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3 gennaio

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     L'edera    di Grazia Deledda, Camillo Antona Traversi (1923)

 
ATTO PRIMO.
Stanza a pian terreno, in una vecchia casa signorile sarda. Il soffitto è piuttosto basso, in legno scuro, sostenuto da grosse travi. — Le pareti sono intonacate di calcina; ma appajono giallastre, perchè affumicate.

Nella parete di fondo, a destra, una porta che comunica con la cucina: da questa, per mezzo di un’apertura, s’intravede un cortile rustico: — a sinistra, una parete posticcia nasconde una scala: — tra la scala e la porta della cucina, una specie d’alcova, formata nel sottoscala, dove sta un tettuccio. — Una tenda mobile davanti all’alcova.

Nella parete di sinistra, una porta di architettura antica comunica con un vestibolo esterno e con la strada: — tra questa e la parete posticcia, una cassa di legno nero scolpita e un guardaroba tarlato contro la falsa parete.

Nella parete di destra, una finestra piuttosto alta, munita d’inferriata, dalla quale si scorge un bosco: — sotto la medesima, un antico canapè, dalla stoffa logora.

Nel centro della stanza, una vecchia tavola di noce. — Qua e là, vecchie sedie scolpite, un guindolo, e altri mobili in cattivo stato. — Quadretti sacri, e armi antiche, alle pareti.

Nell’insieme, deve apparire l’antica dimora di nobili proprietarj sardi decaduti.

10 gennaio

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     Roma sotterranea cristiana    di Pellegrino Tonini (1879)

Il Cimitero di Santa Sotere.

Chi abbia già letto il 2.° tomo dell’Opera, facilmente ricorderà come in quello accennasse il ch.mo A. ad un’ampia sotterranea Necropoli, tra la via Appia e l’Ardeatina, a occidente delle Cripte papali, la quale si aggiunge ed allaccia alla vastissima Callistiana. Allora però ei si studiò solamente di determinarne i veri limiti; e l’egregio fratello Michele dimostrò analiticamente, non con ordinaria dottrina geologica e architettonica, essere una e sola vastissima regione, formata di quattro zone, aggiuntesi successivamente le une alle altre.

Non era, è vero, ignota ai sacri Archeologi questa vasta regione della Callistiana necropoli, e già si conosceva nel sec. XV; se non che rimasta fin qua, non pure anonima (senza cioè un particolare storico nome come le altre) non si conosceva nemmeno il suo proprio ed esatto perimetro: donde tante erronee opinioni ne vennero e in fatto di nome e di topografia.

24 gennaio

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     Gastronomia    di Archestrato di Gela (Antichità), traduzione dal greco di Domenico Scinà (1842)

Quanto conobbi in viaggiar mostrando
A Grecia tutta, ove miglior si trova
ogni cibo dirò ogni liquore.

Di vivande squisite unica mensa
Accolga tutti, ma di tre o di quattro
O di cinque non più sia la brigata:
Perchè se fosser più cena sarebbe
Di mercenari predator soldati.

Dirotti in prima, o caro Mosco, i doni
Di Cerere, la Dea di bella chioma;
Tu nella mente i detti miei conserva.

31 gennaio

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     Malombra    di Antonio Fogazzaro (1881)

 
CAPITOLO I.

In paese sconosciuto.

Uno dopo l’altro, gli sportelli dei vagoni sono chiusi con impeto; forse, pensa un viaggiatore fantastico, dal ferreo destino che, oramai senza rimedio, porterà via lui e i suoi compagni nelle tenebre. La locomotiva fischia, colpi violenti scoppiano di vagone in vagone sino all’ultimo; il convoglio va lentamente sotto l’ampia tettoia, esce dalla luce dei fanali nell’ombra della notte, dai confusi rumori della grande città nel silenzio delle campagne addormentate; si svolge sbuffando, mostruoso serpente, tra il laberinto delle rotaie, sinchè, trovata la via, precipita per quella ed urla, tutto battiti dal capo alla coda, tutto un tumulto di polsi viventi.

V’ha poca probabilità d’indovinare che cosa pensasse poi quel viaggiatore fantastico, rapito tra fiotti di fumo, stormi di faville, oscure forme d’alberi e di casolari. Forse studiava il senso riposto dei bizzarri ed incomprensibili geroglifici ricamati sopra una borsa da viaggio ritta sul sedile di fronte a lui; poichè vi teneva fissi gli occhi, di tanto in tanto moveva le labbra, come chi tenta un calcolo, e quindi alzava le sopracciglia, come chi trova di riuscire all’assurdo.

7 febbraio

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     Il vecchio della montagna    di Grazia Deledda (1920)

 
I.

Melchiorre Carta saliva la montagna, ritornando al suo ovile.

Era un giovine pastore biondastro, di piccola statura; una ruga gli si disegnava fra le sopracciglia folte e nere, che spiccavano nel fosco giallore del suo volto contornato da una rada barbetta rossiccia. Anche la sopragiacca di cuoio del suo costume era giallognola, e il cavallino che egli montava era rossastro, tozzo, angoloso e pensieroso come il suo padrone.

Melchiorre era un giovine di buoni costumi e d’ottima fama; molto spensierato ed allegro non lo era mai stato, ma da qualche tempo si mostrava più taciturno del solito, e si sentiva quasi malvagio, perchè sua cugina Paska lo aveva abbandonato alla vigilia delle loro nozze. E senza motivo! Così, solo perchè ella si era improvvisamente accorta di essere graziosa e corteggiata anche da giovani signori.

14 febbraio

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     L'Esclusa    di Luigi Pirandello (1901)

 
I.

Sotto la cappa del camino, ch’era come una mezza tramoggia enorme rovesciata, la vecchia Pentàgora, quella sera, borbottava tra sè più del solito, mordicchiando le còcche del grosso fazzoletto nero, di lana, che teneva in capo, annodato sotto il mento.

Come se le stipe e i tizzoni, scoppiettando, cigolando o levando fanfaluche, le parlassero, ella soleva tutto il giorno, lì, aggrondata e ingrugnata, far lunghi discorsi col fuoco, e ogni tanto gestiva a scatti, con le mani secche, nere, dalle dita agilissime. Parlava continuamente così, tra sè, fondendo le parole precipitose, quasi imitasse un ruzzolìo di fusi.

Le rare volte che si levava dal canto del fuoco e andava a ronzare come un moscone per casa, pareva s’aggirasse in un sogno smanioso, con gli occhi senza sguardo, le dita sempre irrequiete. Scopriva talvolta.... non si sapeva che cosa, nei muri, per terra, per aria: si arrestava incantata a mirare con gli occhi chiari, ilari, parlanti; la faccia cotta dal fuoco le si allargava in un sorriso di beatitudine, che destava una certa invidia mista di costernazione pure in coloro che la commiseravano.

21 febbraio

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     Le Ferrovie    di Filippo Tajani (1911)

LEZIONE I

L’invenzione delle ferrovie.

Le prime vie di ferro. — Avrete certamente notato che alcune vecchie strade non selciate son munite di due liste di pietra levigata e dura, che servono a rendere più agevole il passaggio dei carri, impedendo che le ruote affondino nel terreno. In questo antichissimo costume, dovuto ad un concetto di estrema semplicità, si può riconoscere l’origine della strada ferrata.

