tutto l’olio di noce, coi torchi, che è un’industria che ha la sua importanza. Senza parlare della pesca, che tutti lo sanno: bardi e anguille nel Chisone; tinche nel Pellice, e anche dei ghiozzi; dei lucci, dei carponi magnifici nelle diramazioni del Po; e da ogni parte trote e trote, non molte grosse, ma.... lei ne avrà mangiato. Ci son cinquecento pescatori soltanto a Villafranca! E poi, e i boschi, e i castagneti? Ce n’è la bagatella di settecento ettari solamente a Virle, Pancalieri e Lombriasco.... Curioso nome, non è vero? Lombriasco, Piossasco, Frossasco, Osasco, Subiasco.... Buriasco.... Cervignasco.... Famolasco.... Cercenasco.... Ci abbiamo anche dei buoni minerali, di rame, d’antimonio, che so io? dei marmi, da fare una discreta figura a una esposizione. Non c’è che dire, insomma; è uno dei meglio circondari del Piemonte. Soltanto, ecco il gran guaio: manca l’istruzione agraria, mancano i capitali, che vanno tutti in quelle maledette carte dello Stato;... mancano delle buone stazioni di monta. E poi, il peggio di tutto, l’imposta spropositata, che mangia le piccole proprietà, e obbliga il contadino a emigrare. Eh sì, c’è molto, ma molto da fare ancora. Bisognerebbe mettercisi proprio tutti con le mani e coi piedi. Bisognerebbe distribuir meglio le acque d’irrigazione, prima di tutto, che c’è chi n’ha da sprecare e chi non n’ha abbastanza; regolare un poco la pesca, che tutti fanno alto e basso; provvedere alla sicurezza campestre, che va come Dio vuole; migliorare le case coloniche, applicare le nuove macchine, rimboschire.... e sopra tutto, prima di tutto, come le dico, diminuire l’imposta, che è una disperazione. Quando tutto questo sia fatto, il circondario di Pinerolo sarà un paradiso. Vede laggiù Osasco? C’è un magnifico stabilimento di pollicoltura: un gallo e due galline di Concincina, quarantadue franchi, compreso l’imballaggio, e cinquanta centesimi l’uovo. Su queste cose dovrebbe scrivere.
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Intanto il cielo s’era coperto, la nebbia montava; si discese. La strada era deserta come alla salita. Non trovammo che una persona, circa a mezza china, e me ne ricorderò per un pezzo. Era una vecchia contadina, alta di statura, magrissima, e curva; un viso austero, di quelle vecchie straordinarie, quasi spaurevoli, che disegnò il Dorè nella Spagna. Veniva su a stento, soffermandosi ogni tanto a riprendere fiato, e pareva che soffrisse. Che diamine andava a far lassù, tutta sola? Quando fu a tre passi da noi, glielo domandammo. Si fermò, e ci guardò fisso l’un dopo l’altro con due occhi grigi chiarissimi. Poi disse in tuono severo, lentamente: — Vado a pregare; — e ci ripiantò gli occhi in viso, come sospettando una canzonatura. Era venuta da Bibbiana, malata com’era, strascinandosi a gran pena, e faceva quella salita, con quella nebbia, per andare a pregare ai piedi della croce del castello; non era venuta a Cavour con altro fine. — Ma perchè salir fin lassù, — le domandò il professore, — mentre potreste pregare in chiesa? — Parve che quell’osservazione la ferisse. Si rizzò sulla vita, alzando la testa bianca, e levando la mano per aria, e disse con una voce solenne, che ci fece stupore: — Dio è dappertutto! Dio è in chiesa, Dio è sulla rocca, Dio ci vede sempre, Dio ci vede tutti. Bisogna pregare per la salute dell’anima. Pregare per noi, pregare per gli altri, per i vivi e per i morti, per tutti quanti. Non si perde mai niente a pregare. Possiamo morire oggi, possiamo morir domani, io, loro, tutti, da un momento all’altro, possiamo morire. Preghino anche loro. Nessuno sa quel che l’aspetta. Dio è in chiesa e sulla rocca! Dio è da per tutto e ci vede tutti! — E rimase ancora un momento col braccio in alto, in atteggiamento ispirato, guardandoci con due occhi grandi e vitrei di moribonda, con una espressione tra minacciosa e compassionevole, ma così fissa, intensa e strana, che restammo tutti e tre senza trovar parola, guardandoci. Poi riabbassò la testa, e ripreso il cammino lentamente, si perdette nella nebbia che s’addensava sul castagneto.
