Alessandro Manzoni - studio biografico/Capitolo XI
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XI.
Il nome che portava la madre del Manzoni l’avea fatta accogliere in tutte le conversazioni più eleganti e più dotte del Consolato e del Primo Impero. Ad Auteuil, presso Parigi, viveva la vedova dell’Helvetius, in una casa già frequentata dai famosi Holbach, Franklin, Jefferson, Condillac, Diderot, D’Alembert, Condorcet, Laplace, Volney, Garat, Chenier, Ginguenè, Daunou, Thurot, Tracy l’ideologo e Cabanis. Ma il Cabanis frequentava specialmente la Maisonnette ove viveva la vedova del Condorcet, sorella del maresciallo Grouchy e della moglie di Giorgio Cabanis. Fu alla Maisonnette, ove la signora Beccaria si recava con particolare frequenza, che il Manzoni dovette conoscere il grande medico filosofo di Auteuil.
Dal Sainte-Beuve apprendiamo che il Manzoni, parlandone col Fauriel, lo chiamava cet angélique Cabanis. Il Cabanis era nato nel 1757 a Cosnac e morì nel 1808 presso Meulan. Il Manzoni lo conobbe dunque negli ultimi tre anni della sua vita, e al colmo della sua gloria. Nell’anno 1806 il Cabanis aveva indirizzata al Fauriel una bella lettera sopra le cause prime, che fu pubblicata solo parecchi anni dopo la sua morte; probabilmente il Manzoni la lesse manoscritta presso il Fauriel. Il Sainte-Beuve riportò un passo eloquente della lettera del Cabanis; io ne riferirò qui, invece, la conclusione, nella quale il medico filosofo si rivolgeva allo storico sperato dello Stoicismo: «C’est à vous, mon ami, qu’il appartient de nous offrir les images des grandes âmes formées par ces maximes, de retracer dignement des souvenirs si touchants et si majestueux. Sans doute il est toujours utile de proposer aux hommes de semblables modèles; mais, aux époques des révolutions politiques, le bon sens et la vertu n’ont de garantie que dans la constance des principes, dans l’inébranlable fermeté des habitudes. Le débordement de toutes les folies, de toutes les fureurs, les excès de tous genres, inséparables de ces grands bouleversements, troublent les têtes faibles, leur rendent problématique ce qu’elles ont regardé comme le plus certain; les exemples corrupteurs, les succès momentanés du crime, les malheurs, les persécutions qui s’attachent si souvent aux gens de bien, ébranlent la morale des âmes flottantes; le ressort des plus énergiques s’affaiblit lui-même quelquefois, et toutes celles qui ne sont affermies dans la pratique des actions honnêtes que par le respect de l’opinion publique, voyant cette opinion toujours équitable à la longue dans les temps calmes, alors incertaine, égarée et souvent criminelle dans ses jugements, s’habituent à mépriser une voix qui leur tenait lieu de conscience; et si elles ne finissent bientôt par traiter de vaines illusions les devoirs les plus sacrés, il ne leur reste plus du moins assez de courage pour les faire triompher, dans le secret de leurs pensées, des impressions de terreur dont elles sont environnées de toutes parts. Poursuivez donc, mon ami, cet utile et noble travail: si la plus grande partie des temps historiques vers lesquels il vous ramène doivent remettre sous vos yeux les plus horribles et les plus hideux tableaux, vous y trouverez aussi celui des plus admirables et des plus touchantes vertus; leur aspect reposera votre cœur, révolté et fatigué de tant de scènes d’horreur et de bassesse. Jouissez, en le retraçant avec complaissance, des encouragements qu’il peut donner à tous les hommes en qui vit quelque étincelle du feu sacré, surtout à cette bonne jeunesse, qui entre toujours dans la carrière de la vie avec tous les sentiments élevés et généreux; et ne craignez pas d’embrasser une ombre vaine, en jouissant d’avance encore de la reconnaissance des vrais amis de l’humanité.» A me pare tra le cose probabili che il Cabanis, quando scriveva queste parole, scritte, prima del Manzoni, un poco alla