Nelle miniere di carbone inglesi e germaniche anzichè alle liste di pietra, più comuni nei nostri paesi, si soleva ricorrere, sempre allo scopo di rendere più facile il passaggio dei carri, a file di tavoloni su cui si facevano correre le ruote. Così, del resto, si fa anche attualmente nei lavori di sterro, quando il trasporto delle materie scavate ha luogo con carriuole a mano o con carretti a cavalli su sentieri provvisori. In Inghilterra, dove il ferro abbonda, sorse facilmente l’idea di sostituire al legno, che si consuma rapidamente, regoli di ghisa: si ebbero così le prime rotaie.

28 febbraio

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     Anime oneste    di Grazia Deledda (1905)

 
Dopo la morte della vecchia donn’Anna, sistemati gli affari, Paolo Velèna prese con sè la piccola nipote e, com’era stabilito, la condusse ad Orolà, presso la sua famiglia.

Orolà è una piccola sotto-prefettura sarda, nella provincia di Sassari. Città fiorentissima sotto i Romani, decaduta poi per le scorrerie dei Saraceni, risorse sotto il dominio dei Barisone, giudici o re di Torres, e si mantenne forte sino all’abolizione dei feudi in Sardegna, avvenuta nella prima metà di questo secolo.

Nel censimento delle popolazioni sarde, fatto da Arrius, illustre ploaghese che visitò le 42 città dell’isola ai tempi del console Marco Tullio Cicerone (116-43 a. C.), Orolà figurava per cento mila abitanti, tra l’urbe, i castelli e i villaggi sottoposti, e Antonio di Tharros, nella relazione dei saccheggi saraceni, parla di grandi vestigi lasciati dai Romani in Orolà, fra cui magnifiche terme costrutte sotto il pretore M. Azio Balbo. Al presente Orolà non conserva alcun ricordo della dominazione Romana, tranne che nel costume e nel dialetto latino, e i suoi abitanti sono appena sei o sette mila. Il suo solo monumento è Santa Croce, vecchia chiesa pisana del 1100, con affreschi del Mugano, pittore sardo del secolo XVII.

6 marzo

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     Annalena Bilsini    di Grazia Deledda (1927)

 
Per San Michele la famiglia Bilsini cambiò di casa ed anche di terra.

Era una famiglia numerosa: cinque figli maschi, la madre vedova, e uno zio di lei, che, sebbene mezzo paralitico e senza un soldo di suo, poteva dirsene il capo.

Appunto per i consigli dello zio Dionisio, i Bilsini avevano venduto la loro piccola proprietà per prendere in affitto un vasto fondo, già antico feudo gentilizio che, di decadenza in decadenza, acquistato in ultimo a vile prezzo da un fabbricante di scope, veniva da questi concesso a modestissime condizioni annuali: cento dieci lire la biolca, due capponi, quaranta uova d’inverno e un cestino d’uva da tavola d’estate.

Da anni questa terra giaceva in abbandono, eppure i Bilsini vi andavano come verso la Terra Promessa, o meglio come verso una miniera da sfruttare: poichè sapevano che solo laggiù la loro attività e la forza prorompente dalla loro giovinezza potevano esplicarsi e convertirsi in oro.

3 aprile

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     Il cappello del prete    di Emilio De Marchi (1888)

 
Il barone Carlo Coriolano di Santafusca non credeva in Dio e meno ancora credeva nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella iettatura.

A vent’anni voleva farsi frate, ma imbattutosi in un dotto scienziato francese, un certo dottor Panterre, perseguitato dal governo di Napoleone III per la sua propaganda materialistica ed anarchica, colla fantasia rapida e violenta propria dei meridionali, si innamorò delle dottrine del bizzarro cospiratore, che aveva anche una testa curiosa, tutta osso, con due occhiacci di falco, insomma un terribile fascinatore.

Per qualche anno il barone, detto «u barone», lesse dei libri e prese la scienza sul serio: ma non sarebbe stato lui, se avesse per amore della scienza rinunciato alle belle donne, al giuoco, al buon vino del Vesuvio, e ai cari amici. Il libertino prese la mano sul frate e sul nichilista, e dalla fusione di questi tre uomini uscì «u barone» unico nel suo genere, gran giuocatore, gran fumatore, gran bestemmiatore in faccia all’eterno. Nulla, e nello stesso tempo amabile camerata, idolo delle donne, coraggioso come un negro, e a certe lune fantastico come un bramino.

10 aprile

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     Osservazioni critiche intorno ad alcune pratiche comunemente seguite nell'educazione del baco da seta    di Gaetano Cantoni (1847)

 
Per Baco o Verme da seta s’intende la larva del Bombix mori appartenente alla classe degli insetti ed all’ordine dei Lepidopteri a farfalla notturna. Quest’insetto passa per tre diversi stati di vita o metamorfosi onde acquistare lo stato perfetto di farfalla. Dall’uovo nasce il germe o Larva, la quale dopo aver cangiata tre o quattro volte la pelle nel decorso di circa trentacinque giorni, si rinchiude allo stato di Ninfa o crisalide entro un bozzolo ch’essa stessa si forma, dal quale pure dopo quindici giorni circa esce allo stato di Farfalla, che, fecondata, depone le uova e muore in pochissimi giorni. Il baco da seta è originario della China e del Bengala, ove pure cresce naturalmente il gelso, fra il 15° ed il 30° di latitudine Nord, e da que’ luoghi artificialmente venne trasportato anche sino al 41° di detta latitudine. In Europa non venne introdotto che nel sesto secolo dell’era volgare, sotto il regno di Giustiniano, da alcuni missionarj Greci provenienti dalla China; e nell’epoca delle prime Crociate la sua coltivazione s’introdusse in Sicilia e nell’Italia, da dove a poco a poco s’estese in tutta quella parte d’Europa che è al disotto dei 48° di latitudine Nord.

17 aprile

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     Descrizione della patria del Friuli    di Marin Sanudo il Giovane (1502-1503)

In Europa nela extremita et decima parte de la bella italia sotto el polo artico irrigato da ameni fiumi: ornato de opulente et riche terre et munito de superbi castelli uno ameno et dilectevole piano situato si vede. Lambito dil quale segondo che per lo suo diametro se comprende e cercha miglia 250 vallato da la parte septentrionale et orientale de altissimi monti et da lostro lo adriatico mare et dal ponente el pingue fiume de Livenza lo chiude et Carnia dali antiqui cosmographi ma hora patria del frioli da qualunque chiamato et zia segondo se dice fu reame et colonia de romani et al presente e patriarchato recto et dominato dalo invictissimo et sempre augusto stato de Veneciani gli quali segondo le irrefragabile leze de lynclito lor senato ogni XVI mesi mandano al governo de quella uno degli primarii soi patricii il titulo dela dignità dil quale e luogo tenente de la patria et fa il segio et residentia sua ne la bella et zentil terra de Udene la dove come signore la innata justicia veniciana ministra et fa ragione a tuti gli foro juliani incoli che al justissimo suo Tribunale se apellano.

