L'Esclusa/Parte Prima/Capitolo I

I.

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Parte Prima Parte Prima - Capitolo II

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I.


Sotto la cappa del camino, ch’era come una mezza tramoggia enorme rovesciata, la vecchia Pentàgora, quella sera, borbottava tra sè più del solito, mordicchiando le còcche del grosso fazzoletto nero, di lana, che teneva in capo, annodato sotto il mento.

Come se le stipe e i tizzoni, scoppiettando, cigolando o levando fanfaluche, le parlassero, ella soleva tutto il giorno, lì, aggrondata e ingrugnata, far lunghi discorsi col fuoco, e ogni tanto gestiva a scatti, con le mani secche, nere, dalle dita agilissime. Parlava continuamente così, tra sè, fondendo le parole precipitose, quasi imitasse un ruzzolìo di fusi.

Le rare volte che si levava dal canto del fuoco e andava a ronzare come un moscone per casa, pareva s’aggirasse in un sogno smanioso, con [p. 4 modifica]gli occhi senza sguardo, le dita sempre irrequiete. Scopriva talvolta.... non si sapeva che cosa, nei muri, per terra, per aria: si arrestava incantata a mirare con gli occhi chiari, ilari, parlanti; la faccia cotta dal fuoco le si allargava in un sorriso di beatitudine, che destava una certa invidia mista di costernazione pure in coloro che la commiseravano.

Che vedeva? Perchè sorrideva così?

Certi suoi atti, certe sue espressioni erano veramente da povera mentecatta; ma a quando a quando faceva anche stupire o divinando cose lontane o dimostrando innegabilmente di vedere oltre la vista naturale. Sicchè la gentuccia del vicinato credeva ch’ella fosse in commercio misterioso con le Donne, e qualcuna giurava di aver sentito nelle notti d’inverno più burrascose gridare tra il vento, su dai tetti, il nome di lei:

— Sidora! Sidora!

Le Donne, certo, che venivano a chiamarla, se la portavano via con loro, in ispirito. Non aveva ella in casa un altarino su cui adorava tre spighe secche circondate da sacchettini scarlatti pieni di sale?

— L’animuccia mia ha gli occhi tondi tondi, rossi, vivi vivi; la coda lunga, il becco nero. Nido di rondinella, appeso a un campanile, presso le campane. Sta di casa là, l’animuccia [p. 5 modifica]mia. Din don dan, din don dan. Sbuca un vecchio topo, sbucano i topicini; si mettono a giocare con un sassolino, sulla balaustrata del campanile. Le campane ronzano, le campane sbadigliano al cielo; han la lingua ciondoloni; hanno fame di vento, le campane. Quant’arsura, nell’estate! Pioggia, pioggia, lava le campane. Spunta l’erbuccia della frescura.... Dan dan, dan dan, le monacelle della badia. Corvo, diavolo che vi porta via!

Queste erano le sue filastrocche, quand’era di buon umore. Per lo più, però, era ingrugnata; e quella sera, quella sera più del solito.

— Zà Sidò, a tavola, — venne a dirle Niccolino, il nipote, pallido, con aria stordita. — Papà dice, non c’è perchè restar digiuni. Rocco, però, non è ancora tornato. Come si fa?

La vecchia guardò un tratto il nipote, con le ciglia aggrottate, quasi non avesse inteso; poi scattò in piedi, alzando le braccia a un gesto vivacissimo di noncuranza sdegnosa, e s’avviò di furia, curva, grufando, alla sala da pranzo.

Era un tetro stanzone, dalle pareti basse, nude, ingiallite, lungo le quali correvano due interminabili file di seggiole tutte scompagne. Di notte, queste seggiole conversavano fra loro, con sommessi scricchiolii; fra loro e con la vecchia matta, a cui narravano la loro storia, [p. 6 modifica]da quali misere case fossero venute a quello stanzone, pegnorate con tutta l’altra masserizia, tra i pianti, gli strilli e le imprecazioni degli antichi padroni; e una, ch’era più sfilata delle altre, diceva ch’era stata ridotta così da una povera madre, la quale per ore e ore ogni sera cullava il suo piccino, che, non trovando latte ne le mammelle vizze, non voleva, non poteva prender sonno.... Forse da esse, o dal pavimento, o dalle pareti, spirava nello stanzone quel tanfo misto, indefinibile, d’appassito. Dal tetto, affumicato in giro, pendeva una lampada su la tavola apparecchiata, come sperduta lì in mezzo.

