Il vecchio della montagna/I
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IL VECCHIO DELLA MONTAGNA
I.
Melchiorre Carta saliva la montagna, ritornando al suo ovile.
Era un giovine pastore biondastro, di piccola statura; una ruga gli si disegnava fra le sopracciglia folte e nere, che spiccavano nel fosco giallore del suo volto contornato da una rada barbetta rossiccia. Anche la sopragiacca di cuoio del suo costume era giallognola, e il cavallino che egli montava era rossastro, tozzo, angoloso e pensieroso come il suo padrone.
Melchiorre era un giovine di buoni costumi e d’ottima fama; molto spensierato ed allegro non lo era mai stato, ma da qualche tempo si mostrava più taciturno del solito, e si sentiva quasi malvagio, perchè sua cugina Paska lo aveva abbandonato alla vigilia delle loro nozze. E senza motivo! Così, solo perchè ella si era improvvisamente accorta di essere graziosa e corteggiata anche da giovani signori.
Il cavallino saliva con prudente lentezza, scuotendo la testa tenuta alta dal freno. Dopo le falde sassose, olezzanti di cespugli aromatici, dalle quali si scorgeva Nuoro e un panorama di valli selvaggie e di montagne lontane, il pastore s’inoltrò nei boschi d’elci.
Il mattino d’agosto era purissimo: il giorno prima aveva piovuto, e nel bosco regnava una dolce frescura: le felci, l’erba, i tronchi umidi, le roccie lavate, esalavano un profumo quasi irritante; la brezza dava marezzi argentei alle chiome degli elci; il cielo sorrideva azzurro come un lago negli sfondi sereni. E Melchiorre saliva triste e truce fra tanta dolcezza di cielo e di bosco; sentiva un indistinto vocìo, un riso di donne, che lo precedevano su per il sentiero; gli sembrava di riconoscere il riso fresco e sonoro di sua cugina, e si rodeva d’ira.
— È lei! E ride! — disse a voce alta, fermando il cavallo; e stette ad ascoltare.
Le voci s’allontanarono; il riso si spense con la vibrazione dell’eco. Melchiorre sospirò e spronò il cavallo.
E il cavallo riprese a salire, a salire, con ritmico ondeggiar della groppa, con lento sbatter della coda sui fianchi ossuti: su per le chine rocciose, dalle quali il vento aveva spazzato le foglie e denudato le grandi radici degli elci, rossastre contorte e avviluppate come serpenti, il suo passo risuonava metallico e il suo ferro lucente traeva scintille dal granito.
Dopo le chine s’aprirono silenziose radure, circondate d’alberi che si slanciavano sui limpidi sfondi. Qua e là le roccie accavalcate parevano enormi sfingi; alcuni blocchi servivano da piedestalli a strani colossi, a statue mostruose appena abbozzate da artisti giganti; altri davano l’idea di are, di idoli immani, di simulacri di tombe dove la fantasia popolare racchiude appunto quei ciclopi che in epoche ignote sovrapposero forse le roccie dell’Orthobene, traforandole nelle cime con nicchie ed occhi, attraverso cui ride il cielo.
Dopo le radure, di nuovo il bosco: sentieri umidi, piccoli corsi d’acqua, profumo di giunco, erbe calpestate da greggie ed armenti; e sempre ombra, tremuli rabeschi di sole, qualche grido di gazza, qualche picchio di accetta ripercosso da due, tre, quattro echi. Poi ancora la salita, ma dolce, molle di felci fresche.
Guadagnata anche questa, il pastore incontrò alcune donne e fanciulli che scendevano carichi di sacchi di carbone. Fermò il cavallo per lasciarli passare. In quel tratto il sentiero serpeggiava fra rupi aride, e il sole batteva già caldo sul terreno sassoso e privo d’alberi.
La montagna appariva improvvisamente desolata; era un adeguato sfondo al triste gruppo di quelle donne lacere e scalze, con la testa conficcata nei gravi sacchi neri; di quei fanciulli che scendevano curvi sotto l’enorme carico, con le manine nere penzoloni, la testa tirata indietro dalla corda dei sacchi, e gli occhi e la bocca spalancati per il calore e la fatica. Donne e fanciulli scendevano cauti, silenziosi, coi visi rossi lucenti di sudore, e gli occhi nuotanti in un sogno di dolore malvagio. Vedendo il pastore, tranquillo e seduto a cavallo, lo invidiarono, e glielo dimostrarono gridandogli rudemente di scostarsi, aizzando il cavallo e imprecando.
