Alessandro Manzoni - studio biografico/Capitolo XII
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XII.
Perch’io non posso tralasciar d’amarti!
Questo bel verso ci assicura già che per Alessandro Manzoni l’amore non sarà una debolezza, ma una sola grande virtù, e che dalla donna egli avrebbe
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contento di quel primo saggio della propria gloria, si riposò, e trovò in quel riposo una specie di voluttà, della quale, mi si perdoni la confusione di parole che sembrano farsi guerra, pensando prima da stoico, poi da cristiano, godette molte volte, nella sua vita, con una squisita compiacenza, non vorrei dire da epicureo. Di questa sua beata pigrizia poetica egli fu più volte piacevolmente rimproverato e canzonato da’ suoi amici, uno de’ quali, il poeta Giovanni Torti, lo raffigurava, anzi, sotto il nome di
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Dicono che il Manzoni vecchio si compiacesse molto di quella canzonatura dell’amico, e non mi parrebbe niente improbabile, che quelle famose parole de’ Promessi Sposi, le quali si pigliano generalmente come un complimento puro e semplice al poeta Giovanni Torti, fossero pure un’amabile vendetta intima di Cleone. L’Innominato una volta avea intorno a sè molti bravi, e tra questi, come si capisce, pochi galantuomini; dopo la conversione del padrone si dispersero, e rimasero soltanto presso l’Innominato alcuni fidati amici, pochi e valenti come i versi del Torti, il quale probabilmente ne aveva pure anch’esso dispersi e distrutti molti cattivi, prima di far grazia ai pochi che gli parevano riusciti secondo il suo cuore.3 Ad ogni modo, per molti mesi dopo la pubblicazione del Carme In morte dell’Imbonati, il Manzoni non iscrisse più versi; nè gli valse «il dolce sprone» materno a toglierlo da quella specie di letargia. Quale fu dunque l’occasione, o, per dirla con Massimo d’Azeglio, la tentazione tentante che mosse il giovine Poeta, nell’anno seguente, a comporre il nuovo poemetto Urania? A me pare di non ingannarmi dicendo semplicemente che il Manzoni, in quell’anno, s’era innamorato della fanciulla, che divenne poi sua moglie, Enrichetta Blondel, e che l’Urania fu scritta specialmente per piacerle. Il Poeta incomincia ad invocare le Grazie per cantare un nuovo inno, il quale sia ascoltato, non solo all’ombra de’ pioppi lombardi, ma anco presso i sacri colli dell’Arno, ai quali il Carme foscoliano De’ Sepolcri, uscito nella primavera di quell’anno, dovea più fortemente tentarlo. Anch’egli desidera venire ascritto, non alla turba, ma «al drappel sacro» de’ poeti d’Italia «antico ospizio delle Muse.» La recrudescenza nel desiderio della gloria presso i poeti risponde quasi sempre ad una recrudescenza d’amore; le donne amanti di poeti furono quasi sempre o autrici o principali collaboratrici della loro gloria; anche il Manzoni, il meno erotico forse di tutti i nostri grandi poeti, sentì crescere l’ardore poetico all’improvviso sollevarsi nel suo petto di una fiamma gentile. Ma, dopo ch’egli s’era scostato dagl’imitatori per accostarsi, com’egli canta, «ai prischi sommi,» la poca gloria poetica non bastava più alla sua giovanile ambizione, aut Caesar, aut nihil; anche il nostro pensava dunque fra sè, dopo avere conosciuto il Pindaro Lebrun, o Pindaro, o Dante, o Manzoni; e, dopo avere lodato il primo, si velava sotto la figura del secondo; per avere il diritto di ascoltare il glorioso discorso delle Muse. Dante vien celebrato per aver primo dato le bende ed il manto alla poesia italiana, per averla, primo, condotta a fonti illibate, per averla, maestro dell’ira nell’Inferno e del sorriso nel Purgatorio e nel Paradiso, creata degna di emular la madre latina:
. . . . e nelle stanze sacre |
Quanta maestà e virgiliana soavità di affetto in quel nostro! — A questo punto, nondimeno, il Poeta che non ha per anco rinunciato a tutte le reminiscenze della scuola, si ricorda troppo d’avervi studiata la Mitologia greca; onde quello stesso Manzoni che, pochi anni dopo, scriverà l’Ode satirica intitolata: L’ira d’Apollo, nella quale, in pena d’aver posto da banda le vecchie ciarpe mitologiche, il poeta riformato si farà giocosamente condannare da Apollo a non più bere l’onda Castalia, a non cingersi più la fronte d’alloro, a non più salire sul Pegaso, a non più volare, a cantar sempre in umile stile quello ch’egli sentirà e nulla più:
Rada il basso terren del vostro mondo, |
quello stesso poeta, per rappresentare gli antichi beneficii che le nove Muse recarono un giorno ai mortali, immagina che, discesa dal cielo, la stessa dea Urania gli abbia un giorno cantati al poeta Pindaro. Non sono da sperare stupendi effetti poetici da una tale intonazione mitologica, e però tutto l’Inno, nel tutt’insieme, riesce manierato e freddo. Pure qua e là la natura potente vince l’arte delle scuole, e ne vien fuori qualche verso di calore, di colore e di sapore tutto manzoniano, ove l’effetto è proprio cavato, come in molte delle immagini dantesche, dalla potenza di meditar sopra le impressioni: questi, per esempio:
Fra il romor del plauso, |
Sono versi pittoreschi; ma il Manzoni ricordava senza dubbio, nel comporli una impressione propria, essendo ben noto agli amici del Poeta, com’egli soleva, innanzi a lodi che gli facevano piacere, arrossire come fanciullo.
In questi altri versi, il primo è da notare per l’equivoco della parola amanti, la quale si può riferire alla Gloria, come a tutte le donne amate in genere; ed è vero pur troppo, che di mille innamorati, i quali sognano la gloria, uno solo riesce, con pena, a conseguirla; parecchi de’ versi che seguono, sentono come un soave afflato virgiliano:
V’è la Gloria, sospir di mille amanti: |
L’immagine seguente ci ricorda un’analoga similitudine dantesca; quella che vien dopo ha pure per noi qualche importanza biografica, perchè, sotto la impressione provata dal poeta Pindaro, reso improvvisamente dubitoso delle sue forze, dopo aver fatto concepire di sè solenni speranze, sono da riconoscersi i sentimenti particolari che dovea provare il Manzoni divenuto quasi inerte, dopo le lodi forse più ambite che sperate, onde fu coronato il Carme per l’Imbonati; ed anco questi versi, ove l’Autore trae l’espressione dal proprio modo di sentire, riescono pieni di poetica efficacia:
Come la madre al fantolin caduto, Di far, parlando, alla risposta indugio. |
Ma spogliando il Carme del suo apparato mitologico, noi troviamo in esso i sentimenti particolari del poeta e però un nuovo elemento biografico, del quale ci giova tener conto. Il poeta Pindaro, dopo aver dato prove del suo valore poetico ed onorate le Muse, riesce improvvisamente dubitoso delle proprie forze; onde la Musa discende a rimproverarlo insieme ed aggiungergli coraggio. Il Manzoni, quantunque vago di riposo, quando s’accingeva all’opera non s’arrestava facilmente innanzi alle cose difficili; anzi, metteva più forte impegno per riuscire; il modo con cui tormentò sè stesso negli Inni Sacri, lo sforzo giovanile per frenare i versi volubili e ribelli, il lungo, ostinato studio ch’egli, lombardo, pose nella parlata fiorentina, possono servire di commento a questi versi dell’Urania:
.... Baldanza a quel voler non tolse |
Le Muse e le Grazie discendono sulla terra e recano i loro beneficii ai mortali, cioè la pace, la concordia, la pietà. I versi seguenti del Manzoni, non ancora cattolico, concordano perfettamente col fine dell’Inno sulla Pentecoste, e col precetto evangelico che la mano sinistra non deve sapere quello che fa la destra, e ci dimostrano insomma ch’è una poco pia menzogna il miracolo della conversione dall’ateismo, dal materialismo e dal cinismo del Manzoni, che non fu mai nè ateo, nè materialista, nè cinico. Ma su questo argomento avremo occasione di ritornare; intanto, spogliando della loro veste classico-mitologica i versi che seguono, compiacciamoci di veder già vivo sotto di essa un Manzoni cristiano. Scrivendo nel 1805 al Monti, il giovine Manzoni gli ricordava già che le lettere non sono buone a nulla, se non servono a ringentilire i costumi; nell’Urania, le Muse devono fare qualche cosa di più, insegnarci la pietà ed il perdono delle offese, e la carità benefica e modesta:
Così dal sangue e dal ferino istinto |
Per virtù delle Muse nasce nell’uomo l’amor della fatica industre, il sentimento dell’onore, della fedeltà, dell’umana ospitale fratellanza,
. . . . che gl’ignoti astringe |
I poeti si destano e cantano alla turba le vedute bellezze, la terra non più squallida, ride; al discendere dell’armonia nel cuore dei mortali, l’ira tace e si sveglia un secreto ardente desiderio di carità e di pace, onde la vita si fa bella e riposata:
L’ira |
Dopo aver cantato, le Muse risalgono all’Olimpo e ne ricevono le lodi di Giove, ma per tornar sollecite presso Pindaro, a que’ luoghi che un gentile ricordo rende cari,
. . . . chè ameno |
Le Muse spiegano a Pindaro che, se egli, a malgrado dell’amor delle Muse, non potè ancora sciogliere canti immortali, ciò accade per la vendetta d’un Nume, poich’egli, fino ad ora, negò il canto alle Grazie; senza le quali nè pure gli Dei
. . . . son usi Da lor sol vien se cosa in fra i mortali |
Qui il Manzoni sembra certamente voler fare qualche allusione personale. È evidente ch’egli lascia rivolger la parola a Pindaro, perchè gli parrebbe cosa troppo vana ed orgogliosa obbligar le Muse a discendere dall’Olimpo per lui e augurargli di regnar solo in Olimpia. Se così è, noi dobbiamo riconoscere in questa giovine quercia olimpica, che un giorno regnerà sola, il Manzoni stesso, e domandargli chi possa nascondersi sotto la felce orgogliosa che ingombra intanto la via alla giovine quercia, ma che, in pena della sua temerità, vivrà un anno solo. Gl’indizii precisi od anco probabili ci mancano per arrischiarci a qualsiasi congettura. Osservo, invece, come una potente ragione segreta dovette determinare il Manzoni a compiere la sua prima formola poetica sentir e meditare, con un nuovo elemento che le mancava, la grazia. Il Manzoni vecchio diceva che l’arte deve aver per oggetto il vero, per fine l’utile, per mezzo l’interessante, ossia il bello. Il senso dei versi dell’Urania è il medesimo:
.... sol qua giù quel canto |