Vi stava già seduto a cenare Antonio Pentàgora, il padre, grosso omaccione sanguigno, il cui volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante su la nuca. Dalla camicia floscia, aperta, gli s’intravedeva il petto irsuto.

Niccolino e la zia presero il loro posto e cominciarono a cenare anch’essi, tranquillamente, come se nulla fosse stato.

Poco dopo, Rocco apparve su la soglia, cupo, disfatto.

— Oh, bravo Roccuccio, eccolo qua! — esclamò allora il padre, volgendosi e fregandosi le grosse mani ruvide, piene d’anelli massicci.

Niccolino levò, sopra il capo della zia che gli [p. 7 modifica]stava di fronte, la testa secca, orecchiuta, per veder l’aria del fratello. La zia non si mosse.

Rocco stette un po’ a guardare i tre seduti a tavola, poi si buttò su la prima seggiola presso l’uscio, coi gomiti su le ginocchia, le pugna sotto il mento, il cappello su gli occhi.

— Oh, e alzati! — riprese il Pentàgora. — T’abbiamo aspettato, sai? Non mi credi? Parola mia d’onore, fino alle dieci.... no, più, più.... che ora è? Vieni qua: ecco il tuo posto: apparecchiato qua, come prima.

E chiamò, forte:

— Signora Popònica!

— Epponina, — corresse Niccolino a bassa voce.

— Zitto, bestia, lo so. Voglio chiamarla Popònica, come tua zia. Non è permesso?

Rocco, incuriosito, alzò la testa e brontolò:

— Chi è Popònica?

— Ah! una signora caduta in bassa fortuna, — rispose allegramente il padre. — Vera signora, sai? Da jeri ci fa da serva. Tua zia la protegge.

— Romagnola, — aggiunse Niccolino, sommessamente.

Rocco ripiegò la testa su le mani; e il padre, soddisfatto, si recò pian piano alle labbra il bicchiere ricolmo; lo scoronò con un sorsellino càuto; poi strizzò un occhio a Niccolino e, facendo schioccar la lingua, disse:

[p. 8 modifica]— Buono! Roccuccio, vino nuovo; fa stringer l’occhio.... Assaggia, assaggia, ti rimetterà lo stomaco. Sciocchezze, figlio mio!

E tracannò il resto in un flato.

— Non vuoi cenare? — domandò poi.

— Non può cenare, — osservò piano Niccolino.

Tacquero tutti, badando che le forchette non frugassero nei piatti, come per non offendere il silenzio ch’empiva penosamente lo stanzone. Ed ecco la signora Popònica, coi capelli color tabacco di Spagna, unti non si sa di qual manteca, con gli occhi ammaccati e la bocca grinzosa appuntita, entrar tentennante su le gambette, forbendosi le mani piccole, sconciate dal lavoro, in una giacca smessa del padrone, legata per le maniche intorno alla vita, a mo’ di grembiule. La tintura dei capelli, l’aria mesta del volto davano a vedere chiaramente che quella povera signora caduta in bassa fortuna avrebbe forse desiderato qualcosa di più che il disperato amplesso di quelle maniche vuote.

Subito Antonio Pentàgora con la mano le fe’ cenno d’andar via: non c’era più bisogno di lei, poichè Rocco non voleva cenare. Quella inarcò le ciglia, sbalzandole fin sotto i capelli, distese su gli occhi dolenti le pàlpebre cartilaginose, e andò via, dignitosa, sospirando.

[p. 9 modifica]— Ricordati, oh! che te l’avevo predetto, — uscì a dir finalmente il Pentàgora.

Sonò il suo vocione così urtante nel silenzio, che la sorella Sidora, quantunque sempre astratta, balzò ancora qui da sedere, tolse dalla tavola il piatto dell’insalata, ghermì un tozzo di pane, e scappò via, a finir di cenare in un’altra stanza.

Antonio Pentàgora la seguì con gli occhi fino all’uscio, poi guardò Niccolino e si stropicciò il capo raso con ambo le mani, aprendo le labbra a un ghigno frigido, muto.

Ricordava.

Tant’anni addietro, anche a lui, di ritorno alla casa paterna dopo il tradimento della moglie, la sorella Sidora, bisbetica fin da ragazza, aveva voluto che non si movesse alcun rimprovero. Zitta zitta, ella lo aveva condotto nell’antica sua camera da scapolo, come se con ciò avesse voluto dimostrargli ch’ella si aspettava di vederselo un giorno o l’altro ricomparire dinanzi, tradito e pentito.