Due donne, rimaste ultime, gli si fermarono davanti, ridendo di un riso spezzato e maligno:
— Vai all’ovile, Merzioro Carta?
— Così pare!
— Se aizzi il cavallo farai un bell’incontro.
— Io non devo incontrar nessuno! — diss’egli, duro.
Ma, dentro, il cuore parve saltargli alla gola.
— È dunque lei! — pensò con rabbia.
Le donne intanto, ripresa la discesa, fermarono un ragazzo per il sacco.
— Grida così: tanti saluti a Paska Carta!
Il ragazzo si volse in faccia al sole, socchiuse gli occhi, si portò le mani giunte alla bocca, e gridò:
— Faccia di volpe, ohè, tanti saluti a Paska Carta!
Il maligno grido finì d’inviperire Melchiorre: tuttavia non si volse, non rispose, e non si fermò finchè non giunse ad una fontana. Grandi elci immobili ombreggiavano la radura coperta di tenere erbe bionde: davanti alla rozza fontana di pietre si scorgevano le traccie di un banchetto; macchie nere ove era stato acceso il fuoco, felci appassite su cui erano state distese le tovaglie, avanzi di frutta, frantumi di stoviglie, e in giro alcune pietre, che avevano servito per sedili sembravano ancora accolte a muto convito.
Il pastore e il cavallo parevano piccolissimi in quella solenne grandiosità d’alberi e di sfondi azzurri.
Melchiorre smontò, e tirando il cavallo per la briglia si avanzò fino alla fontana. S’inginocchiò sulle pietre, rigettò indietro sul capo la berretta, e curvandosi sino a baciar la sua figura riflessa dall’acqua, bevette a lunghi sorsi. Si rialzò coi baffi stillanti, s’accomodò la berretta, e fece bere il cavallo alla fontana, invece che alla pozza praticata apposta per abbeverar le bestie.
Mentre il cavallo s’abbeverava, egli guardava intorno sospettoso, provando un gusto dispettoso nel veder l’acqua intorbidata dall’animale. La fontana era stata pulita pochi giorni prima, per uso di alcune famiglie che facevano la novena nella chiesetta in vetta al monte. Paska serviva in una di queste famiglie, e ogni giorno scendeva alla fontana, per attinger acqua, con la rossa anfora di creta sul capo; i suoi adoratori, certo, la rincorrevano fin laggiù.
Che dunque il cavallo bevesse, che intorbidasse, che, potendo, inquinasse la fresca acqua pura, come quei signori avevano avvelenato l’anima del pastore.
Che bevesse! Anzi, in un impeto d’ira, che diede un giallo fulgore ai suoi occhi, Melchiorre si curvò, aprì le mani, afferrò uno, due, tre massi, dalla base nera di fango, e li gettò entro la fontana. L’acqua gorgogliò, sprizzò, traboccò, si sparse sulle pietre circostanti.
Egli riprese la briglia, risalì rapido in sella e s’allontanò.
Tutto ritornò nel grave silenzio di prima; s’udiva solo il crepitar delle foglie secche e dei ramoscelli spezzati dalle zampe del cavallo.
Un po’ più su Melchiorre si fermò: il suo ovile era a levante, un po’ lungi dalla chiesetta, davanti alla quale non occorreva passare. Eppure, per un momento, egli fu tentato di salire lassù; ma poi rallentò la briglia, e lasciò che il cavallino seguisse da sè la via. E il cavallino rizzò le orecchie, e attraverso i laberinti del bosco e delle rupi s’avviò all’ovile.
Allora, riprendendo la solita via, Melchiorre tornò alla realtà, e si sdegnò della sua debolezza. Gli accadeva sempre così.
— Sta quieto, — gli diceva il vecchio padre, — meglio prima che poi.
Ma questo conforto era come il sale sopra una ferita; gli destava spasimi feroci. E sempre, senza volerlo, si trovava sulle traccie della ridente creatura, che pareva lo affascinasse appunto con l’insultante letizia della sua giovinezza libera e leggera. Gli sembrava di aver dritto ancora su di lei, come parente, e senza l’idea del padre vecchio e cieco, si sarebbe compromesso.
Giunse all’ovile a sole alto: il cavallo si fermò al solito posto, presso una mangiatoia di pietra, sotto un elce. Un piccolo cane nero dai limpidi occhi castanei, e un gatto tigrato dagli occhi celesti, gli vennero incontro, silenziosi, l’uno saltellando, l’altro a passettini lenti e leziosi.
