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276 | alle porte d'italia |
era ridestato nel cuore più forte, più dolce ch’io non l’avessi mai sentito. Essi m’avevano sempre amata, essi dovevano aver sofferto, avrebbero avuto dei nemici per cagion mia. Io dovevo espiare anche questa colpa, ricompensarli con tanto amore di quei dolori. E li amai allora, dal fondo della mia solitudine; li richiamai intorno a me, li accarezzai con infinito amore nel mio pensiero; li chiamavo a bassa voce, mille volte, per sentire il suono dei loro nomi, e me li scrivevo e li baciavo nella mia cella, di notte, e pregavo per loro, benedicendoli, e piangendo in silenzio, con la speranza che un giorno avrebbero perdonata e compianta la loro povera madre, e onorata la sua memoria infelice....
— Passava molte ore sola nelle sue stanze, — diceva in quel momento la superiora, — e occupava il tempo a cucire e a filare: il monastero conservò per molti anni due pezze di tela ch’essa aveva filate e regalate alla superiora. All’occorrenza, aiutava di propria mano la guardaroba, la sacrestana, e l’archivista, rendeva dei servizi alla scuola e alla infermiera, e aveva un angolo per sè nel giardino, dove coltivava dei fiori per l’altare della cappella maggiore....
— Poi, un grande avvenimento scosse la mia vita, — disse la marchesa, avvivandosi. — Ero nel convento da quindici anni. Ero settantenne, quasi. Durava la guerra con la Francia da un pezzo. Io stavo in pensieri per il mio Paolo, il mio primo nato, che comandava il primo battaglione delle guardie. Aveva trentasette anni, allora, era tenente colonnello; era sempre stato