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La vecchia non aveva ancora toccata la punta del castello, che i miei due amici si scalmanavano in una grande discussione, seduti con me a una tavola della Posta, in una di quelle stanze tipiche degli alberghi di borgata, che il padrone suole accordare graziosamente alle “buone pratiche„ perchè pranzino tranquillamente lontano dal chiasso dei beoni e dalle tanfate di rifritto: un letto matrimoniale da una parte, due salici piangenti di carta sopra il camino, Vittorio Emanuele e Garibaldi sulle pareti, e la bandiera nazionale ravvoltolata in un angolo, che aspetta la festa dello Statuto. L’argomento della discussione era gravissimo. Il professore sosteneva la primazia del vino di Campiglione e l’agronomo, che aveva dei terreni a Bricherasio, negava, voleva che si riconoscesse la superiorità del vino di Bricherasio. La questione era trattata da una parte e dall’altra con una serietà, con un calore, con uno sfoggio di argomenti e di termini tecnici, che non se ne può fare neanche un’idea chi non è nato nel paese del Grignolino e del Barolo. Chi avesse visto le faccie e i gesti senza intender le parole, avrebbe creduto che discutessero uno dei più alti problemi di filosofia. Tutti e due, ragionando, movevano davanti a sè la mano destra, con le punte del pollice e dell’indice riunite, e l’altre dita distese, a modo dei predicatori; e alzavano di tratto in tratto gli occhi al cielo, allargando le braccia, in atto di dire: — Santissimo Iddio, perdonategli questa bestemmia! — Infine,— disse l’agronomo, — il nostro amico giudicherà; — e chiamò l’albergatore, vinaio illustre e consigliere comunale, per domandargli se era in grado di fornirci gli elementi del giudizio. L’albergatore sorrise in atto di compatimento: ci aveva dell’uno e dell’altro, di cinque o sei anni, dinnonplussutra, come dicon le ciane fiorentine. Eran domande da fare a un par suo? Tutto il circondario conosceva la sua cantina. Ci servì subito. Fui eletto arbitro. Mi misero una bottiglia di Bricherasio a destra e una di Campiglione a sinistra, e mi fecero un cenno tutti e due, che significava: “Giusto giudicio dal tuo labbro caggia.„ Quella solennità mi fece ridere. Ma l’agronomo non scherzava; si ebbe anzi quasi a male del mio ridere. — No, scusi, — mi disse, col viso serio, — la quistione è abbastanza importante perchè... lei scrive, e se dà un giudizio... non ponderato, mi perdoni, potrebbe anche far del danno all’esportazione. Mi faccia il favore di provare, rifletta, e poi dia un giudizio spassionato. — Allora mi feci serio anch’io, e cominciai a bere alternatamente un bicchiere di qui e un bicchiere di là, sotto gli sguardi fissi e interrogativi dei due commensali. Ma come fare a dar un giudizio? Ero incerto davvero. Dentro di me davo sempre la palma all’ultimo. Mi trovavo come un giudice fra due litiganti egualmente arguti e facondi, che prova un gusto matto a sentirli, e li fa ripigliar daccapo cento volte, fingendo di non aver capito. Eran due vini superbi, qualche cosa che abbracciava lo stomaco, e andava giù, come dice il portinaio dell’Assommoir, fino alle caviglie, accomodando per via tutti gli affari dell’anima e del corpo. Finalmente, a un certo punto, decisi... di decidere. Ma era troppo tardi. Gli elementi del giudizio s’eran già confusi. I due litiganti dicevano le loro ragioni dentro parlando tutti e due insieme, in maniera che non raccapezzavo più nulla. — Ma insomma, — domandò l’agronomo, incrociando le braccia sulla tavola; — che cosa scriverà? — E non ci sarebbe stato più scampo, se, per fortuna, i miei due commensali non avessero fatto anch’essi una serie interminabile d’assaggi, con lo scopo di confermarsi sempre più nel loro parere; per il che non mi fu difficile di stornare garbatamente il discorso. E lo stornai così bene che cominciò a saltare di qua e di là a rompicollo, dalle ultime elezioni comunali alla maschera di ferro, e dall’attore Toselli a un nuovo sistema di cavatappi, fin che andò a cadere e a rialzarsi in una appassionata discussione intorno ad un uomo celebre, il cui nome si ricorda a ogni passo per quella pianura e su quei monti, perchè vi raccolse la gloria e vi fu maledetto, e vi lasciò di sè un concetto sempre disputato e ancora incerto: il maresciallo Catinat.
