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l’urania — l’idillio manzoniano. 105

rebbe niente improbabile, che quelle famose parole de’ Promessi Sposi, le quali si pigliano generalmente come un complimento puro e semplice al poeta Giovanni Torti, fossero pure un’amabile vendetta intima di Cleone. L’Innominato una volta avea intorno a sè molti bravi, e tra questi, come si capisce, pochi galantuomini; dopo la conversione del padrone si dispersero, e rimasero soltanto presso l’Innominato alcuni fidati amici, pochi e valenti come i versi del Torti, il quale probabilmente ne aveva pure anch’esso dispersi e distrutti molti cattivi, prima di far grazia ai pochi che gli parevano riusciti secondo il suo cuore.1 Ad ogni modo, per molti mesi dopo la pubblicazione del Carme In morte dell’Imbonati, il Manzoni non iscrisse più versi; nè gli valse «il dolce sprone» materno a toglierlo da quella specie di letargia. Quale fu dunque l’occasione, o, per dirla con Massimo d’Azeglio, la tentazione tentante che mosse il giovine Poeta, nell’anno seguente, a comporre il nuovo poemetto Urania? A me pare di non ingannarmi dicendo semplicemente che il Manzoni, in quell’anno, s’era innamorato della fanciulla, che divenne poi sua moglie, Enrichetta Blondel, e che l’Urania fu scritta specialmente per piacerle. Il Poeta incomincia ad invocare le Grazie per cantare un nuovo inno, il quale sia ascoltato, non solo all’ombra de’ pioppi lombardi, ma

  1. Anche il Monti, del resto, scrivendo nel 1818 a Giovanni Torti, gli avea detto: «Da chi avete voi imparata l’arte di far versi così corretti, così belli? Fatene di più spessi e crescete la gloria degl’Italiani, il più caldo lodatore della vostra Musa sarà sempre il vostro Monti.»