Io dubito che l’amore abbia dettato que’ versi, e che nell’anno 1807 il Poeta avesse già veduta la giovinetta che dovea l’anno seguente sposare. L’Urania, a malgrado della bellezza di alcune parti, riesce, tuttavia, un componimento freddo e stentato, a motivo specialmente della morta Mitologia evocata a velare più che a significare i sentimenti vivi e contemporanei del Poeta. Lo studio ch’e’ fece per nascondersi, dopo essersi molto e forse troppo scoperto nel Carme per l’Imbonati, gli fece parer buoni quegli stessi mezzi mitologici, sopra i quali, pochi anni dopo, egli medesimo dovea gettar tanto ridicolo. Ed è a dolersi che l’amico Fauriel non abbia sconsigliato il Manzoni dal ritentar quella vana forma poetica. È da dolersi, ma non da stupire; poichè, in quel tempo medesimo, il Fauriel traduceva la Parteneide, poema alpestre del poeta danese Jens Bággesen,5 ove non solamente si rimettono in iscena gli Dei ma si crea una nuova dea della Vertigine, dove la Jungfrau o la Vergine è allegoricamente rappresentata come una poetica persona viva. Nè pago il Fauriel di tradurre in francese il poema che il Bággesen avea composto in tedesco, invitava il Manzoni a tradurlo in italiano. Ma il Manzoni, che intanto avea già fatto, con la madre, nel 1806 il suo viaggio in Isvizzera e ammirato dappresso le montagne, che vi ritornò forse nel 1807, invece di tradurre, si provò a comporre un poema originale sopra le montagne, accompagnandone l’invio al Fauriel suo secondo duca alpestre, come il Bággesen era stato il primo, con una epistola in versi, della quale il Sainte-Beuve ci ha fatto conoscere un frammento. Alla Vergine ideale del Danese egli opponeva nell’epistola e nel poema una Vergine che le somigliava, da lui conosciuta sui colli orobii, in una villa del Bergamasco: siamo, ove precisamente egli conobbe la sua Enrichetta Blondel. Il suo matrimonio con essa si celebrò in Milano il 6 febbraio dell’anno 1808 innanzi all’ufficiale civile. Enrichetta Blondel aveva sedici anni, era nata a Casirate, apparteneva ad una famiglia di origine ginevrina, di confessione evangelica riformata, onde nel giorno stesso in cui celebravasi il matrimonio civile, veniva in Milano da Bergamo il pastore protestante Giovanni Gaspare Degli Orelli a benedire quelle nozze evangelicamente; testimone dello sposo era non solo un cattolico, ma un prete, il sacerdote Francesco Zinammi (o Zinamini?). Dopo le nozze, gli sposi partirono per Parigi, ov’era rimasta la signora Beccaria. Il 31 agosto dell’anno 1808, il Manzoni scriveva da Parigi al suo amico Pagani: «Ho trovato una compagna che riunisce veramente tutti i pregi che possono rendere veramente felice un uomo e me particolarmente; mia madre è guarita affatto, e non regna fra di noi che un amore ed un volere.» In Parigi nasce al Manzoni una figlia; vien battezzata secondo il rito cattolico e le s’impone il nome di Giulia, in onore della madrina ch’era la nonna, e di Claudina, in onore del padrino Claudio Fauriel.
Note
- ↑ Per la Francia bastavano in ogni modo quelle del Fauriel, per l’Italia quelle del Foscolo.
- ↑ Il signor Romussi crede pure che il Torti nella Torre di Capua raffigurasse il Manzoni convertito in Fra Calisto da Firenze:
......rifuggissi alla Scrittura, e quando
S’avvenne al loco, ove il Maestro disse
Innamorava di ben far la gente.
Che stretto è in quel d’amare ogni comando,
Fu come gli occhi della mente aprisse:
Tutto qui sta (diss’ei) vivere amando,
E amar fu sua scienza fin ch’ei visse;
Di che pur reso in suo sermon potente
- ↑ Anche il Monti, del resto, scrivendo nel 1818 a Giovanni Torti, gli avea detto: «Da chi avete voi imparata l’arte di far versi così corretti, così belli? Fatene di più spessi e crescete la gloria degl’Italiani, il più caldo lodatore della vostra Musa sarà sempre il vostro Monti.»
- ↑ In quell’anno medesimo il Manzoni aveva composto una Canzone di tessitura classica, in onore delle Nove Muse. Ne ho veduto un frammento non molto felice. Ogni strofa dovea descrivere una Musa.
