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gentile: l’ingratitudine lo uccideva. Era altiero: non si ribellava; ma sanguinava di dentro. Per non affliggermi, non potendo più dissimulare, non mi scriveva più. Io udivo dire che viveva solitario e malinconico. Poi seppi che la sua salute se n’andava. Caddi in una profonda tristezza. Passò molto tempo. Avevo ottantasette anni, non mi reggevo più che a stento. Un giorno che m’aveva dato notizie migliori di lui, mentre stavo piangendo di consolazione e ringraziando Iddio, suor Radegonda venne a chiamarmi. Titubava. Capii che c’era mio figlio. Mi mancaron le ginocchia; mi sostenne. Corsi quasi fino al parlatorio, appoggiandomi ai muri, trattenendo un grido di gioia.... Lo vidi, e gettai un grido di dolore! Non era più mio figlio! Incanutito, consunto, smorto, con quell’impronta che lascian nel viso i grandi dolori dissimulati; anche la sua voce era mutata, e le sue braccia non avevano quasi più la forza di stringermi! Solo il suo cuore era sempre lo stesso. Io diedi in uno scoppio di pianto. — Oh figliuol mio! Paolo mio! È dunque tutto vero! E per cagion mia! È dunque la tua povera madre che t’uccide! — Ma egli buono e pietoso negò ancora: non stava bene, sarebbe guarito, avrebbe lasciato l’esercito, sarebbe venuto a stare a Pinerolo, per vedermi tutti i giorni. E accomiatandosi, mi stringeva il capo fra le mani e mi premeva la bocca sulla fronte. E io quasi tornavo a sperare; ma nel dirmi addio gli sfuggì un singhiozzo. — Paolo! gridai allora disperatamente, inseguendolo; non ti vedrò più? Mai più? Senti! Fermati! Perdonami! perdonami!