— Te lo avevo predetto! — ripetè, riscotendosi da quel ricordo lontano, con un sospiro.

Rocco si alzò, smanioso, esclamando:

— Non trovi altro da dirmi?

Niccolino allora tirò, sotto sotto, la giacca al padre, come per dirgli: “Stia zitto!„

— No! — gridò forte il Pentàgora su la faccia [p. 10 modifica]di Niccolino. — Vieni qua, Roccuccio! Lèvati codesto cappello dagli occhi.... Ah, già: la ferita! Lasciami vedere....

— Che m’importa della ferita? — gridò Rocco, quasi piangente dalla rabbia, sbertucciando e sbatacchiando il cappello sul pavimento.

— Sì, guarda come ti sei conciato.... Acqua e aceto, sùbito: un bagnolo.

Rocco minacciò:

— Ancora? Me ne vado!

— E vattene! Che vuoi da me? Parla, sfògati! Ti prendo con le buone, e spari calci.... Mettiti il cuore in pace, figliuolo mio! La lettera, io dico, avresti potuto raccoglierla con più garbo, senza romperti così la fronte nello sportello dell’armadio.... Ma basta: sciocchezze! Denari, ne hai quanti ne vuoi; femmine, potrai averne quante ne vorrai. Sciocchezze!

Sciocchezze! era il suo modo d’intercalare e accompagnava ogni volta l’esclamazione con un gesto espressivo della mano e una contrazione della guancia.

Si levò di tavola e, recatosi presso il cassettone, su cui stava accoccolato un grosso gatto bigio, trasse una candela; staccò, per dare a vedere ciò che intendeva fare, i gocciolotti dal fusto; poi l’accese e sospirò:

— E ora, con l’ajuto di Dio, andiamo a dormire!

[p. 11 modifica]— Mi lasci così? — esclamò Rocco, esasperato.

— E che vuoi che ti faccia? Se parlo ti secchi.... Debbo stare qua? Ebbene, stiamo qua....

Soffiò su la candela e sedè su una seggiola presso il canterano. Il gatto gli saltò sulle spalle.

Rocco passeggiava per lo stanzone, mordendosi a quando a quando le mani o facendo con le pugna serrate gesti di rabbia impotente. Piangeva.

Niccolino, seduto ancora a tavola, sotto la lampada, arrotondava con l’indice pallottoline di mollica.

— Non hai voluto darmi ascolto, — riprese, dopo un lungo silenzio, il padre. — Hai.... hem!... sì, hai voluto fare come me.... Mi viene quasi da ridere, che vuoi farci? Ti compatisco, bada! Ma è stata, Rocco mio, una riprova inutile. Noi Pentàgora.... — quieto, Fufù, con la coda! — noi Pentagora con le mogli non abbiamo fortuna.

Tacque un altro pezzo, poi ripigliò lentamente, sospirando:

— Già lo sapevi.... Ma tu credesti d’aver trovato l’araba fenice. E io? Tal quale! E mio padre, sant’anima? Tal quale!

Fece con una mano le corna e le agitò in aria.

— Caro mio, vedi queste? Per noi, stemma di famiglia! Non bisogna farsene.

A questo punto, Niccolino, che seguitava ad arrotondare tranquillamente pallottoline, sghignò.

[p. 12 modifica]— Sciocco, che c’è da ridere? — gli disse il padre, levando su dal petto il testone raso, sanguigno. — È destino! Ognuno ha la sua croce. La nostra, è qua! Calvario.

E si picchiò sul capo.

— Ma, alla fin fine, sciocchezze! — seguitò. — Croce che non pesa, è vero, Fufù? quando abbiamo cacciato via la moglie. Anzi, porta fortuna, dicono. E salute, infatti, ne abbiamo da vendere e, per tutto il resto, la grazia di Dio non ci manca. Si sa, per altro, che le mogli è il loro mestiere d’ingannare i mariti. Quand’io sposai, figlio mio, tuo nonno mi disse precisamente quel che poi io ripetei a te, parola per parola. Non volli ascoltarlo, come tu non hai voluto ascoltarmi. E si capisce! Ognuno vuol farne esperienza da sè. Che cosa credevo io che fosse Fana, mia moglie? Precisamente ciò che tu, Roccuccio mio, credevi che fosse la tua: una santa! Non ne dico male, nè gliene voglio: ne siete testimonii. Do a vostra madre tanto che possa vivere, e permetto che voi andiate a visitarla una volta l’anno, a Palermo. M’ha reso in fin dei conti un gran servizio: m’ha insegnato che si deve obbedire ai genitori. Dico perciò a Niccolino: — Tu almeno, figliuolo mio, salvati!