manzoniana, per le quali insieme col Fauriel si confortava nella speranza che la nuova gioventù avrebbe raccolto l’esempio delle virtù stoiche, di cui il Fauriel dovea scrivere la storia, sebbene fosse avvezzo a terminare i suoi scritti con una generosa perorazione ai giovani, pensasse questa volta, particolarmente, al giovine amico del Fauriel, al Manzoni, che, nel suo Carme In morte di Carlo Imbonati, fin dal mese di febbraio dello stesso anno 1806 si era fatto un vero programma poetico di Filosofia stoica. In parecchi scritti poi del Cabanis trovo traccie di quello stile modestamente arguto, un po’ vago d’antitesi e di paralleli, che piaceva pur tanto al Manzoni e che gli divenne proprio, ma ch’egli potè forse sentirsi capace di rinnovare leggendo alcuno degli scrittori francesi. Non vorrei ingannarmi, innanzi ai professori di stilistica, dicendo che riconosco, per esempio, anticipato in parte il fare manzoniano in queste parole, con le quali si termina la prefazione del Coup-d’œil sur les révolutions et sur la réforme de la Médecine, del Cabanis: «Cette introduction est la seule partie que j’aie pu terminer. Je m’étais refusé jusqu’à ce moment à la rendre publique, dans l’espoir de compléter un jour l’ouvrage entier tel que je l’avais conçu. Mais le dépérissement total de ma santé ne me permet plus de nourrir cet espoir, qui fut toujours peut-ètre beaucoup trop ambitieux pour moi. Je finis donc par céder aux vœux de quelques amis, et par livrer au public cette faible esquisse. J’aurais voulu la rendre plus digne de lui et d’eux, mais la mème raison qui m’engage à la tirer de mon portefeuille, m’ôte le courage et les moyens de la perfectionner. Telle qu’elle est, elle renferme, je crois, des idées utiles; c’est assez pour écarter les conseils de mon amour-propre, qui peut-ètre la condamneraient a l’oubli; et si nos jeunes élèves, auxquels elle est particulièrement destinée, retirent quelque fruit de cette lecture, l’avantage de les avoir aidés dans leurs travaux sera pour mon cœur bien au-dessus de tous les succès les plus glorieux.» Io non dico che qui dentro ci sia il Manzoni; ma mi pare di ritrovarci, fino ad un certo segno, il suo modo di dire, e però non ho creduto di doverlo tacere. Nel Cabanis, oltre al medico filosofo, vi era l’apostolo, un bisogno continuo di comunicarsi vivamente ed utilmente agli altri; questo bisogno il Manzoni non l’ha sentito in pari grado, anzi, per dire il vero, egli mi pare averlo sentito pochissimo. Il Cabanis non si contentava che il medico fosse dotto; lo voleva principalmente buono; e tutti i suoi migliori scritti riescono ad una tale conclusione. Ma, se il Manzoni non provava la stessa impazienza nel manifestare i proprii sentimenti e nel farli attivi leggendo gli scritti e ascoltando i discorsi di colui che gli parve angelico, dovette provare più volte una viva simpatia, e, approvando in cuor suo i pensieri del sapiente di Auteuil, trarne qualche profitto per la regola della propria vita, ed in parte, anche, in quanto il Cabanis gli parve scrittore efficace, giovarsene per dare, ad un tempo, rilievo singolare e disinvoltura alla propria prosa.
Il Manzoni entrò nella vita con un programma etico ben determinato. Così il Cabanis, quando, nel 1783, ottenne il dottorato, avea proferito innanzi a’ suoi giudici un generoso giuramento in versi non molto eleganti, ma, in compenso, molto sinceri, onde rilevo questi brani:
Je jure qu’à mon art obstinément livrée Et du pauvre d’abord trouveront la chaumière; |
Il Cabanis, come più tardi il Manzoni, tenne fede al suo programma giovanile. E, se fu caso che due uomini come il Cabanis ed il Manzoni, l’uno al tramonto, l’altro al principio della vita, s’incontrassero e si amassero, quel caso almeno non si potè dir cieco, poichè, se il temperamento dei due scrittori era diverso, non potevano incontrarsi due uomini che si somigliassero di più nel desiderio del bene.