- ↑ L’incontro del Manzoni in Parigi con questo illustre poeta danese non fu, di certo, senza risultamenti. Il Bággesen era nato nel 1761 da una povera famiglia; ricevuto gratuitamente all’Università di Copenhagen, diede tosto parecchi saggi del suo valore nel poetare. In età di ventun anno avea pubblicata la prima raccolta de’ suoi versi, alla quale, dopo sette anni, era serbato l’onore di una versione tedesca; a ventiquattro anni, usciva il suo dramma Uggiero il Danese, che cadde intieramente dopo la parodìa dìa che ne fece l’Heiberg intitolata: Uggiero il Tedesco. Allora il giovine poeta disgustato desiderò lasciare il proprio paese e visitare la Germania, la Svizzera e la Francia; il Duca di Augustemborgo, suo protettore, gliene fornì i mezzi. Il Bággesen viaggiò così fuori di patria per quattro anni, e s’addestrò in questo tempo specialmente nella lingua tedesca, la quale divenne per lui come una seconda lingua. Impromessosi a Berna con una nipote dell’Haller, rientrò per poco in patria, per ripartirne nell’anno 1793 e visitare nuovamente la Svizzera, Vienna e l’Italia. Lo ritroviamo nel 1796 a Copenhagen, aggregato a quel Corpo universitario; ma l’anno dipoi egli s’era già rimesso in viaggio, avea perduto la moglie a Kiel e sposava, in seconde nozze, a Parigi, come più tardi il Manzoni, la figlia di un pastore di Ginevra, con la quale, nell’anno 1798, ritornava in Danimarca. Chiamato a prender parte nella direzione di quel Teatro reale, vi rappresentava un proprio dramma, che fu molto applaudito. Ma, nel 1800, tornava a chiedere un congedo per recarsi a Parigi, dove, dopo avere pubblicato in Amburgo due volumi di poesie tedesche assai maltrattate dai giornali di quel tempo, e il suo poema della Parteneide, scritto pure in tedesco, nell’anno 1806 faceva ritorno a Copenhagen, dove intanto il Rahbez e l’Oehlenschlaeger, coi giovani ammiratori del Goethe e della scuola romantica di Weimar, avevano preso il posto del Bággesen nella simpatia del pubblico. Il nostro poeta ne sentì pena. Volle col suo Labirinto provare di esser anch’esso capace di trattare quel genere di poesia che piaceva ai romantici, ma intanto non si rattenne dallo scrivere una satira contro la moderna scuola, dal pubblicare epigrammi contro i capi romantici, e specialmente contro il Goethe che avea ammirato e certamente molto studiato, come lo prova lo stesso suo dramma Il perfetto Faust, e contro l’Oehlenschlaeger da lui prima molto onorato. Non potendo più esser riguardato come primo fra i poeti della Danimarca, il Bággesen lasciava nuovamente il suo paese nell’anno 1807, e soggiornava ora in Francia, ora in Germania, fino all’anno 1811, scrivendo ora satire ed epigrammi, ora inni d’amore pel suo paese, secondo il suo vario umore poetico. Natura mobile, egli subiva facilmente e mutava impressioni ed idee, in contradizione e lotta continua fra lo spirito romantico ed il classico, fra la fede e lo scetticismo. Il nostro giovane Manzoni, per mezzo del Fauriel, conobbe il Bággesen in Parigi fra gli anni 1806 e 1808, e fu tra i suoi più caldi ammiratori. Il Fauriel non fu amico inutile dei letterati e filosofi, dei quali divenne famigliare; com’egli rivedeva, prima della stampa, gli scritti del Tracy, attirava il Cabanis alle ricerche storiche, come più tardi traduceva e raccomandava ai Francesi le tragedie del suo Manzoni, così, innamoratosi della Parteneide del Bággesen, imprese a tradurla e quasi a rifarla, facendola precedere da una introduzione, ove scriveva il Sainte-Beuve: «A la définition délicate qu’il donne de l’idylle, à la peinture complaisante et suave qu’il en retrace, je crois retrouverà travers l’écrivain didactique l’homme heureux et sensible, l’hôte de la Maisonnette et l’amant de la nature.» Il Fauriel confessava poi che, primo il Bággesen, nella Parteneide, gli aveva dato: «le sentiment des Alpes,» e per questo pregio gli perdonava molte stranezze; il Botta ed il Manzoni parteciparono a quell’ammirazione. Quando nel 1810 il Fauriel pubblicò finalmente la Parteneide in francese, il primo gli scriveva: «Vous avez rencontré des beautés pures et presque angéliques, vous avez été attiré vers elles, vous les avez saisies, vous en avez été pénétré et nous les avez rendues avec le ton et le style qui leur conviennent;» il secondo, come scrive il Sainte-Beuve, "réinstallé à Milan, adressait A Parteneide une pièce de vers allégoriques dans le genre de son Urania, et il semblait se promettre de faire en italien une traduction, ou quelque poème analogue sur ses montagnes. Voici» prosegue il Sainte-Beuve «un passage dans lequel il exprime l’impression vive qu’il ressentit lorsque la belle Vierge lui fut présentée par son second guide, par ce cher Fauriel, qui la lui amenait par la main. Manzoni nous pardonnera d’arracher à l’oubli ces quelques vers de sa jeunesse, ce premier jet non corrigé (non corretto, est-il dit en marge); il nous le pardonnera en faveur du témoignage qu’il y rend a son ami:»
......... Col tuo secondo duca
Te vidi io prima, e de le sacre danze
O dimentica o schiva; e pur sì franco.