24 aprile

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     Gianni di Parigi    di Felice Romani (1839)

 
SCENA PRIMA.

Sala nella Locanda ec.

Coro d’inservienti e donne addette alla locanda,
che vanno assettando la sala unitamente a
Lorezza.

Coro

Su, sbrighiamoci, spazziamo;
  Attenzione, diligenza.
  Qui le tavole accostiamo,
  Là posiamo la credenza;
  Ogni cosa sia disposta
  Con decenza — e proprietà...
La locanda della posta
  Una reggia sembrerà.

Lor.

Se sapeste a chi s’infiora
  Questo albergo fortunato,
  Se vedeste la signora
  Cui l’alloggio è preparato,
  Voi direste: ci vuol altro
  Per cotanta maestà!

1 maggio (duplicato)

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     L'edera    di Grazia Deledda, Camillo Antona Traversi (1923)

 
ATTO PRIMO.
Stanza a pian terreno, in una vecchia casa signorile sarda. Il soffitto è piuttosto basso, in legno scuro, sostenuto da grosse travi. — Le pareti sono intonacate di calcina; ma appajono giallastre, perchè affumicate.

Nella parete di fondo, a destra, una porta che comunica con la cucina: da questa, per mezzo di un’apertura, s’intravede un cortile rustico: — a sinistra, una parete posticcia nasconde una scala: — tra la scala e la porta della cucina, una specie d’alcova, formata nel sottoscala, dove sta un tettuccio. — Una tenda mobile davanti all’alcova.

Nella parete di sinistra, una porta di architettura antica comunica con un vestibolo esterno e con la strada: — tra questa e la parete posticcia, una cassa di legno nero scolpita e un guardaroba tarlato contro la falsa parete.

Nella parete di destra, una finestra piuttosto alta, munita d’inferriata, dalla quale si scorge un bosco: — sotto la medesima, un antico canapè, dalla stoffa logora.

Nel centro della stanza, una vecchia tavola di noce. — Qua e là, vecchie sedie scolpite, un guindolo, e altri mobili in cattivo stato. — Quadretti sacri, e armi antiche, alle pareti.

Nell’insieme, deve apparire l’antica dimora di nobili proprietarj sardi decaduti.

8 maggio (duplicato)

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     Roma sotterranea cristiana    di Pellegrino Tonini (1879)

Il Cimitero di Santa Sotere.

Chi abbia già letto il 2.° tomo dell’Opera, facilmente ricorderà come in quello accennasse il ch.mo A. ad un’ampia sotterranea Necropoli, tra la via Appia e l’Ardeatina, a occidente delle Cripte papali, la quale si aggiunge ed allaccia alla vastissima Callistiana. Allora però ei si studiò solamente di determinarne i veri limiti; e l’egregio fratello Michele dimostrò analiticamente, non con ordinaria dottrina geologica e architettonica, essere una e sola vastissima regione, formata di quattro zone, aggiuntesi successivamente le une alle altre.

Non era, è vero, ignota ai sacri Archeologi questa vasta regione della Callistiana necropoli, e già si conosceva nel sec. XV; se non che rimasta fin qua, non pure anonima (senza cioè un particolare storico nome come le altre) non si conosceva nemmeno il suo proprio ed esatto perimetro: donde tante erronee opinioni ne vennero e in fatto di nome e di topografia.

15 maggio (duplicato)

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     Gastronomia    di Archestrato di Gela (Antichità), traduzione dal greco di Domenico Scinà (1842)

Quanto conobbi in viaggiar mostrando
A Grecia tutta, ove miglior si trova
ogni cibo dirò ogni liquore.

Di vivande squisite unica mensa
Accolga tutti, ma di tre o di quattro
O di cinque non più sia la brigata:
Perchè se fosser più cena sarebbe
Di mercenari predator soldati.

Dirotti in prima, o caro Mosco, i doni
Di Cerere, la Dea di bella chioma;
Tu nella mente i detti miei conserva.

22 maggio (duplicato)

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     Malombra    di Antonio Fogazzaro (1881)

 
CAPITOLO I.

In paese sconosciuto.

Uno dopo l’altro, gli sportelli dei vagoni sono chiusi con impeto; forse, pensa un viaggiatore fantastico, dal ferreo destino che, oramai senza rimedio, porterà via lui e i suoi compagni nelle tenebre. La locomotiva fischia, colpi violenti scoppiano di vagone in vagone sino all’ultimo; il convoglio va lentamente sotto l’ampia tettoia, esce dalla luce dei fanali nell’ombra della notte, dai confusi rumori della grande città nel silenzio delle campagne addormentate; si svolge sbuffando, mostruoso serpente, tra il laberinto delle rotaie, sinchè, trovata la via, precipita per quella ed urla, tutto battiti dal capo alla coda, tutto un tumulto di polsi viventi.

V’ha poca probabilità d’indovinare che cosa pensasse poi quel viaggiatore fantastico, rapito tra fiotti di fumo, stormi di faville, oscure forme d’alberi e di casolari. Forse studiava il senso riposto dei bizzarri ed incomprensibili geroglifici ricamati sopra una borsa da viaggio ritta sul sedile di fronte a lui; poichè vi teneva fissi gli occhi, di tanto in tanto moveva le labbra, come chi tenta un calcolo, e quindi alzava le sopracciglia, come chi trova di riuscire all’assurdo.

29 maggio (duplicato)

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     Il vecchio della montagna    di Grazia Deledda (1920)

 
I.

Melchiorre Carta saliva la montagna, ritornando al suo ovile.

Era un giovine pastore biondastro, di piccola statura; una ruga gli si disegnava fra le sopracciglia folte e nere, che spiccavano nel fosco giallore del suo volto contornato da una rada barbetta rossiccia. Anche la sopragiacca di cuoio del suo costume era giallognola, e il cavallino che egli montava era rossastro, tozzo, angoloso e pensieroso come il suo padrone.

Melchiorre era un giovine di buoni costumi e d’ottima fama; molto spensierato ed allegro non lo era mai stato, ma da qualche tempo si mostrava più taciturno del solito, e si sentiva quasi malvagio, perchè sua cugina Paska lo aveva abbandonato alla vigilia delle loro nozze. E senza motivo! Così, solo perchè ella si era improvvisamente accorta di essere graziosa e corteggiata anche da giovani signori.

5 giugno (duplicato)

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     L'Esclusa    di Luigi Pirandello (1901)

 
I.

Sotto la cappa del camino, ch’era come una mezza tramoggia enorme rovesciata, la vecchia Pentàgora, quella sera, borbottava tra sè più del solito, mordicchiando le còcche del grosso fazzoletto nero, di lana, che teneva in capo, annodato sotto il mento.

Come se le stipe e i tizzoni, scoppiettando, cigolando o levando fanfaluche, le parlassero, ella soleva tutto il giorno, lì, aggrondata e ingrugnata, far lunghi discorsi col fuoco, e ogni tanto gestiva a scatti, con le mani secche, nere, dalle dita agilissime. Parlava continuamente così, tra sè, fondendo le parole precipitose, quasi imitasse un ruzzolìo di fusi.

