Dalle dita al calcolatore/Attenzione
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PRESENTAZIONE
di Silvio Ceccato
ATTENZIONE! E FU IL NUMERO
Il resto di questa storia dei numeri si trova nel libro di A. Campiglio e V. Eugeni, ricco di informazioni e di temi per una riflessione sull’uomo che si fa sapiens e faber. Io cercherò di scoprire ciò che deve essere accaduto prima, quando l’uomo operava più con spontaneità biologica che con intenzionalità consapevole.
Darò un ordine alle poche pagine suddividendo la storia in alcune tappe.
La spontaneità biologica, n. 1
È sempre utile ricordare come l’uomo operi in quattro modi: a) fa certe cose sapendo di farle e sapendo come; b) sapendo di farle, ma non come; c) non sapendo nemmeno di farle; ed infine d) credendo di farle in un modo e facendole in un altro.
L’uomo può credere, per esempio come Kronecker, che, pur essendosi fabbricato tutto, abbia ricevuto già fatti i numeri o, come Cantor, che non avendoli ricevuti già fatti, se li sia apprestati confrontando fra loro due collezioni non numerate (Platone ne avrebbe messa almeno una in cielo!).
Un bambino digerisce benissimo, come un gatto ed un cane, e se un giorno conoscerà il magnifico laboratorio di chimica e fisica che è il suo stomaco, gatto e cane forse non lo conosceranno mai. Per procedere in un pensiero unitario, ogni 5-7 secondi dobbiamo riassumere il già fatto in un contenuto mentale di circa mezzo secondo, ricominciando poi da questo. Quanti lo sapevano, finché i tentativi per la macchina che osserva, pensa e parla non hanno obbligato a rendersene conto? E che cosa dire dei primi studiosi dell’osservazione che immaginarono che i risultati delle loro operazioni percettive e rappresentative fossero costituiti da tante datità siffatte e incognite fuori della testa, da portarvi all’interno per venir conosciute? Insistendo poi per millenni, nonostante la contraddizione di questa posizione e quindi le insolubili difficoltà generate. Per esempio, la cosa esterna resta al suo posto; quella interna deve perdere la sua fisicità per trovare posto nella testa già piena di una materia sua, il cervello; dovrebbero venir messe a confronto una incognita con una cognita. Tutti i procedimenti escogitati per superare la difficoltà non lo potrebbero mai, dovendo naufragare fra contraddizioni figliate dalla prima. Come possono gli uomini essersi attestati per secoli su questa verità da adaequatio?
Eppure l’uomo era già riuscito ad osservare, a pensare, a parlare, ad apprestarsi criteri e valori positivi e negativi, e sino ad un certo punto anche a giudicare delle grandezze, a contare; e così a produrre opere fortemente impregnate di ritmi e di valori estetici.
Certamente un animale, l’uomo, che nei milioni e milioni (miliardi?) di anni si era dato, come gli altri, un capo, un corpo, arti, movimento, organi tattili, ottici, acustici, gustativi, ecc. ecc., vivendo e sopravvivendo. Erano i famosi “istinti”, gli “impulsi naturali”, vivi prima che egli, a differenza forse degli altri esseri viventi, aggiungesse un ultimo pezzo al suo cervello, in grado non solo di farlo pensare ma anche di pensare sul suo pensare, permettendogli progetti e realizzazioni: cioè una volontà, una finalità ed anche una doverosità. E così via. Sì, proprio noi, gli uomini di oggi, che ben si comprendono quando affermano che una natura li ha fabbricati, con le meravigliose pompe del cuore e dei polmoni, la rete dei circuiti di cui s’intesse il sistema nervoso, lo scambio fra corteccia, nervi, muscoli, ecc. Una natura che ha permesso al millepiedi di coordinare i passi, le cento zampette, alle api di costruire con il minimo di materia e spazio le proprie cellette, senza ricorrere al calcolo integrale ed infinitesimale, al formicaleone di accoppiare forze centrifughe e centripete nell’apprestare il cono-trappola per le formiche. Il trifoglio, come conta le foglie? E come, per nostra fortuna, qualche volta sbaglia e se ne dà quattro?
Il tono scherzoso non nasconda il problema di fondo.
L’intenzionalità consapevole, n. 1
A un certo punto, questo animale, questo quadrupede si è eretto, ha aggiunto un nuovo pezzo di cervello, il neoencefalo, vi ha associato le mani (l’uomo è intelligente perché ha le mani o ha le mani perché è intelligente?). Questo essere corticalizzato ha superato ogni altro animale, soprattutto connettendo l’operare della sua testa con organi vocali che lo rendono pubblico e permettono che i risultati di ogni pensante-parlante siano comunicati.
Quando, dalle cinque dita delle mani e dei piedi, le cinque punte della stella marina, poteva però passare alle cinque delle parti del mondo?
Gestazione indubbiamente lentissima, anche se oggi l’ontogenesi riduce a ben poco la lunga filogenesi, e dopo tanti balbettii ed ingenuità una mente si cimenta con se stessa.
Vediamo di raffrontarne un primo stadio, non certo ultimato, con quello di qualche animale. Scattò una trappola.
