carcerario. E tutti gli occhi di coloro che guardavano questa scena, vecchi e fanciulli, donne e uomini, invariabilmente si volgevano a quella catena. Pure, egli non pareva soffrirne; non si guardava le mani, non cercava di sollevarle, quieto, dandosi evidentemente al piacere di respirare, egli che veniva da un carcere di pietra, chiuso e soffocante. Se quella catena non fosse stata, forse, tutti intorno non lo avrebbero guardato più: mentre quel giro di ferro, solidamente saldato, che ne avvinghiava i polsi, affascinava tutti quanti. Poteva essere un uomo, come tutti quanti, libero, contento, venuto colà per qualche affare di carcere, coi carabinieri, poteva essere un impiegato, o un liberato, o un testimone, o un parente di qualcuno che abitasse colà. Ma la catena che lo legava nei suoi invincibili anelli di ferro, era la sua qualità, il suo nome, la sua storia; la catena che è la condanna, la catena che è la parola dell’orrendo mistero. Ah invano egli era forte, giovane, dal volto bianco e delicato, dagli occhi azzurri qual bimbo che ignora il male; invano se ne stava tranquillo senza guardare la gente e senza sfidarla, vinto dalla dolcezza del gran paesaggio; invano egli avea l’aria semplice e pacifica, sogguardando ogni tanto con ingenua curiosità l’isola di Nisida — invano, poichè quella catena era il dramma truce, sanguinolente, quella catena diceva a tutti che egli era un essere pernicioso, malvagio, condannato dalla giustizia degli uomini, condannato dalla legge.