Le rare volte che si levava dal canto del fuoco e andava a ronzare come un moscone per casa, pareva s’aggirasse in un sogno smanioso, con gli occhi senza sguardo, le dita sempre irrequiete. Scopriva talvolta.... non si sapeva che cosa, nei muri, per terra, per aria: si arrestava incantata a mirare con gli occhi chiari, ilari, parlanti; la faccia cotta dal fuoco le si allargava in un sorriso di beatitudine, che destava una certa invidia mista di costernazione pure in coloro che la commiseravano.

12 giugno (duplicato)

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     Le Ferrovie    di Filippo Tajani (1911)

LEZIONE I

L’invenzione delle ferrovie.

Le prime vie di ferro. — Avrete certamente notato che alcune vecchie strade non selciate son munite di due liste di pietra levigata e dura, che servono a rendere più agevole il passaggio dei carri, impedendo che le ruote affondino nel terreno. In questo antichissimo costume, dovuto ad un concetto di estrema semplicità, si può riconoscere l’origine della strada ferrata.

Nelle miniere di carbone inglesi e germaniche anzichè alle liste di pietra, più comuni nei nostri paesi, si soleva ricorrere, sempre allo scopo di rendere più facile il passaggio dei carri, a file di tavoloni su cui si facevano correre le ruote. Così, del resto, si fa anche attualmente nei lavori di sterro, quando il trasporto delle materie scavate ha luogo con carriuole a mano o con carretti a cavalli su sentieri provvisori. In Inghilterra, dove il ferro abbonda, sorse facilmente l’idea di sostituire al legno, che si consuma rapidamente, regoli di ghisa: si ebbero così le prime rotaie.

19 giugno (duplicato)

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     Anime oneste    di Grazia Deledda (1905)

 
Dopo la morte della vecchia donn’Anna, sistemati gli affari, Paolo Velèna prese con sè la piccola nipote e, com’era stabilito, la condusse ad Orolà, presso la sua famiglia.

Orolà è una piccola sotto-prefettura sarda, nella provincia di Sassari. Città fiorentissima sotto i Romani, decaduta poi per le scorrerie dei Saraceni, risorse sotto il dominio dei Barisone, giudici o re di Torres, e si mantenne forte sino all’abolizione dei feudi in Sardegna, avvenuta nella prima metà di questo secolo.

Nel censimento delle popolazioni sarde, fatto da Arrius, illustre ploaghese che visitò le 42 città dell’isola ai tempi del console Marco Tullio Cicerone (116-43 a. C.), Orolà figurava per cento mila abitanti, tra l’urbe, i castelli e i villaggi sottoposti, e Antonio di Tharros, nella relazione dei saccheggi saraceni, parla di grandi vestigi lasciati dai Romani in Orolà, fra cui magnifiche terme costrutte sotto il pretore M. Azio Balbo. Al presente Orolà non conserva alcun ricordo della dominazione Romana, tranne che nel costume e nel dialetto latino, e i suoi abitanti sono appena sei o sette mila. Il suo solo monumento è Santa Croce, vecchia chiesa pisana del 1100, con affreschi del Mugano, pittore sardo del secolo XVII.

26 giugno

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     Le piacevoli notti    di Giovanni Francesco Straparola (1550-1553)

 
In Melano, antica e principal città di Lombardia, copiosa di leggiadre donne, ornata di superbi palagi e abbondevole di tutte quelle cose che ad una gloriosa città si convengono, abitava Ottaviano Maria Sforza, eletto vescovo di Lodi, al quale per debito di eredità, morto Francesco Sforza Duca di Melano, l’imperio del stato ragionevolmente apparteneva. Ma per lo ravoglimento de’ malvagi tempi, per gli acerbi odij, per le sanguinolenti battaglie e per lo continovo mutamento de’ stati, indi si partì, ed a Lodi con la figliuola Lucrezia, moglie di Giovan Francesco Gonzaga, cugino di Federico Marchese di Mantova, nascosamente se n’andò, ivi per alcun tempo dimorando. Il che avendo presentito li suoi, non senza suo grave danno il perseguitorono. Il miserello vedendo la persecuzione de’ parenti suoi ed il mal animo contra lui e la figliuola che dinanzi era rimasa vedova, prese quelle poche gioie e denari che egli si trovava avere, ed a Vinegia con la figliuola se n’andò: dove trovato il Ferier Beltramo, uomo di alto legnaggio, di natura benigno, amorevole e gentile, fu da lui insieme con la figliuola nella propia casa con strette accoglienze onorevolmente ricevuto. E perchè la troppa e lunga dimoranza nell’altrui case il più delle volte genera rincrescimento, egli con maturo discorso indi partire si volse, ed altrove trovare propio alloggiamento.

3 luglio

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     Osservazioni intorno alle vipere    di Francesco Redi (1664)

 
MIO SIGNORE.

OGNI giorno più mi vado confermando nel mio proposito di non voler dar fede nelle cose naturali, se non a quello che con gli occhi miei propri io vedo, e se dall’iterata, e reiterata esperienza non mi venga confermato: imperciocche sempre più m’accorgo, che difficilissima cosa è lo spiare la verità frodata sovente dalla menzogna, e che molti Scrittori, tanto antichi, quanto moderni somigliano a quelle pecorelle, delle quali il nostro Divino Poeta

Come le pecorelle escon dal chiuso
     Ad una, a due, a tre, e l’altre stanno
     Timidette atterrando l’occhio, e’l muso,
E ciò che fa la prima, e l’altre fanno
     Addossandosi a lei, s’ella s’arresta
     Semplici, e quete, e lo ’mperche non sanno.

10 luglio

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     Enrico IV    di Luigi Pirandello (1922)

 
ATTO PRIMO.

Salone nella villa rigidamente parato in modo da figurare quella che potè essere la sala del trono di Enrico IV nella casa imperiale di Goslar. Ma in mezzo agli antichi arredi due grandi ritratti a olio moderni, di grandezza naturale, avventano dalla parete di fondo, collocati a poca altezza dal suolo su uno zoccolo di legno lavorato che corre lungo tutta la parete (largo e sporgente in modo da potercisi mettere a sedere come su una lunga panconata), uno a destra e uno a sinistra del trono che, nel mezzo della parete, interrompe lo zoccolo e vi si inserisce col suo seggio imperiale e il suo basso baldacchino. I due ritratti rappresentano un signore e una signora, giovani entrambi, camuffati in costume carnevalesco, l’uno da «Enrico IV» e l’altra da «Marchesa Matilde di Toscana». Usci a destra e a sinistra.

(Al levarsi della tela i due valletti, come sorpresi, balzano dallo zoccolo su cui stanno sdraiati, e vanno a impostarsi come statue, uno di qua e uno di là ai piedi del trono, con le loro alabarde. Poco dopo, dal secondo uscio a destra entrano Arialdo, Landolfo, Ordulfo e Bertoldo; giovani stipendiati dal marchese Carlo di Nolli perchè fingano le parti di «Consiglieri segreti», vassalli regali della bassa aristocrazia alla Corte di Enrico IV. Vestono perciò in costume di cavalieri tedeschi del secolo XI. L’ultimo, Bertoldo, di nome Fino, assume ora per la prima volta il servizio. E tre compagni lo ragguagliano, pigliandoselo a godere. Tutta la scena va recitata con estrosa vivacità).