Il ritratto del Cabanis che accompagna il primo volume della edizione delle sue opere fatta nell’anno 1823 a Parigi dal Didot, ci offre la figura d’uomo pensoso e malinconico, ma benevolo e dall’espressione soave. La gioventù del Cabanis era stata molto agitata; giovinetto, egli aveva seguìto, in qualità di segretario, un signore polacco a Varsavia; tornato a diciott’anni a Parigi, vi aveva atteso per alcuni anni a lavori letterarii, tra gli altri, a una versione dell’Iliade; ma non trovandosi abbastanza incoraggiato, elesse infine di studiar la medicina; laureato dopo sei anni di studio, si stabilì ad Auteuil, dove ebbe la ventura di conoscere la vedova del celebre Helvetius, che lo trattò come proprio figlio e gli fece conoscere gli uomini illustri che ne frequentavano la casa, tra i quali quel Beniamino Franklin, di cui il Cabanis ci ha poi raccontata così bene e con tanta efficacia morale la vita. Per mezzo dell’Holbach, divenne amico del Diderot, del D’Alembert e del Voltaire. All’arrivo della rivoluzione, il Cabanis ne approvò i principii e ne deplorò gli eccessi. Amico intimo del Mirabeau, ne descrisse la malattia e la morte. Assistette fino all’ultima ora il Condorcet, ne raccolse gli scritti, ne consolò la vedova; poco dopo, si congiunse in matrimonio con una cognata di lei, sorella del generale Grouchy. Nominato quindi professore, membro dell’Istituto, membro del Senato, la sua fama d’allora in poi andò sempre crescendo e la sua vita potè dirsi relativamente felice. Tutti gli scrittori francesi contemporanei s’accordarono nel chiamare il Cabanis non solo un gran medico, professore e filosofo, ma un homme de bien. Questa lode ch’egli ambiva sopra ogni altra, gli meritò pure la gloria di essere amato ed ammirato dal nostro Manzoni; ora, poichè nessuna delle ammirazioni del Manzoni rimase sterile per la sua vita, noi non possiamo tacere che, se il Manzoni tornò in Italia migliore che non ne fosse partito, una parte del merito vuole pure riferirsi all’angelico Cabanis. Quando il Cabanis morì, nel 1808, il suo posto nell’Accademia francese fu occupato da un altro filosofo, un amico, una conoscenza intima anch’esso del Fauriel e del Manzoni, l’ideologo Destutt de Tracy, l’autore dei celebri Élements d’idéologie, nato nel 1751, morto nel 1836.1
Sebbene, per l’età, il Tracy potesse essere padre al Fauriel, sappiamo tuttavia che egli avea tanta fiducia nel criterio di lui, che gli dava ad esaminare e giudicare i proprii scritti prima di pubblicarli. Scrivendo poi al Fauriel, il Tracy gli diceva, citando un bell’adagio orientale, che l’albero dell’amicizia «est le seul qui porte des fruits toujours doux.»
Ma il grande amico, l’anima gemella, nella gioventù del Manzoni, fu Claudio Fauriel.
La signora di Staël, scrivendo al Fauriel, fra le altre cose gli diceva: «Ce n’est pas assurément que votre esprit aussi ne me plaise, mais il me semble qu’il tire son originalité de vos sentiments.» Queste parole ci possono dare la ragione della profonda simpatia, della viva amicizia che il Manzoni sentì pel Fauriel. La forza, la grandezza originale del Manzoni consiste pure nella sua capacità di sentire vivacemente e di tradurre sinceramente il proprio sentimento. Ammiratore del Parini e di Carlo Imbonati, due stoici, il giovine Manzoni arrivava a Parigi e vi incontrava lo stoico Fauriel, nel 1805, cioè nell’anno in cui questi preparava una storia dello Stoicismo ed attirava alle dottrine stoiche i suoi migliori amici. Ma lo stoicismo del Fauriel non si scompagnava da un sentimento filantropico più moderno che lo raddolciva. Amico del vero, e persuaso che il vero si può conciliar sempre col buono, per amor del vero egli amava pure nell’arte la naturalezza. Il Manzoni trovò dunque nel Fauriel più tosto un consenso che un ammaestramento; i due amici confermarono a vicenda, ne’ loro lunghi e geniali discorsi, e determinarono meglio a sè stessi la loro poetica letteraria che riusciva al tempo stesso una poetica della vita. Anche al Manzoni si sarebbero forse potute rivolgere le parole che la Stael indirizzava al Fauriel: «Vous aimez les sentiments exaltés, et, quoique vous n’ayez pas, du moins je le crois, un caractère passionné, comme votre âme est pure, elle jouit de tout ce qui est noble avec délices.» Ingegni critici entrambi, ossia correttivi, erano impediti essi stessi da una clamorosa e tumultuosa dimostrazione de’ loro sentimenti; poeti entrambi, non potevano tuttavia guardare con freddezza alcun oggetto della loro critica; moderavano dunque la passione e scaldavano la riflessione con una specie di compenso euritmico che le metteva quasi sempre fra loro in perfetta armonia.
Il Fauriel sarebbe stato amato con ardore dalla Stael, se egli lo avesse voluto; ma preferì una soddisfazione più viva, quella di essere ammirato da lei, che, deposta oramai ogni speranza di una corrispondenza amorosa, poteva quindi scrivergli: «Je croirai moins de mal de la nature humaine quand votre âme noble et pure me fera sentir au moins tout le charme et tout le mérite des ètres privilégiés.» Si comprende il fascino che un tal uomo dovette esercitare sopra il giovane Manzoni al suo arrivo in Parigi, e si capisce ancora come il Fauriel dovesse fortificarsi ne’ suoi virtuosi convincimenti, trovando adesione ad essi nell’animo di un Manzoni.