In breve, i nostri organi percettivi ottici e tattili, come quelli di moltissimi animali, giungono a costituire il percepito scartando l’aria. Nella vista, perché trasparente, e l’occhio si ferma sull’opaco, e nel tatto perché molle e fendibile, e la mano si ferma sul duro e resistente. Poiché l’aria scartata è sempre la stessa, sarà eguale per dimensioni e forma anche ciò che resta, cioè l’oggetto percepito. Soltanto, esso è lontano dal corpo nella vista, ed è a contatto nel tatto. Certo, dev’essere stato difficile non credere che la cosa lontana, trovata eguale a contatto, non preesistesse di per sé siffatta alla vista, e si dovesse portare a noi per esserci presente, cioè per divenire un contenuto mentale. Tanto più che le cose osservative fisiche di solito hanno una persistenza più lunga che il mezzo secondo richiesto da una percezione. Tanto più che gli organi e funzionamenti del sistema nervoso sia centrale che periferico non si vedono ad occhio nudo e, non essendo accompagnati da fatica e sforzi ed essendo resi rapidi dall’uso frequentissimo, sfuggono all’attenzione.
Sì, la trappola più tragica e comica che il pensiero abbia potuto tendersi.
La prova che le cose stiano così si ha osservando che cosa accada quando la situazione sia eccezionalmente mutata: quando la trasparenza sia per esempio quella del vetro, dura, e l’opacità sia per esempio quella della nebbia, nuvola, fumo, molli. Sulla lastra si va a sbattere; e la mosca insiste per ore e ore sul vetro della finestra cercando di attraversarla; così come abbiamo l’impressione di urtare contro la “parete”, il “muro” di nebbia, o dall’aereo di poter camminare sulle nuvole sottostanti.
L’inganno si rinsaldò per l’uso incauto ed irriducibilmente metaforico di una parola, parola fra l’altro insopprimibile nel vivere corrente, in quanto indica che una cosa si può fare in quanto è già stata fatta e se ne ha il ricordo: la parola “conoscere”. Si conosce Parigi dove si è abitato, il francese che si è studiato, il tennis giocato, il signor Guglielmi vicino di casa, ecc. Ora però essa viene adoperata per indicare l'impossibile trasferimento della cosa dall'esterno all’interno della testa ed il suo diventare, da incognita, cognita.
Poco male se si trattasse solo dell'errore semantico, ma s'instaura una spirale invischiante e traditrice. Di ogni cosa si può dire che essa si conosce o no. Ma allora, se il conoscere comporta l'esistenza della cosa fisica esterna, ogni cosa conosciuta diventerà qualcosa di fisico esterno o di derivato da esso tenendone e scartandone certe parti, cioè con l'“estrazione-astrazione”. Impossibile procedere senza un criterio. Ma che altro permetteva l'errore compiuto? E ciò che si doveva ottenere, era proprio contenuto nell'osservato od invece vi era aggiunto, di altra provenienza?! Come rispondere?
Se poi l'illusione sembra avere un certo sostegno quando la cosa nominata è un osservato, l'albero, la casa, come lo potrebbe nel caso del tempo e dello spazio, del numero, del punto, della causa e dell’effetto, del tutto e del niente? Comunque la trascendenza, cioè l'esistenza di qualcosa di esterno e di dato all'uomo prima di essere suo contenuto mentale, si diffuse, assieme al panconoscitivismo e al panfisicalismo.
Ma se certi contenuti mentali non solo non avessero alcuna provenienza dall'esterno, ed in effetti nessuno l'ha, avvenendo la collocazione spaziale e temporale dopo e non prima della loro presenza, e neppure inglobassero alcun apporto del sistema nervoso periferico, essendo il risultato del solo sistema centrale? Perché, appunto, sono tali decine e centinaia di questi costrutti puramente mentali: soggetto ed oggetto, inizio e fine, singolare e plurale, causa ed effetto, parte, resto e tutto, tempo e spazio, prima e dopo, “e”, “o”, “di”, “a”, “per”, niente, qualcosa, ecc. E nessuno penserà che in essi si trovi necessariamente un sapore, un odore, un colore, ecc. E si dovrà anche ammettere che essi si trovano adoperati con parole che li designano sia da soli, isolati, sia applicati ad altro. Per esempio, il “singolare” in “alber-o”, ed il “plurale” in “alberi”, il “prima” in “prima-vera” ed il “dopo” in “dopo-pranzo”, il “tutto” in “toto-calcio”,e così via.
Nel suo panconoscitivismo e panfisicalismo il teoretizzante non potrà certo rendersene consapevole e, benché non possa sfuggirgli che sta operando con la sua testa, crederà di fare una cosa mentre ne fa un’altra.
Per sua fortuna, la spontaneità biologica ha operato bene.