17 luglio

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     I sette vizi capitali descritti in verso sciolto    di Vincenzo Sisco (1864)

I. SUPERBIA

Sovra scanno dorato, empia ti siedi
E fastosa ti mostri in faccia al mondo:
Ricco drappo ti copre il tristo core,
Ma sulla fronte mostri il rio peccato;
Colpa che macchia, e disadorna l’alma
Di quel fraterno amor che Cristo impose
Agli uomini tutti in su la Croce!
E il vile orgoglio ch’entro te rinserri,
Che tutto fa parere a te soggetto,
Sogno è per te fatale e menzognero.

24 luglio

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     Il Dio dei viventi    di Grazia Deledda (1922)

 
Iddio non è Dio del morti, ma Dio del viventi.
Marco, XII.

Le cose erano andate come la famiglia Barcai sperava. Il fratello maggiore, Basilio, scapolo ma padre di un figlio illegittimo, era morto senza lasciare testamento. Così i suoi beni tornavano al fratello minore Zebedeo; il patrimonio Barcai si ricomponeva come ai tempi del vecchio nonno il quale aveva costretto due suoi figliuoli a farsi preti e una figlia a non prendere marito perchè i suoi beni non andassero divisi.

E la tradizione prometteva di continuare perchè Zebedeo non aveva che un figlio e la gente diceva che quel figlio era rimasto unico per volontà dei genitori nella speranza appunto che lo zio morisse scapolo.

Le cose erano dunque andate come si prevedeva e la gente, data la tradizione dei Barcai, non si meravigliava della poca coscienza di Basilio, il quale non aveva lasciato nulla al figlio, e che d’altronde era morto d’improvviso d’un male al cuore da lui sempre trascurato.

31 luglio

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     Statuto della Società di Scherma in Verona  

Art. 1.

La Società di Scherma costituita dal maestro Perez non ha altro scopo che lo studio della scherma.

Art. 2.

Il maestro della Società è il signor Giuseppe Perez summentovato.

Art. 3.

Ogni socio pagherà mensilmente lire cinque anticipate, senza nessuna spesa di buono ingresso.

Art. 4.

Detta somma verrà raccolta e versata al maestro, il quale detrattene le spese di fitto di sala, illuminazione e salario di un inserviente, riterrà la rimanenza a titolo di emolumento.

Art. 5.

Ogni socio è obbligato per un anno a far parte della Società a decorrere dal giorno che essa è definitivamente costituita; per coloro poi che verranno posteriormente ammessi, l'obbligo di un anno decorre dalla data d'ammissione alla Società.

7 agosto

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     Bestie    di Federigo Tozzi (1917)

 
Che punto sarebbe quello dove s’è fermato l’azzurro? Lo sanno le allodole che prima vi si spaziano e poi vengono a buttarsi come pazze vicino a me? Una mi ha proprio rasentato gli occhi, come se avesse avuto piacere d’impaurirsi così, fuggendo.

Che chiarità tranquille per queste campagne, che si mettono stese per stare più comode! Che silenzii là dall’orizzonte e dentro di me!

La strada per tornare a Siena è là. Vado.

Le case si facciano un poco a dietro, e quel mendicante non mi cada addosso. Almeno, l’altro è seduto per terra! Dio mio, tutte queste case! Più in là, più in là! Arriverò dove trovare un poco di dolcezza!

Dio mio, queste case mi si butteranno addosso! Ma un’allodola è rimasta chiusa dentro l’anima, e la sento svolazzare per escire. E la sento cantare.

Verso il settentrione; dov’è di notte l’orsa, dove la luna non va mai!

14 agosto

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     L'anno 3000    di Paolo Mantegazza (1897)

Paolo e Maria lasciarono Roma, capitale degli Stati Uniti d’Europa, montando nel più grande dei loro aerotachi, quello destinato ai lunghi viaggi.

È una navicella mossa dall’elettricità. Due comode poltrone stanno nel mezzo e con uno scattar di molla si convertono in comodissimi letti. Davanti ad esse una bussola, un tavolino e un quadrante colle tre parole: moto, calore, luce.

Toccando un tasto l’aerotaco si mette in moto e si gradua la velocità, che può giungere a 150 chilometri all’ora. Toccando un altro tasto si riscalda l’ambiente alla temperatura che si desidera, e premendo un terzo si illumina la navicella. Un semplice commutatore trasforma l’elettricità in calore, in luce, in movimento; come vi piace.

Nelle pareti dell’aerotaco eran condensate tante provviste, che bastavano per dieci giorni. Succhi condensati di albuminoidi e di idruri di carbonio, che rappresentano chilogrammi di carne e di verdura; eteri coobatissimi, che rifanno i profumi di tutti i fiori più odorosi, di tutte le frutta più squisite. Una piccola cantina conteneva una lauta provvista di tre elisiri, che eccitano i centri cerebrali, che presiedono alle massime forze della vita; il pensiero, il movimento e l’amore.

21 agosto

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     La signora dalle camelie    di Alexandre Dumas (1852), traduzione dal francese di Luigi Enrico Tettoni (1883)

 
ATTO PRIMO

Gabinetto in casa di Margherita. — Una porta al fondo. — A destra un cammino. A sinistra una tavola rotonda. — Fra la porta del fondo ed una laterale, a sinistra, una porta aperta, che lascia vedere una tavola, sopra della quale vi sono candelabri. — Sul davanti un piano-forte, poltrone, sedie, ecc.

SCENA PRIMA

Nanetta al tavolo che lavora, Varville appoggiato al cammino.

Varville. Qualcuno che ha suonato.

Nanetta. (lasciando il lavoro) Valentino è già andato ad aprire.

Varville. Sarà senza dubbio Margherita.

Nanetta. Non lo credo, perchè non sono ancora le dieci, e prima d’uscire mi disse che non sarebbe rientrata che verso le undici... Oh! è madamigella Erminia.

28 agosto

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     Trattato della neve e del bere fresco    di Nicolás Monardes (1574), traduzione dallo spagnolo di Giovan Battista Scarampo (1574)

 
Questa machina del Mondo, la quale contiene in se tutte quelle perfezzioni, che può l’huomo con l’intelletto capire, si divide in due parti, Etherea dico, & Elementare. La Etherea è lucida senza alcuna variazione, & eterna. Questa contiene in se undici Sfere, ò Cieli, in sette de quali son locati il Sole, la Luna, & gl’altri pianeti. L’ottavo, con varie figure è tutto ornato di Stelle: Il nono, è chiamato Christallino. Il decimo, primo mobile, & l’ultimo Cielo Empireo, che vuol dire Cielo di fuoco, per lo suo molto splendore, & è immobile. L’altra parte, è questa nostra regione elementare, la quale continovamente è in moto, & soggetta à tutte le alterazioni possibili. Questa si divide in quattro Elementi, fuoco, aere, acqua, & terra: Della mistione de quali, tutte queste cose inferiori vengano composte, & generate. La terra, è situata nel mezzo come centro di tutta la machina; l’acqua, la circonda, & bagna per ogni parte; l’aere quasi un sottilissimo velo, & lungamente disteso, ammanta l’uno & l’altro di detti Elementi, & il fuoco gira & abbraccia l’aere, distendendosi fino al Ciel della Luna.

