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la marchesa di spigno 273

il vigore d’una donna provata per la prima volta dalla sventura. Quello stesso silenzio del chiostro, quegli anditi bianchi, quelle vesti nere, quei visi color di cera, quella quiete inalterata delle sorelle, quel mormorio soave delle orazioni, mi sollevavano delle tempeste nel sangue. Tutte le mie ferite si esacerbavano. Un odio mortale mi crescea nell’anima contro i miei nemici. Perchè m’avevano sepolta? Che cosa avevano a temere da me, povera donna? Non erano paghi di avere ucciso il re? Volevano far impazzire e morir me pure, e godere della mia disperazione e della mia agonia? Non ci potevo credere. Non può durare, pensavo, mi libereranno, mi lasceranno andare con i miei figli! Guardavo dalla finestra quei monti e quelle campagne dove aveva combattuto Vittorio Amedeo, e non mi pareva possibile di dover morir torturata in cospetto di quei luoghi! Mi pareva ch’egli dovesse sentirmi piangere e accorrere a liberarmi, e lo chiamavo dentro al mio cuore; avrei gridato il suo nome, se avessi osato; speravo, l’aspettavo qualche volta, come un’insensata; baciavo i suoi ricordi, mi stringevo al seno tutte le cose che serbavo ancora della mia vita passata, singhiozzando delle notti intere, e poi degl’impeti di furore mi travolgevano il sangue e la ragione, e soffocavo gli urli contro i guanciali, augurando che sprofondassero il monastero e la reggia, e che si richiudesse la terra sopra la mia testa. E poi ricominciavo a piangere e ad adorare il passato!

— Molto anche giovò a mantenerla serena, — continuò la superiora, — un’altra parente

De Amicis. Alle Porte d'Italia. 18