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la marchesa di spigno 275

improvvise e strane, e di via vai notturni di monache, fra cui riconoscevo il passo del confessore. Lentamente, d’anno in anno, il mio cuore si ravvicinava a Dio. La vista di tutte quelle povere creature che vivevano e morivano santamente, con una serenità sovrumana, e quella preghiera continua, infaticabile, eterna, che mi sonava d’intorno e ravviava, rialzava perpetuamente i miei pensieri verso il cielo, finirono con aprirmi l’anima alle consolazioni e alle gioie d’una fede che non avevo mai conosciuta. Cominciai a pregare col cuore, e a sentir cadere sulle mie mani giunte delle lagrime che mi facevan del bene. Il mondo in cui ero vissuta non m’appariva più che come una terra lontanissima, dalla quale m’allontanavo senza posa, inoltrandomi in un mare immenso e immobile. Il mio passato e il mio presente diventarono come due esistenze distinte nella mia mente. Mi pareva d’esser passata da un mondo ad un altro. Non ero neanche ben certa, alle volte, che quel passato splendido e doloroso fosse veramente mio e non d’un’altra donna ch’io avessi conosciuta intimamente. Guardavo il mio ritratto con maraviglia, toccavo la mia tavola d’ardesia nera come per interrogarla, non mi pareva vero, vedendo della gente di fuori che si fermava a guardare le mie finestre, mi pareva una cosa strana d’esser io l’oggetto della loro curiosità, d’esser io quella marchesa di Spigno di cui parlavano. Un solo affetto mi legava ancora al mondo: i miei figli. Quetate le tempeste che l’avevan sopraffatto per pochi anni, quell’affetto mi si