4 settembre

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     La cucina futurista    di Filippo Tommaso Marinetti, Fillia (1932)

 
Contrariamente alle critiche lanciate e a quelle prevedibili, la rivoluzione cucinaria futurista, illustrata in questo volume, si propone lo scopo alto, nobile ed utile a tutti di modificare radicalmente l’alimentazione della nostra razza, fortificandola, dinamizzandola e spiritualizzandola con nuovissime vivande in cui l’esperienza, l’intelligenza e la fantasia sostituiscano economicamente la quantità, la banalità, la ripetizione e il costo.

Questa nostra cucina futurista, regolata come il motore di un idrovolante per alte velocità, sembrerà ad alcuni tremebondi passatisti pazzesca e pericolosa: essa invece vuole finalmente creare un’armonia tra il palato degli uomini e la loro vita di oggi e di domani.

Salvo le eccezioni decantate e leggendarie, gli uomini si sono nutriti finora come le formiche, i topi, i gatti e i buoi. Nasce con noi futuristi la prima cucina umana, cioè l’arte di alimentarsi. Come tutte le arti, essa esclude il plagio ed esige l’originalità creativa.

11 settembre

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     Il crepuscolo degli idoli    di Friedrich Nietzsche (1889), traduzione dal tedesco di Anonimo (1924)

 
Conservare la propria serenità di fronte ad una oscura causa giustificabile al difuori di ogni misura, non è certo una piccola abilità: eppure cosa vi sarebbe di più necessario della serenità? Nessuna cosa riesce a meno che la petulanza non vi abbia la sua parte. Un eccesso di forza non fa che provare la forza. — Una Trasmutazione di tutti i valori, questo punto interrogativo così nero, così enorme, che getta delle ombre su colui che lo pone, — un tale destino in un compito ogni istante ci forza a correre al sole, a scuotere un serio che troppo ci pesa. Ogni mezzo è buono, ogni avvenimento è benvenuto. Prima di tutto la guerra. La guerra fu sempre la grande prudenza di tutti gli spiriti che si sono troppo concentrati, di tutti gli spiriti divenuti troppo profondi; nella stessa ferita vi è la forza di guarire. Da molto tempo una sentenza di cui nascondo l’origine alla sapiente curiosità è stata la mia divisa: Increscunt animi, virescit volnere virtus.

18 settembre

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     Il libro delle vergini    di Gabriele D'Annunzio (1884)

 

Il viatico uscì dalla porta della chiesa a mezzogiorno. Su tutte le strade era la primizia della neve, su tutte le case era la neve. Ma in alto grandi isole azzurre apparivano tra le nuvole nevose, si dilatavano su ’l palazzo di Brina lentamente, s’illuminavano verso la Bandiera. E nell’aria bianca, su ’l paese bianco appariva ora subitamente letificante il miracolo del sole.

Il viatico s’incamminava alla casa di Giuliana: la gente si fermava a veder passare il prete incedente a capo nudo, con la stola violacea, sotto l’ampio ombrello scarlatto, tra le lanterne portate dai clerici accese. La campanella squillava limpidamente accompagnando i salmi sussurrati dal prete. I cani vagabondi si scansavano nei vicoli al passaggio; Mazzanti cessò di ammucchiare la neve all’angolo della piazza e si scoprì la calvizie inchinandosi. Si spandeva in quel punto dal forno di Flajano nell’aria l’odore caldo e sano del pane recente, quell’odore che éccita il palato.

25 settembre

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     Le nebule    di Aristofane (424 a.C.), traduzione dal greco di Bartolomio Rositini, Pietro Rositini (1545)

 

Strepsiade

ime, oime, ò signor Giove quanto sono lunghe le notti: non si farà hormai dì e pur un buon pezzo è, ch’io hò udito il gallo, e i famigli runchegiano, ma non già da quì in dietro, ò guerra rea per causa de molti, vatene in mal’hora, per ciò che à me non è lecito à punire i servidori. ma ne anche questo da ben giovane di notte si lieva, anzi poltronegia in cinque schiavine involtosi. e se à noi pare, runchegiamo coperti: ma io infelice già dormir non posso, punto, e morduto da la spesa, e da la stalla, e da’l debito, per questo mio figliuolo. & egli con suoi bei capelli se ne cavalca, e su’l cocchio si fà menare, e cavalli s’infogna: io poi mi muoro, vedendo che la Luna s’invecchia: però che le usure s’approssimano. impizza regazo il lume, e portami il libro da i conti, che voglio sapere à quanti sono debitore, e voglio vedere il conto de le usure. sù, ch’io vega quel che son debitore. Dodeci mine à Pasia: in che modo dodeci mine à Pasia? ch’hò io adoperato? quando comprai io cavallo bollato co’l x? ahi me sventurato, piacesse à i dei che m’havesse tratto fuora piu presto un’occhio con questo sasso.

2 ottobre

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     Il sigillo d'amore    di Grazia Deledda (1926)

 

Aveva appena finito di predicare, il grosso frate barbuto, e se ne tornava al convento, anzi del convento già rasentava il muro dell’orto, di sopra del quale le nuvole bianche dei peri e dei susini in fiore lasciavano cadere una silenziosa nevicata di petali sul marciapiede deserto. Sul marciapiede opposto, di là dalla strada larga dove il sole già caldo sebbene al tramonto e un venticello che sapeva ancora di neve giocavano un loro gioco malizioso e sensuale, solo una donna passava quasi di corsa, agitata, con le mani gesticolanti, le falde della giacca che si aprivano e si chiudevano come due ali nere di sopra e viola di sotto.

Rimasto indietro di qualche passo, il frate si accorse che la borsetta rotonda oscillante come un pendolo sotto il braccio della donna, apriva la bocca con uno sbadiglio smorfioso e vomitava un portafogli rossastro.

9 ottobre (duplicato)

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     Le piacevoli notti    di Giovanni Francesco Straparola (1550-1553)

 
In Melano, antica e principal città di Lombardia, copiosa di leggiadre donne, ornata di superbi palagi e abbondevole di tutte quelle cose che ad una gloriosa città si convengono, abitava Ottaviano Maria Sforza, eletto vescovo di Lodi, al quale per debito di eredità, morto Francesco Sforza Duca di Melano, l’imperio del stato ragionevolmente apparteneva. Ma per lo ravoglimento de’ malvagi tempi, per gli acerbi odij, per le sanguinolenti battaglie e per lo continovo mutamento de’ stati, indi si partì, ed a Lodi con la figliuola Lucrezia, moglie di Giovan Francesco Gonzaga, cugino di Federico Marchese di Mantova, nascosamente se n’andò, ivi per alcun tempo dimorando. Il che avendo presentito li suoi, non senza suo grave danno il perseguitorono. Il miserello vedendo la persecuzione de’ parenti suoi ed il mal animo contra lui e la figliuola che dinanzi era rimasa vedova, prese quelle poche gioie e denari che egli si trovava avere, ed a Vinegia con la figliuola se n’andò: dove trovato il Ferier Beltramo, uomo di alto legnaggio, di natura benigno, amorevole e gentile, fu da lui insieme con la figliuola nella propia casa con strette accoglienze onorevolmente ricevuto. E perchè la troppa e lunga dimoranza nell’altrui case il più delle volte genera rincrescimento, egli con maturo discorso indi partire si volse, ed altrove trovare propio alloggiamento.

