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106 l’urania — l’idillio manzoniano.

anco presso i sacri colli dell’Arno, ai quali il Carme foscoliano De’ Sepolcri, uscito nella primavera di quell’anno, dovea più fortemente tentarlo. Anch’egli desidera venire ascritto, non alla turba, ma «al drappel sacro» de’ poeti d’Italia «antico ospizio delle Muse.» La recrudescenza nel desiderio della gloria presso i poeti risponde quasi sempre ad una recrudescenza d’amore; le donne amanti di poeti furono quasi sempre o autrici o principali collaboratrici della loro gloria; anche il Manzoni, il meno erotico forse di tutti i nostri grandi poeti, sentì crescere l’ardore poetico all’improvviso sollevarsi nel suo petto di una fiamma gentile. Ma, dopo ch’egli s’era scostato dagl’imitatori per accostarsi, com’egli canta, «ai prischi sommi,» la poca gloria poetica non bastava più alla sua giovanile ambizione, aut Caesar, aut nihil; anche il nostro pensava dunque fra sè, dopo avere conosciuto il Pindaro Lebrun, o Pindaro, o Dante, o Manzoni; e, dopo avere lodato il primo, si velava sotto la figura del secondo; per avere il diritto di ascoltare il glorioso discorso delle Muse. Dante vien celebrato per aver primo dato le bende ed il manto alla poesia italiana, per averla, primo, condotta a fonti illibate, per averla, maestro dell’ira nell’Inferno e del sorriso nel Purgatorio e nel Paradiso, creata degna di emular la madre latina:

. . . . e nelle stanze sacre
     Tu le insegnasti ad emular la madre,
     Tu dolce maestro e del sorriso,
     Divo Alighier, le fosti. In lunga notte
     Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,
     Tu nostra.