S’udiva il tintinnìo delle capre al pascolo, e il grido del giovine mandriano, che, in assenza di Melchiorre, custodiva l’ovile e il vecchio cieco.
In quel versante l’Orthobene guardava l’oriente, chiuso dalle azzurre montagne della costa, fra le quali intravedevasi il mare, confuso col cielo in una zona grigio-perla. Terre solitarie e ondulate si stendevano ai piedi della montagna; e lassù, intorno all’ovile, l’Orthobene era tutto un incanto di roccie, di boschi e di radure. La capanna sorgeva in uno spiazzo dal libero orizzonte: il sentiero che là conduceva, insinuavasi nel bosco, rasentava precipizi, chine coperte d’erba bionda, scendeva e saliva per scalinate, antri, archi di granito. Il musco copriva i tronchi e le pietre; l’edera, sugli alti crepacci abbandonava i suoi ciuffi alle carezze del vento.
Nella radura intorno alla mandria sorgeva un solo elce: davanti, l’orizzonte: dietro, il bosco; a destra e a sinistra, enormi roccie sovrapposte, forate in alto da occhi che per lo sfondo del cielo sembravano azzurri, e più giù da nicchie inghirlandate d’edera, e dalle quali pareva fossero scomparsi idoli antichi. Qualche roccia si slanciava sottile come un obelisco; altre giacevano su enormi piedistalli, come sarcofaghi coperti da drappi di musco verde. E tutte le cose, alberi, roccie, macchie, in quel luogo di solitudine, parevano immerse nella contemplazione dei solenni orizzonti.
Anche le capre, allor che salivano sulle roccie, volgevano il viso di sfinge barbuta e gli occhi melanconici alle lontananze marine; anche il gatto, nei suoi lunghi sogni sulle pietre, fissava le pupille diafane all’oriente; e il vecchio cieco, e il mandriano e Melchiorre guardavano sempre laggiù, come in attesa di qualche cosa.
La capanna, di rami e di pietre, era abbastanza vasta e pulita, con un gran focolare nel centro. Dai rami sporgenti pendevano recipienti di sughero, per il latte, e i gabbani dei pastori.
Al giunger di Melchiorre, zio Pietro uscì dalla capanna. Era alto e rigido, con qualche cosa di ieratico nel volto roseo dalle palpebre abbassate, col profilo aquilino e una lunghissima barba, di un candore metallico; calvo, con una corona di riccioli argentei sulla nuca. Le folte sopracciglia bianche aggrottate, tradivano l’intensa, continua attenzione ai suoni e alle impressioni esterne. Indossava il costume di vedovo nuorese, ma sul capo, invece della berretta sarda aveva un tocco di pelle di volpe. Col suo leggero bastone di legno d’oleandro, sul cui manico era rozzamente incisa una testa di cane, parve volersi far largo, protendendolo in avanti e di fianco, alla ricerca di un invisibile ostacolo. Anche la sua mano sinistra, rossa, rugosa e tremante, brancicava cercando un appoggio, spingendo un ostacolo. Sebbene calmo in apparenza, non sorrideva, e solo quando sentì che Melchiorre arrivava, spianò le sopracciglia: e il suo bel volto parve quello di un patriarca.
Dal suono rimbalzante delle staffe e del freno si accorse che Melchiorre toglieva la sella al cavallo, e si fece un po’ indietro per lasciarlo passare.
L’altro entrò, senza dir parola, e depose bruscamente per terra la bisaccia, intorno alla quale il cane s’aggirò fiutando.
— Cosa ha? — pensò zio Pietro, accorgendosi subito che il figliuolo era più irritato del solito. Ma tosto sentì un profumo di frutta e si rallegrò come un bimbo.
— Cosa hai portato? — chiese.
— Toccate, — disse Melchiorre.
— Questo è un cocomero. E questo è un popone! Bene!
— Dove è quello scimmiotto? — domandò Melchiorre, buttandosi sulla stuoia, accanto alla porta.
Sporse il capo, fischiò, gridò:
— Basilio, o Basiliooo?
Anche zio Pietro sedette. Il cane e il gatto, da buoni amici, fiutavano assieme le frutta recate da Melchiorre.
— Basiliooo?...