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— Un tristo condottiero, come gli altri! — gridava il professore, infocandosi. Egli non capiva come avesse potuto acquistare “una nominanza„ d’uomo generoso e mite, un generale che aveva permesso l’eccidio di Cavour, che aveva lasciato perpetrar le stragi di Val San Martino, dove teneva al suo seguito un giustiziere e due birri, che aveva fatto ammazzare le donne valdesi “per aver molestato i soldati coi sassi„ e che abusava della corda in maniera, da far dire persino ai francesi che “impiccava troppo.„ Il pend trop! E tutti a gonfiare il buon Catinat, il generoso Catinat, “grande, buono, semplice e sublime,„ come diceva il suo bugiardo elogio funebre; “il saggio, il filosofo,„ les talents du guerrier et les vertus du sage, anche il Voltaire, col suo impudente distico dell’Henriade. E il bello era che aveva finito con crederlo anche lui, tanto da sperare che — l’umanità con cui aveva trattato i valdesi gli avrebbe procacciato l’amor degli uomini — e da dire che n’era più altero che delle vittorie della Marsaglia e della Staffarda! Ci voleva della disinvoltura! Sciagurato! — Come se le più infauste pagine delle istorie subalpine non recassero vergato in fronte il suo più infausto nome! Sentiamo, che cosa avrebbe ella da allegare in contrario? — E ingollava una bicchierata di Campiglione per premiarsi della sua eloquenza. Veramente, io avevo una gran voglia, anzi un gran bisogno di ribattere le sue ragioni con lo stesso impeto e con altrettanta voce; ma risposi invece con molta mansuetudine, considerando che il sentimento patriottico, quando è rinvigorito da un buon vino, anzi da due buoni vini, va particolarmente rispettato. No, non la pensavo come lui, nient’affatto. Mi pareva che si potesse dire come il Carutti: — Il bravo e buon Catinat. — Bisognava giudicarlo in relazione col suo tempo, come tutti gli uomini. Le stragi che si commisero in nome suo, sarebbe ingiustizia addebitarle a lui. Tutte le volte che gli fu possibile, le impedì, come nelle Provincie di Juliers e di Limburgo, malgrado gli ordini espressi del Luvois; più volte, anzi, s’attirò addosso le collere dell’implacabile ministro, per aver risparmiato la vita, come fece a Susa, ai presidii vinti delle fortezze. Ma non poteva impedire. Ecco il punto. Quando scese in Italia la prima volta, meno che mai. Gli eserciti lo amavano, perchè era affabile coi soldati, perchè soccorreva e consolava i malati e i feriti, perchè si privava del necessario per loro, perchè era buono e giusto, in fin dei conti. Ma nel furore degli assalti e delle vittorie, non gli obbedivano più, gli sfuggivano affatto di mano, e nè lui nè altri avrebbe avuto la forza e i mezzi di tenerli in freno. Soldati usciti dalla peggior canaglia delle città grandi, imbarbariti dalle guerre selvaggie d’oltralpi, indisciplinati per consuetudine, in specie quelli che condusse in Piemonte, consapevoli degli ordini del Louvois che voleva una guerra sterminatrice, corrotti, eccitati alla indisciplina dagl’intrighi di Corte di cui erano testimoni nello stesso campo del loro generale, — intrighi orditi a danno di lui e per maggior disgrazia del paese che invadevano, — come gli avrebbero obbedito, quando irrompevano vincitori in una città o in un villaggio nemico, dopo un combattimento feroce? E chi teneva in freno gli eserciti di quel secolo, gli imperiali a Mantova nel 1630, le truppe del duca di Lorena in Francia durante la minorità di Luigi