Sì numeroso il portamento, e tanto
Di rosea luce ti fioriva il volto,
Che Diva io ti conobbi, e t’adorai.
Ed ei sì lieto ti ridea, sì lieta
D’amor primiero ti porgea la destra,
Di sì fidata compagnia, che primo
Giurato avrei che per trovarti ei l’erta
Superasse de l’Alpe, ei le tempeste
Affrontasse del Tuna, e tremebondo
Da la mobil Vertigo e da l’ardente
Confusïon battuto in sul petroso
Orlo giacesse. Entro il mio cor fêan lite
Quegli avversarii che van sempre insieme,
Riverenza ed Amor; ma pur sì pio
Aprivi il riso, e non so che di noto
Mi splendea ne’ tuoi guardi, che Amor vinse,
E m’appressai sicuro. E quel cortese,
Di cui cara l’immago ed onorata
Sarammi, infin che la purpurea vita
M’irrigherà le vene, a me rivolto,
Con gentil piglio la tua man levando,
Fêa d’offrirmela cenno. Ond’io più baldo
La man ti stesi.
Mi piace ora aggiungere che Parteneide rispose al Manzoni, in lingua tedesca, per bocca dello stesso Bággesen in una poesia intitolata precisamente: Parthenais au Manzoni, la quale si legge nella quinta parte delle Poesie del Bággesen pubblicate dal figlio del poeta a Lipsia nell’anno 1836. Una nota dice: «Questa poesia si fonda sul fatto che dopo che il Fauriel ebbe tradotta la Parteneide in francese, il Bággesen ricevette dal Mansioni la promessa ch’egli l’avrebbe tradotta in italiano. La traduzione francese è in prosa; il Manzoni si proponeva di adoperare la terza rima. Non sappiamo per quali motivi il lavoro non sia poi stato seguìto.» Debbo questa notizia alla cortesia del signor Kr. Arentzen, autore di un pregiato lavoro biografico sopra il Bággesen pubblicatosi di recente in lingua danese. Il signor Arentzen ebbe pure la bontà di trascrivermi gli esametri tedeschi del Bággesen diretti al Manzoni. Anche in essi come nel poema della Parteneide, egli si cela sotto il nome di Nordfrank, il poeta viaggiatore. Parteneide parla e dice come, guidata dal Bággesen, ella visitò la regione del Nord, guidata dal Fauriel la regione dell’Occidente; l’amicizia del Fauriel, essa dice, mi è cara, come quella di Nordfrank. Si compiace in tale compagnia, quando sente un dolce richiamo verso il Mezzogiorno; le par di sognare, le par di viaggiare verso un mondo incantato, e stende la mano al nipote di Dante, del Tasso e del Petrarca, all’amico del Fauriel e del Bággesen, al simpatico Manzoni:
Ach! und ich ahne dass mildere Düft and sanftere Tüne
Wonniger noch mit der blühenden Gluth lebhafterer Farben
Würden umwehn und vollenden den Schmück, wenn irgend ein Enkel
Dantes’, Tasso’s oder Petrark’s mit gönnte der Bildung
Blümenkron, geflückt in des jungfrauheiligen Maro’s
Muttergefild. O reichte die Hand mir Fauriel’s Freund und
Nordfranks! Liebe zuletzt noch lernte, holder Manzoni!
Hold sunt Erröthen Dir schon die freundschaftseliger Jungfrau.