Quest’uscita non piacque a Niccolino, che già faceva all’amore:

[p. 13 modifica]— Ma pensate a vojaltri, voi, che a me ci penso io!

— A lui, oibò! a lui.... ah, figlio mio! — esclamò sogghignando il Pentàgora. — Ma San Silvestro.... Ma San Martino....

— Va bene, va bene, — rispose Niccolino irritatissimo. — Ma a noi la mamma, poveretta, che male ha fatto, se pur è vero che...?

— Niccoli’, ora mi secchi! — lo interruppe il padre, levandosi in piedi. — È destino, sciocconaccio! Ed io parlo per il tuo bene. Prendi, prendi moglie, se tre esperienze non ti bastano, e — se sei davvero dei Pentàgora — vedrai!

Si liberò del gatto con una scrollata, tolse dal canterano la candela e, senza neanche accenderla, scappò via.

Rocco aprì la finestra e si mise a guardar fuori a lungo.

La notte era umida. In basso, dopo il ripido degradare delle ultime case giù per la collina, la pianura immensa, solitaria, si stendeva sotto un velo triste di nebbia, fino al mare laggiù, rischiarato pallidamente dalla luna. Quant’aria, quanto spazio, fuori di quell’alta finestra angusta! Guardò la facciata della casa, esposta lassù ai venti, alle piogge, malinconica nell’umidor lunare; guardò in basso la viuzza nera, deserta, vegliata da un solo fanale piagnucoloso; i tetti delle povere case raccolte nel sonno; e si sentì [p. 14 modifica]crescere l’angoscia. Rimase attonito, quasi con l’anima sospesa, a mirare; e come, dopo un violento uragano, lievi nuvole vagano indecise, pensieri alieni, memorie smarrite, impressioni lontane gli s’affacciarono allo spirito, senza precisarsi tuttavia. Pensò che lì, in quella straducola angusta, quand’egli era bambino, proprio sotto a quel fanale dal fioco lume vacillante, una notte, era stato ucciso un uomo a tradimento; che poi una serva gli aveva detto che lo spirito di quell’ucciso era stato veduto da tanti; e lui ne aveva avuto una gran paura e per parecchio tempo non aveva più potuto affacciarsi di sera a guardare in quella via.... Ora la casa paterna, lasciata da circa due anni, lo riprendeva, con tutte le reminiscenze, con l’oppressione antica. Egli era libero di nuovo, come ritornato scapolo. Avrebbe dormito solo, quella notte, nella cameretta nuda, nel lettuccio di prima: solo! La sua casa maritale, coi ricchi mobili nuovi, era rimasta vuota, buja.... le finestre erano rimaste aperte.... e quella luna, calante tra le brume sul mare lontano, doveva vedersi certo anche dalla sua camera da letto.... Il suo letto a due.... tra i cortinaggi di seta rosea.... ah! Strizzò gli occhi e serrò le pugna. E domani? che sarebbe stato domani, quando tutto il paese avrebbe saputo ch’egli aveva scacciato di casa la moglie infedele?

[p. 15 modifica]Là, col capo immerso nel vasto silenzio malinconico della notte punto qua e là e vibrante da stridi rapidi di pipistrelli invisibili, con le pugna ancora serrate, Rocco gemette, esasperato:

— Che debbo fare? che debbo fare?

— Scendi giù dall’Inglese, — insinuò piano e quieto Niccolino, che se ne stava ancor presso la tavola, con gli occhi fissi su la tovaglia.

Rocco trasalì alla voce, e si voltò, stordito da quel consiglio e dal vedere il fratello ancora lì, impassibile, sotto la lampada.

— Da Bill? — gli domandò, accigliato. — E perchè?

— Io, nel tuo caso, farei un duello, — disse con aria semplice e convinta Niccolino, raccogliendo nel cavo della mano tutte le pallottoline arrotondate e andando a buttarle dalla finestra.

— Un duello? — ripetè Rocco, e stette un poco a pensare, impuntato; poi proruppe: — Ma sì, ma sì, ma sì, dici bene! Come non ci avevo pensato? Sicuro, il duello!

Dalla chiesa vicina giunsero i rintocchi lenti della mezzanotte.

— Mezzanotte?

— L’Inglese sarà sveglio....

Rocco raccolse il cappello ammaccato dal pavimento.

— Ci vado!