XIV, i soldati del Wallenstein nei loro medesimi paesi? Ciò non di meno, egli dava spesso degli esempi terribili; faceva impiccare i maraudeurs, era “senza pietà coi soldati senza pietà„; andava molte volte, travestito, a interrogare i contadini, anche in paese nemico, per sapere se avessero patito sevizie; e rendeva delle giustizie solenni. Ma quello che valeva a tenere i soldati in soggezione nei campi, non valeva più una volta ch’erano sguinzagliati al sangue e alla morte, e che non c’era più un solo uffiziale che potesse tener nel pugno un solo soldato. No, tutta la sua vita lo difendeva dall’accusa di barbarie: la modestia mesticata in tutte le occasioni, l’affetto che ebbero per lui il Fénélon, il Vauban, il La Rochefoucauld, gli uomini più illuminati e più gentili del suo tempo; la solitudine austera in cui visse gli ultimi anni, nella sua terra di Saint-Gratien, riverito e amato dai suoi contadini; la sua coltura, il suo amore per la famiglia, il suo disinteresse, la semplicità della sua vita, tutte le sentenze e i motti che rimangon di lui, segnati dell’impronta di un’intelligenza alta e serena.... No, non era un barbaro. Sarebbe una vera ingiustizia il mettergli il marchio del sangue sopra la fronte. Scoraggiato, indignato, qualche volta egli può non aver neppure tentato d’impedire gli eccessi del suo esercito, per non uscire esautorato da un tentativo di repressione impotente; ma egli ne sentì sempre orrore in cuor suo, e li deplorò sempre con amarezza, o non si ha più diritto di giudicare la natura umana. Non aveva scritto a Parigi, dopo la battaglia di Staffarda: “Bisogna pure aver compassione di questi disgraziatissimi popoli: che cosa s’ha da fare?„ E tutti sanno quello che gli risposero: “Bruciare, bruciare, bruciare.„ No, che cosa volete! Mi è simpatico. Anche la sua figura, quel parruccone arricciolato che gli casca fin sulla corazza, quella fronte spaziosa, quegli occhi grandi e buoni, quella bocca filosofica, quell’aria in cui si riconosce qualche cosa dell’ingenuità dell’antico avvocato che abbandona l’avvocatura per aver perduto una causa che riteneva giusta, mi piace. Ci siamo battuti con lui per vent’anni, ce n’ha date, se n’è prese, è stato vittima dell’ingiustizia nella vecchiezza, ha sopportato l’avversità con animo altero, pigliava fra le braccia i soldati che morivano, morì disprezzando gli onori e la gloria. Rispettiamolo. È così bello esser giusti con un nemico!
— Sta bene, — concluse il mio agronomo, scrollando il capo; — ma ha fatto del gran danno alle campagne.
⁂
Il Catinat ci fece far notte. Quando uscimmo, la rocca di Cavour non era più che una macchiaccia nera che si staccava sul cielo di cattivo umore “incombendo sinistramente„ come diceva il mio professore, alla città già illuminata. Nella stazione del tranvai, dove il piccolo treno aspettava, non c’era che una famiglia di contadini, una nidiata di ragazze e di ragazzetti, carichi d’involti, che s’installarono in un carrozzone di seconda classe, in silenzio. Una donna dai capelli grigi, che pareva la madre, piangeva. Di lì a poco arrivò di corsa un contadino, d’una cinquantina d’anni, secco, una faccia di uomo logorato dal lavoro, ma d’espressione risoluta; salì sul treno, diede un’occhiata alla famiglia, e poi venne ad appoggiarsi al parapetto esterno in faccia a noi. Il nostro agronomo lo riconobbe: era un contadino delle parti di Bagnolo, dove possedeva una piccola vigna e un piccolo prato, una casetta, e un po’ di bosco.