Vuolsi egli da ciò argomentare che il Fauriel fosse, nella sua qualità di stoico, insensibile all’amore, e fargli quasi un merito di una tale insensibilità? Non è questo il mio pensiero. Pare, invece, che l’animo del Fauriel fosse preso, più ancora che dalle grazie, dalle virtù della vedova del Condorcet. Essa era nata sei anni prima di lui, ma, se egli amò alcuna donna, fu quella; ed amando fortemente quella, non ne poteva onestamente amare un’altra; perciò Beniamino Constant, scrivendo al Fauriel, dopo avere chiamata la Stael «la meilleure et la plus spirituelle des femmes,» si scusa, soggiungendo queste altre parole significanti: «Je m’aperçois que le superlatif est malhonnête, et je le rétracte pour l’habitante de la Maisonnette.» Il Fauriel era nato per sentire fortemente l’amicizia, degno quindi d’incontrarsi col Manzoni che si mostrò anch’esso affettuoso e costante nelle sue amicizie. E si può ancora riferire al Manzoni quello che il Sainte-Beuve scrisse del Fauriel: «En lui les extrémités, les terminaisons de l’âge précédent se confondent, se combinent à petit bruit avec les origines de l’autre; il y a de ces intermédiaires cachés qui font qu’ainsi deux époques, en divorce et en rupture à la surface, se tiennent comme par les entrailles.» Come il Fauriel comunicò al Cabanis, ad un ideologo, ad un filosofo, che era pure non grande, ma neppure infimo poeta, il proprio amore delle indagini storiche, così ne innamorò un altro poeta più grande e più originale, il nostro Manzoni. Il dramma storico, il romanzo storico, il discorso storico, la Storia della Colonna infame, riconoscono per loro padre legittimo, effettivo, il Manzoni; ma se il Manzoni ne fu il padre, il Fauriel ne vuol essere tenuto come l’amoroso padrino. Alla sua volta, il Manzoni, rapito da un nuovo profondo sentimento religioso, dovea forse contribuire ad animare di nuova poesia cristiana il sentimento stoico, quasi pagano, del Fauriel, e aggiungere a’ pensieri virili dello storico una maggior soavità di espressione poetica. Il Fauriel poi ed il Manzoni erano di quegli uomini, in compagnia dei quali, anche non volendo, si diventa migliore: il poeta danese Baggesen, per esempio, che era temuto da’ suoi avversarii per i suoi frizzi e per le sue invettive, presso il sereno e virtuoso Fauriel diveniva o voleva almeno apparire un agnello: i frammenti delle sue lettere al Fauriel pubblicati dal Sainte-Beuve lo dimostrano.
Lo stoico Fauriel, amico della vedova del Condorcet, ma, senza dubbio, amico nel più nobile senso della parola, dovea tenere il posto presso il Manzoni di quel Carlo Imbonati, lo stoico discepolo del Parini, ed amico della signora Giulia Beccaria. Quando la signora Condorcet morì nel 1822, il Fauriel venne a cercare conforto al suo vivo, irreparabile dolore, presso il suo Manzoni, a Brusuglio.
Premesse queste poche parole intorno alle ragioni profonde della simpatia ed amicizia che legò insieme il Manzoni ed il Fauriel, mi giova ora, con la guida del Sainte-Beuve, seguire i discorsi che i due grandi scrittori tennero in Parigi sull’arte loro. Ma io discorderei tosto dall’illustre critico francese, il quale attribuiva al Fauriel il merito d’avere, dopo la lettura del noto Carme In morte dell’Imbonati, non pure consigliato al Manzoni di perfezionarsi nel verso sciolto, ma indicatigli «les modèles qu’il préférait.» Per quanto il Fauriel fosse intelligente di poesia italiana, conviene ammettere che il Manzoni se ne intendesse un poco più: il Fauriel provavasi egli pure a scrivere sonetti italiani e li leggeva al Manzoni; ma, se que’ sonetti avessero avuto un vero valore, è assai probabile che gli avrebbero sopravvissuto. Il Fauriel deve avere semplicemente ammirato i bei versi del Manzoni, e convenuto con lui che il miglior modello di verso sciolto italiano era quello del Parini, che molto probabilmente il Manzoni fece conoscere al Fauriel e non, di certo, viceversa. Il Sainte-Beuve scrive, del rimanente, egli stesso parlando del Manzoni: "Le divin Parini, comme il l’appelait quelquefois, fut son premier maître; mais, en avançant, son vers tendit de plus en plus à se dégager de toute imitation prochaine, à se retremper directement dans la vérité et la nature." Il che è vero soltanto, se si confronti lo sciolto della tragedia con quello del Carme per l’Imbonati, ma non potrebbe stare se si volesse riguardare come un progresso l’Urania ed altri componimenti lirici immediatamente successivi, rispetto a quel primo Carme mirabile per verità e naturalezza. Ma a questo punto non mi giova più citare; mi conviene invece riferire, per intiero, quanto il Sainte-Beuve ci lasciò scritto intorno ai discorsi principali che si tennero su argomenti letterarii fra il Manzoni ed il Fauriel, dall’anno 1806 all’anno 1808.