Questi due versi sembrano lasciar capire che al Bággesen fosse noto che nel tempo in cui il Manzoni tornato in Lombardia si preparava a tradurre la Parteneide (1807), per la prima volta conoscesse veramente l’amore, nel suo incontro con un’altra Vergine, la giovinetta Blondel, che divenne, poco dopo, sua moglie; e che ciò possa essere, lo confermerebbe pure la seguente nota che troviamo nel caro libriccino dello Stoppani: I primi anni di Alessandro Manzoni, pag. 234: "I versi pubblicati di preferenza dal Sainte-Beuve, perchè gli tornavano bene ad illustrare il suo soggetto, sento ora con piacere che esistono fra le carte del Manzoni, preceduti da pochi altri che formano il principio del Carme, e seguìti da un numero maggiore che ne costituiscono come il corpo, sia questo o non sia del tutto compiuto." Chi mi dà questa notizia aggiunge che, dopo aver letti quei versi, glien’è rimasta l’impressione che il Manzoni abbia cominciato il suo Carme col richiamo della Vergine ideale della Parteneide, per dire in seguito, come infatti dice, che egli ha trovato in Italia, sui colli orobii, una Vergine a lei somigliante. Sarebbe poi sua opinione che questa seconda Vergine del Manzoni non fosse ideale, ma reale, molto probabilmente la stessa Enrichetta Blondel, che fu poi sua sposa, o che egli deve aver conosciuta la prima volta da vicino, o presso i di lei zii Mariton in una lor villa, nelle vicinanze di Bergamo. Ad ogni modo non sarebbe questo Carme, secondo lui, quel lavoro, a cui allude il Sainte-Beuve, che il Manzoni sembrava promettersi di fare in italiano, perchè un poemetto sul gusto di quello di Bággesen il Manzoni diceva di averlo fatto realmente in ottava rima, e alcune stanze le recitava, anche in questi ultimi anni, a chi l’accompagnava nella passeggiata. Sfortunatamente questo poemetto non si trovò fra i suoi scritti, e pare indubitato che egli l’abbia consegnato alle fiamme.
La stessa Vergine ci descrive finalmente il Poeta in un’Ode giovanile, della quale citerò le strofe più espressive. Il Poeta, ancora irretito nelle immagini mitologiche, ci assicura che la sua fanciulla gli apparve la prima volta in forma somigliante a quella della dea Cinzia. Crediamogli sulla parola, e compiacciamoci ora nel veder partitamente descritte le qualità esteriori della sedicenne sposa sperata dal Manzoni, la quale dovea poi aver tanta parte, per quanto destramente dissimulata, nell’arte sua:
Tal prima agli occhi miei,
Non ancor dotti d’amorose lagrime,
Appariva costei,
Vincendo di splendor l’emule vergini
Per mover d’occhi dolcemente grave
E per voce soave.
Dagl’innocenti sguardi,
Che ancor lor possa e gli altrui danni ignorano,
Escono accesi dardi;
Non certi men, nè di più lieve incendio,
Se dal fronte scendendo il crine avaro
Lor fa lene riparo;
Oh qual tutta di nuove
Fatali grazie ride allor che l’invido
Crin col dito rimove:
E doppio appresta di beltà spettacolo
Sul fronte schietto, trascorrendo líeve
Con la destra di neve.
Nè tacerò la bella
Bocca gentil, fonte di riso ingenuo
E di cara favella;
E in cui prepara, ahi, per chi dunque! Venere
I casti baci e le punture ardite
E le dolci ferite.
Non giova al Poeta il suo proposito, fatto nel Carme per l’Imbonati, di voler seguire la dottrina di Zenone; l’Amore lo ferì; egli è invitato ad amare e a cantare d’amore, quando per l’appunto ben più alti soggetti e più fieri gli occupavano la mente; Amore non vuole, egli esclama:
. . . . . . . . . . ch’io canti rossa
Di sangue Italia, onde ancor pochi godano;
Nè di plebe commossa
Le feroci vendette ed i terribili
Brevi furori, e i rovesciati scanni
Dei tremanti tiranni.
Il Poeta, come nell’Urania, cede alle grazie di Venere, e, per essa, lascia le cure della politica. Notiamo ora questa sua prima confessione poetica, perchè essa ci potrà aiutare, in appresso, a comprender meglio le sue tragedie ed il suo romanzo, e a scusare, in parte, il Manzoni della poca parte attiva ch’egli prese con la sua persona alle vicende politiche Italiane, alle quali diede pure co’ suoi proprii scritti pieni d’efficacia educativa una spinta così gagliarda.