— Dove si va, compar Drea, con tutta la baracca? — gli domandò il mio compagno.
— Eh! eh! — rispose quello, placidamente, accendendo la pipa; — vado lontano. — Poi soggiunse con un gesto vago: — In America.
L’agronomo rise. — Voi scherzate, — gli disse — E la vigna?
— Venduta.
— Siete matto. Com’è possibile? Possedete della terra qui e la lasciate per andare in America?
— Che cosa vuole? Son due o tre anni che mi accorgo di far del brodo consumato. N’esce più di quello che entra. Bisogna bene che mi dia le mani dattorno fin che sono ancora in tempo.
— Ma come mai, se le terre di quelle parti son così buone?
— Buone, va bene. Ma senta un po’. La mia vigna, a volerla far rendere, bisogna rinnovar le viti. Io non ho quattrini. Non posso far la spesa delle viti e dei pali. E poi c’è il mantenimento della famiglia: undici bocche. Sicchè lei vede.
— Ma la vostra famiglia lavorerà, m’immagino.
— Ma che lavorare! Son quasi tutte femmine. Si sa bene il lavoro che possono fare le femmine. Il primo maschio è entrato negli undici anni alla Madonna d’agosto.
— Ma le ragazze, non avete pensato a mandarle a servire, le ragazze? Sarebbero tante bocche di meno.
— Tante bocche di meno; lo so anch’io. Ci ho pensato sicuro. Ma veda un po’ come andò. La maggiore non sa fare che tre pietanze, e i signori non s’accontentavano. La seconda, lasciando stare che non sa di cucina, ha un umore un po’... duro, sa, la sua maniera di fare che è il motivo che non potè mai reggere con nessuno più di tre o quattro giorni. La terza, una settimana dopo partita, gli s’è attaccata la pecòndria, e me la son vista ricascar a casa come le altre.
— Oh insomma! mi pare impossibile che non ci sia una maniera di cavarsela, senz’andare in America! Un uomo alla vostra età con tutta quella famiglia,... È un affar serio, sapete. Pensateci bene. Sareste ancora in tempo a cambiar idea.
— Cosa vuol cambiare idea, santo Iddio! Se avessi trovato quattromila lire in prestito a un piccolo interesse, da poter far la spesa delle viti e il resto, sarei rimasto qui, si capisce. Ma dove trovarlo quel galantuomo?
Gli domandammo in quale America andava. Ci disse:
— Bonosaire.
Gli domandammo se sapeva almeno presso a poco in che parte del mondo si ritrovasse quel paese. — Cosa vuole ch’io sappia? — rispose. — So che c’è trenta giorni d’acqua.
— Avete mai viaggiato per mare?
— Non l’ho mai visto.
— Avete delle lettere di raccomandazione?
— Che lettere vuol ch’io abbia?
— Conoscete qualcheduno laggiù?
— Nessuno.
— E che cosa farete appena sbarcato?
— Ma!
Ci guardammo. Era proprio il caso, come dicono i giornali, di omettere i commenti.
Egli fumava tranquillamente la sua pipa, guardando l’orizzonte nero. La sua famiglia se ne stava rincantucciata nella carrozza, con gl’involti sulle ginocchia, tutti pensierosi. La madre aveva in braccio un bimbo di pochi mesi, e un altro bimbo d’un paio d’anni che le dormiva col capo sulle ginocchia.
Forse mentre scrivo queste parole essi son tutti in un mucchio, sfiniti dal digiuno, con gli occhi fuor del capo, pallidi come cadaveri, rotolanti da due o tre giorni l’un sull’altro nel sudiciume, e agghiacciati dal terrore del naufragio, dentro a un camerone di terza classe d’un bastimento italiano, sbatacchiato come un guscio di noce dalle onde enormi dell’Atlantico, a duemila miglia di lontananza dai due mondi.
Oh! arrivino salvi alla nuova terra, con quei due bimbi sani, povera gente, e vi siano accolti con carità, e vi trovino il pane e la pace.