Il mandriano rispose con un bèèè tremulo e prolungato, che pareva il belato d’una capra, poi fischiò, e arrivò saltellando e correndo, con una lepre sotto il braccio.
Nel lasciare il suo villaggio, che si scorgeva dall’Orthobene, Basilio aveva preso con sè una lepre di nido, così piccola che stava entro il pugno; e il padrone gli permetteva di allevarla, col patto di arrostirla un giorno o l’altro. Dopo i primi tentativi di fuga, la palpitante bestiola dalle lunghe orecchie bionde parve addomesticarsi; bevette il latte, rosicchiò il pane, raspò le ghette di zio Pietro, morsicò le dita di Basilio; e quando credeva di non esser veduta giocava e saltellava, strofinandosi il musino con ambe le zampette anteriori. Ma i suoi grandi occhi dolci, sempre aperti e intenti, meditavano la fuga, e guardavano lontano, come assorti nel ricordo della libera vigna natia, dove i fratelli dovevano danzare alla luna e rosicchiare i primi acini violetti dell’uva che maturava.
Basilio però la teneva sempre legata e spesso la prendeva con sè, a guardare le capre.
Entrato nella capanna, la legò ad un piuolo, emettendo piccoli gridi di contentezza alla vista dell’anguria, sulla quale si gettò, fiutandola e morsicandola per ischerzo.
Mangiarono in fretta il grigio pane d’orzo, silenziosi. Accanto alla solenne figura del vecchio, contrastava quella bronzina e ridente del giovinetto dai begli occhi neri, dall’ondulata capigliatura d’oro bruciato e gli splendidi denti che, nel riso, apparivano tutti, fino ai molari, nella rosea cornice delle gengive.
— Sarebbe tempo di finirla con la tua lepre! — disse a un tratto Melchiorre.
— Cosa volete farne?
— Questo, — disse il padrone; e con la mano fece atto di praticare un buco.
— Prima facciamolo a questa! — rispose Basilio, mettendosi l’anguria fra le gambe.
— Oh, lo faremo anche alla lepre!
— Altro bene voi non abbiate!
— Lo dicevo io! Mi meraviglio, scimmiotto! Alla tua età si amano le donne, non le lepri! — disse ironicamente Melchiorre. — Ma forse le vuoi bene perchè ti somiglia. — Porse un pezzetto di pane alla lepre e proseguì: — Sì, con quelle orecchie somiglia a te e all’asino. Diavolo! — gridò ritirando la mano, — mi ha morsicato! Tutta te, ecco, che sembri sciocco e sei una volpe!
Basilio rise, tutto intento a bucar l’anguria col suo coltello.
— Lepre.... volpe.... bah! — disse zio Pietro, cui non piaceva il linguaggio aspro del figlio. — Del resto, — aggiunse, — anche la lepre ha la sua parte di perfidia. Ha l’alito pestilenziale: se sugge le mammelle d’un’altra bestia il latte di questa si dissecca. Una volta una pecora trovò un nido di leprotti, la cui madre era stata uccisa. Cosa fa la pecora, stupida? Li allatta. Ebbene, il suo agnello comincia a deperire, a deperire....
— La pecora non aveva più latte? — chiese Basilio, attentissimo.
— Sì.
— Conti d’Isoppo! (Esopo) — disse Melchiorre sprezzante.
— Eppoi, eppoi? Raccontate, zio Pietro. E la lepre? E l’agnello?
Ma zio Pietro tacque, risentito, poi chiamò il gatto:
— Tortorella?... Basilio, dà da mangiare agli animali.
— Zio Melchiorre ha già mangiato! — disse Basilio ridendo.
Intanto sbatteva lievemente per terra l’anguria finchè questa non s’aprì in due stelle carnose d’un rosa pallido, sparse di sementi bianche.
— Acerba? — domandò zio Pietro.
— Pur troppo! — grugnì Melchiorre, comicamente desolato. Tuttavia prese una fetta, e vi tuffò ferocemente la bocca, imprecando fra sè perchè nessuna cosa gli andava a seconda.
Dopo il pasto, tutti uscirono fuori. Basilio riprese a fischiare e a belare, e Melchiorre portò al cavallo gli avanzi dell’anguria.
Da lontano arrivava il tintinnar delle capre; ma voci e suoni sfumavano nel gran silenzio, nell’immensa serenità del paesaggio: e fra gli alberi e le rupi enormi, le figure dei pastori apparivano piccolissime, nere sui limpidi sfondi.