«Quante volte (scrive il Sainte-Beuve), correndo l’estate del 1806 o alcuno degli anni dipoi, nel giardino della Maisonnette e fuori, per le colline di Saint-Avoie, sul pendio di quella vetta, onde si scorge sì bello il corso della Senna, e l’isoletta coperta di salici e di cipressi, da cui l’occhio si allarga contento su quella fresca e tranquilla vallata, quante volte i due amici andavano ragionando tra loro sul fine supremo d’ogni poesia, sulle false immagini di che conveniva spogliarla, sull’arte bella e semplice che bisognava richiamare alla vita! Certo, il Cartesio non fu tanto insistente nel raccomandare al filosofo di deporre le idee della scuola e i pregiudizii dell’educazione, quanto il Fauriel nel raccomandare al poeta di liberarsi intieramente da quelle false immagini che sogliono ricevere nome di poetiche. Bisogna che la poesia sia cavata dall’intimo del cuore, bisogna sentire e saper esprimere i proprii sentimenti con sincerità. Quest’era il primo articolo della riforma poetica meditata dal Fauriel e dal Manzoni. Non è però che di mezzo alle speranze questi non sentisse un’amarezza nel cuore. Ben intendendo che la poesia non può corrispondere nè alle sue origini nè al suo fine, se non opera sulla vita del popolo e della società, scorgeva facilmente, che, per mille titoli, l’Italia non poteva arrivare a tanto. La divisione degli Stati, il difetto d’un centro comune, l’ozio, l’ignoranza, le pretensioni locali avevano arrecato differenze troppo profonde tra la lingua scritta e le parlate. Quella divenne addirittura una lingua morta. Non potè quindi prendere ed esercitare sulle varie popolazioni un’azione diretta, immediata, universale. E così, per una contradizione veramente singolare, la prima condizione in Italia d’una lingua poetica, pura e semplice, era di fondarsi sull’artificio. Il Manzoni sentì assai presto la gravità di questo inconveniente. Egli non poteva contemplare senza un certo piacere, misto d’invidia, il pubblico di Parigi tutto plaudente alla commedia del Molière. Quel vedere un popolo intero che gustava e intendeva in tutte le loro parti i capolavori del genio, come cosa sua, quasi ponendosi in comunicazione con esso, gli pareva un sintomo di quella vita attiva che temeva fosse divietata a una nazione divisa in tanti dialetti. Egli ch’era destinato a riunire un giorno i più eletti ingegni del suo paese in un concorde sentimento d’ammirazione, egli allora non credeva possibile siffatta unanimità, o almeno dolevasi che non potesse partire dal maggior numero. Il Fauriel lo incoraggiava con autorità, e ponevagli sott’occhio molti illustri esempi, anche di scrittori italiani, ricordandogli che tutti, più o meno, ebbero a lottare con difficoltà della stessa specie.»
Il soggiorno in Francia non valse di certo al Manzoni per fargli imparar meglio quella lingua italiana, allo studio della quale egli si appassionò poi tanto dopo il suo ritorno in Italia. Ma gli diede, quanto allo stile, quella naturalezza, quell’agevolezza e disinvoltura che le nostre scuole e le nostre Accademie non ci hanno mai insegnate, avendo anzi mirato molto spesso a nascondere con la frase elegante i pensieri, o il vuoto de’ pensieri, più tosto che ad esprimerli. Il Manzoni ammirava grandemente e sovra tutti i prosatori il Voltaire, le opere del quale egli citava spesso, avendole fino al suo trentesimo anno 1820 avute sempre fra le mani! Se ne privò poi, per farne dono al proprio confessore monsignor Tosi, canonico del Duomo, poi vescovo di Pavia, e togliersi così la tentazione di ascoltare il Voltaire altrimenti che come scrittore, e di sorbire con l’ambrosia delle belle parole il veleno di pensieri che quella fede cattolica, della quale egli aveva assunta la difesa, gli comandava di riprovare.2