16 ottobre (duplicato)

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     Osservazioni intorno alle vipere    di Francesco Redi (1664)

 
MIO SIGNORE.

OGNI giorno più mi vado confermando nel mio proposito di non voler dar fede nelle cose naturali, se non a quello che con gli occhi miei propri io vedo, e se dall’iterata, e reiterata esperienza non mi venga confermato: imperciocche sempre più m’accorgo, che difficilissima cosa è lo spiare la verità frodata sovente dalla menzogna, e che molti Scrittori, tanto antichi, quanto moderni somigliano a quelle pecorelle, delle quali il nostro Divino Poeta

Come le pecorelle escon dal chiuso
     Ad una, a due, a tre, e l’altre stanno
     Timidette atterrando l’occhio, e’l muso,
E ciò che fa la prima, e l’altre fanno
     Addossandosi a lei, s’ella s’arresta
     Semplici, e quete, e lo ’mperche non sanno.

23 ottobre (duplicato)

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     Enrico IV    di Luigi Pirandello (1922)

 
ATTO PRIMO.

Salone nella villa rigidamente parato in modo da figurare quella che potè essere la sala del trono di Enrico IV nella casa imperiale di Goslar. Ma in mezzo agli antichi arredi due grandi ritratti a olio moderni, di grandezza naturale, avventano dalla parete di fondo, collocati a poca altezza dal suolo su uno zoccolo di legno lavorato che corre lungo tutta la parete (largo e sporgente in modo da potercisi mettere a sedere come su una lunga panconata), uno a destra e uno a sinistra del trono che, nel mezzo della parete, interrompe lo zoccolo e vi si inserisce col suo seggio imperiale e il suo basso baldacchino. I due ritratti rappresentano un signore e una signora, giovani entrambi, camuffati in costume carnevalesco, l’uno da «Enrico IV» e l’altra da «Marchesa Matilde di Toscana». Usci a destra e a sinistra.

(Al levarsi della tela i due valletti, come sorpresi, balzano dallo zoccolo su cui stanno sdraiati, e vanno a impostarsi come statue, uno di qua e uno di là ai piedi del trono, con le loro alabarde. Poco dopo, dal secondo uscio a destra entrano Arialdo, Landolfo, Ordulfo e Bertoldo; giovani stipendiati dal marchese Carlo di Nolli perchè fingano le parti di «Consiglieri segreti», vassalli regali della bassa aristocrazia alla Corte di Enrico IV. Vestono perciò in costume di cavalieri tedeschi del secolo XI. L’ultimo, Bertoldo, di nome Fino, assume ora per la prima volta il servizio. E tre compagni lo ragguagliano, pigliandoselo a godere. Tutta la scena va recitata con estrosa vivacità).

30 ottobre

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     Le congreganti    di Aristofane (391 a.C.), traduzione dal greco di Bartolomio Rositini, Pietro Rositini (1545)

 

PRASSAGORA.

splendido occhio de la lume fatta’l torno, ben desiderato da gli speculanti, ti mostraremo le tue genarationi, e le tue sorti, che sendo agitata d’ogn’intorno da l’empito de’l figulo, hai gli splendidi honori de’l sole ne tuoi bocchini. Muoui i congiacenti segni de la fiamma tua, che per te sola li uegiamo honoreuolmente: quale ne stai apresso ne le camerette, che ben ricercano i costumi di Venere: e nissuno iscacia da la sua casa l’occhio tuo, ausiliatore de corpi che si moveno. Tu sola splendi ne le secrete camere de le gambe, illuminando il pullulante pelo, e giaci piena sotto le lacche de’l portico de’l frutto, e de’l Baccanale vino. e insieme queste cose facendo, non dici poi niente à quelli, per i quali si facciono tali consigli, i quali sono parsi à i Sciri miei amici. Ma non vi è alcuna di quelle che dovevano venire, nondimeno il concilio è prolungato à la mattina.

6 novembre

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     Dracula    di Bram Stoker (1897), traduzione dall'inglese di Angelo Nessi (1922)

 
Lasciato Monaco alle 8.55 di sera, il 1° maggio. Giunto a Vienna l’indomani, di buon mattino. Il treno aveva un’ora di ritardo. Budapest mi parve molto curiosa da quel che potei vederne stando in treno. Fatta una passeggiata breve attraverso la città. Ebbi l’impressione nitidissima di lasciare l’Occidente per entrare nell’Oriente. Il magnifico ponte gettato sul Danubio ricorda la dominazione turca. Giunto a Klausenberg sul far della notte. Cenato all’Albergo Reale con un pollo alla pàprica, specie di pepe rosso, (pro memoria: ho chiesto la ricetta di questo piatto, per Mina). Il mio cattivo tedesco m’è utilissimo qui, non so come me la caverei altrimenti.

8 novembre

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     Gioventù italiana del littorio    di Achille Starace (1939)

 
La Gioventú italiana del Littorio è stata istituita, per volontà del Duce, con il R. D. L. 27 ottobre 1937-xv, n. 1839, il cui art. i dice:

«La Gioventú italiana del Littorio, organizzazione unitaria e totalitaria delle forze giovanili del Regime fascista, è istituita in seno al Partito nazionale fascista, alla diretta dipendenza del Segretario del Partito nazionale fascista, Ministro Segretario di Stato, che ne è il Comandante generale.

«La Gioventú italiana del Littorio ha per motto: Credere - obbedire - combattere».

I compiti che la Gioventú italiana del Littorio svolge a favore dei giovani sono cosi delineati nell'art. 5:

«a) preparazione spirituale, sportiva e premilitare;

«b) insegnamento dell'educazione fisica nelle scuole elementari e medie, secondo i programmi da essa predisposti di concerto col Ministro dell’Educazione nazionale;

«c) istituzione e funzionamento di corsi, scuole, collegi, accademie, aventi attinenza con le finalità della Gioventú italiana del Littorio;

«d) assistenza svolta essenzialmente attraverso i campi, le colonie climatiche, il patronato scolastico, o con altri mezzi disposti dal Segretario del Partito nazionale fascista, Ministro Segretario di Stato, Comandante generale;

«e) organizzazione di viaggi e crociere.»

13 novembre

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     L'umorismo    di Luigi Pirandello (1908)

 
Alessandro D’Ancona, in quel suo notissimo studio su Cecco Angiolieri da Siena, dopo aver notato quanto vi sia di burlesco in questo nostro poeta del sec. XIII, osserva: «Ma per noi l’Angiolieri non è soltanto un burlesco: bensì anche, e più propriamente, un umorista. E qui i camarlinghi della favella ci faccian pure il viso dell’arme, ma non pretendano di dire che in italiano bisogna rassegnarsi a non dir la cosa, perchè non abbiam la parola». E, accortamente, in una nota a pie’ di pagina, soggiunge: «È curioso però che il traduttore francese di una dissertazione tedesca sull’Humour, inserita nel Recueil de piéces intéressantes, concernant les antiquités, les beaux-artes, les belles-lettres et la philosophie, traduites de differéntes langues, citando il Riedel, Theor. d. Schöne Kunsten, I. artic. Laune, sostenga che sebbene gli Inglesi, ed il Congreve in particolare, rivendichino per sè i vocaboli humour e humourist «il est néammoins certain qu’ ils viennent de l’italien».

20 novembre

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     La Natura    di Tito Lucrezio Caro (I secolo a.C.), traduzione dal latino di Mario Rapisardi (1880)

 

O degli Eneadi madre, o degli umani,
Dei Numi voluttà, Venere bella,
Che il navigero mar, che l’ubertose
Terre, del ciel sotto i volgenti segni,
Popoli, chè per te concètto e nato
Del Sole a’ raggi ogni animal si allegra;
Te, dea, fuggono i venti, al tuo venire
Te le nubi del cielo; a te sommette
Fiori suavi la dedalea terra;
A te ridon le vaste onde, e sereno
D’una luce diffusa il ciel risplende.

27 novembre

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     Lo cunto de li cunti    di Giambattista Basile (1534-1536)

 
Il Cavalier Basile fu un letterato napoletano del principio del secolo XVII, del periodo letterario appunto, nel quale riluce, astro maggiore, Giambattista Marino. E fu uno dei satelliti di quell’astro; e gli altri si chiamavano allora a Napoli Giulio Cesare Capaccio, Giambattista Manso, Gian Francesco Maia Materdona, Ettore Pignatelli, Orazio Comite, Francesco de Petris, Andrea Santamaria, Aniello Palomba, Tommaso Carafa, Gio. Vincenzo Imperiale, Antonio Basso, ecc. ecc.: tutti canori cigni, che, con luminosi inchiostri, facevano guerra alla morte, nelle Accademie degli Oziosi o degli Incauti. E, con tutti questi suoi compagni di gloria passata, sarebbe sepolto nell’oblio, nonostanti le sue Ode, e Madrigali, e Favole marittime, e Poemi heroici, che piacevano tanto ai suoi contemporanei, se non lo salvassero alcuni libercoli di opere giocose, che egli non fece a tempo, o forse, non curò di pubblicare. In queste opere giocose il gusto più largo e vario dei nostri tempi, ha trovato nuovi e originali e felici motivi artistici; e, nella principale di esse, la nuova scienza filologica, ha riconosciuto un prezioso documento pei suoi studii.

4 dicembre

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     Atlantide    di Mario Rapisardi (1894)

 
Quasi tutte le manifestazioni della vita ideale contemporanea vanno da per tutto di male in peggio; il decadimento politico, letterario, morale è cotidiano, perpetuo, confessato ormai da’ più ottimisti, lamentato dai più indifferenti. L’indignazione degli animi onesti si sfoga in tutti i toni; la protesta contro lo sfacelo prorompe confusamente dalla coscienza dei lavoratori. Di tale indignazione e di tale protesta vuol essere questo poema un’artistica rappresentazione: una voce del secolo che si sfascia, una voce del secolo che si rinnova; satira e lirica insieme. Quando un ordinamento sociale, esaurite le sue forze, e dato quanto di meglio potea, non risponde più ai suoi fini, ogni nobile attività dell’uomo deve essere rivolta ad affrettarne la totale rovina, a sgombrare e preparare il campo alle nuove idee. La poesia, in tali frangenti, suole diventare satirica; ma quando la corruzione non ha neppure il carattere della grandiosità, essa ha il diritto di ricorrere alla beffa e alla parodia.

11 dicembre

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     Dalle dita al calcolatore    di Alberto Campiglio, Vincenzo Eugeni (1990)

Il resto di questa storia dei numeri si trova nel libro di A. Campiglio e V. Eugeni, ricco di informazioni e di temi per una riflessione sull’uomo che si fa sapiens e faber. Io cercherò di scoprire ciò che deve essere accaduto prima, quando l’uomo operava più con spontaneità biologica che con intenzionalità consapevole.

Darò un ordine alle poche pagine suddividendo la storia in alcune tappe.

La spontaneità biologica, n. 1

È sempre utile ricordare come l’uomo operi in quattro modi: a) fa certe cose sapendo di farle e sapendo come; b) sapendo di farle, ma non come; c) non sapendo nemmeno di farle; ed infine d) credendo di farle in un modo e facendole in un altro.

L’uomo può credere, per esempio come Kronecker, che, pur essendosi fabbricato tutto, abbia ricevuto già fatti i numeri o, come Cantor, che non avendoli ricevuti già fatti, se li sia apprestati confrontando fra loro due collezioni non numerate (Platone ne avrebbe messa almeno una in cielo!).

18 dicembre

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     L'astronomo Giuseppe Piazzi    di Baccio Emanuele Maineri (1871)

 
Nei primi lustri di questo secolo spegnevansi in Italia tre luminari delle scienze astronomiche: Antonio Cagnoli, Barnaba Oriani, Giuseppe Piazzi. Il primo, nato a Zante il 29 settembre 1743, e ivi morto nel 6 agosto del 1816, è specialmente benemerito per avere renduto facile e, direi, popolare la scienza con le sue preziose Notizie astronomiche adattate all’uso comune. Infatti, con la chiarezza e l’evidenza dello stile e’ seppe si bene vincere quanto havvi di arduo e di scabro in questo studio, che ogni condizione di persone, le donne stesse, i giovani e gli adulti, avrebbero potuto porgere le labbra alle facilitate speculazioni d’una tal parte del sapere umano. Il secondo, Barnaba Oriani, figlio d’un lavandajo, Giorgio, e d’una Margherita Galli, era nato il 18 luglio 1752 alla Certosa di Garignano, presso Milano; e, quando morì, 12 novembre 1832, oltre i meriti della sua fama grandissima, teneva, nobilmente acquisiti, i titoli di cavaliere e di conte, di senatore e membro dell’Istituto italiano, provveduto di larghissime pensioni.

25 dicembre

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     Tre croci    di Federigo Tozzi (1920)

 
Giulio chiamò il fratello:

— Niccolò! Déstati!

Quegli fece una specie di grugnito, bestemmiò, si tirò più giù la tesa del cappello; e richiuse gli occhi. Stava accoccolato su una sedia, con le mani in tasca dei calzoni e la testa appoggiata a uno scaffale della libreria; vicino a una cassapanca antica, che tenevano lì in mostra per i forestieri, tutta ingombra di vasi, di piatti e di pitture.

— Ohé! Non ti vergogni a dormire! È tutta la mattina! Fai rabbia!

Niccolò, allora, si sdrusciò forte le labbra e aprì gli occhi guardando il fratello.

— Ma che vuoi? Io, fino all’ora di mangiare, dormo!

— Volevo dirti che io devo andare alla banca! Stamani, c’è un rinnovo.

Niccolò fece una sbuffata e rispose:

— Vai! C’era bisogno di destarmi?

— Alla bottega chi ci bada?

— A quest’ora, non viene nessun imbecille a comprare i libri! Vai! Ci bado io!