La spontaneità biologica, n. 2
L’uomo dispone di un’attività nervosa che si coglie almeno in tre modi. 1) Non solo individuandone l’organo, di cui si pone come funzione, cioè il sistema nervoso, organo e funzionamento, ad opera dell’anatomo-fisiologo, quando è presente come attività fisica; ma anche 2) nelle sue interdipendenze con altre attività, come il circolo del respiro, del sangue, la conduzione cutanea, l’effetto sui muscoli, ecc.; ed infine, primamente, 3) in modo diretto e nominato senza ispezioni guidate, come “attività attenzionale”, quando non può essere di tipo osservativo, ma mentale, e finisce direttamente nelle sue designazioni, le parole, così come viene guidata da queste, in seguito all’impegno semantico.
Ecco alcune situazioni ed espressioni che la riguardano e sono comprese immediatamente da chiunque. In questo momento, forse nessuno avvertiva in bocca il sapore dell’ultima cosa ingerita (caffè? spaghetti? coca-cola!), e così il contatto fra polso e cinturino dell’orologio, un certo rumore di fondo, ecc. Ora sì, perché alle papille gustative, ai terminali tattili, è stata rivolta, applicata l’attenzione, mentre prima era distratta. Nemmeno ci si accorge del nostro peso sulla sedia, se l’attenzione non è diretta in quel posto. Questo, benché anche prima le papille gustative funzionassero benissimo. Sistema nervoso centrale e periferico erano sconnessi.
Siamo nella situazione del disco sul grammofono. Può essere perfetto e ruotante, ma non si ha il suono finché sul disco non sia poggiata la puntina.
Con l’intervento dell’attenzione ciò che era descritto in termini fisici si fa mentale, possibile contenuto di un pensiero, direttamente connesso con i muscoli della parola e della mano per il segno grafico e con la percezione acustica od ottica per la parola.
Si sarà notato come l’intervento dell’attenzione, se rende presente mentalmente il funzionamento di altri organi, così lo cancella, vi dà cioè un inizio e una fine, con durate medie di mezzo secondo. Superare il secondo e mezzo, i due secondi, come ridurlo al di sotto del decimo di secondo, porta alterazioni spiacevoli in altre zone del corpo.
Il sistema attenzionale però svolge anche un’altra funzione, ad opera esclusiva del sistema nervoso centrale, combinando fra loro stati di attenzione, S, con risultati che possono venir adoperati sia da soli, sia unitamente ad altri risultati, nei pensieri o quali singoli contenuti del pensiero.
Per far assumere il singolo stato d’attenzione, basta la parola “Attento!”, un’attenzione vuota, sospesa, che fra l’altro sgombra di ogni contenuto una mente “occupata”.
Che cosa accade se a quel primo stato di attenzione se ne fa succedere un secondo, S + S? Dipende dal modulo di combinazione (in particolare, tre). Niente, con la semplice successione, ma se il primo stato è mantenuto assieme al secondo, come in circuiti in serie, l’attenzione si applica su se stessa, e ne risulta ciò che chiamiamo “cosa”; e se il secondo viene ricondotto sul primo abbiamo la “coscienza”.
Le combinazioni procedono, diverse fra loro, a) per il numero di stati di attenzione combinati, b) per l’ordine d’ingresso degli stati, da combinare o già combinati, nella composizione, e c) per il modulo di combinazione, in serie, parallelo, misto.
Quale esempio che cominci ad illuminare la nostra storia dei numeri, mostrando come i costrutti mentali siano adoperati sia isolatamente, sia applicati all’operato di altri organi, prendiamo il “singolare”, “plurale”, “collettivo”. Isolati essi sono designati così, e applicati troviamo rispettivamente, per esempio, “foglia”, “fogli-e” e “fogli-ame”.
Quando e come può essere accaduto?
Se l’attenzione applicata a se stessa produce la “cosa”, quando questa applicazione viene preceduta da uno stato di attenzione vuoto, si ha la situazione per esempio di chi entra per la prima volta in una stanza al buio e vi cerca un muro, l’interruttore della luce, ecc. Affida l’attenzione vuota al braccio, alla mano tesi in avanti, alle gambe che si spostano e ci spostano cautamente. Finché l’aria molle e fendibile non sia sostituita da qualcosa di duro, di resistente. La dipendenza si deve essere instaurata chissà quanti milioni di anni fa, ed è stata provvidenziale per la nostra sopravvivenza. L’attenzione, da sospesa, S, si fa applicata, S + S, in una successione che vede dunque S + (S + S). Si è costituito l’“oggetto”, che, come dice la parola ob-iectus, Gegen-stand, viene incontrato ci viene incontro, ecc. “Oggetto” che qui, naturalmente, nasce applicato a qualcosa di fisico, ma che di per sé, in quella combinazione di stati d’attenzione, non ha nulla di fisico e nemmeno di psichico, ma è soltanto mentale, ed è disponibile per qualsiasi applicazione, come avviene se l’“oggetto” è quello di un interesse, di una disciplina, e simili.
E se alla “cosa” che è preceduta dallo stato di attenzione puro venisse fatto seguire un altro stato di attenzione puro, cioè S + (S + S) + S? La cosa si troverebbe “isolata”, “separata”, “incorniciata”, “distinta”. Siamo giunti così al “singolare”, del quale impropriamente si dirà “uno solo”. Una successione che inverta l'ordine degli elementi combinati dà luogo al “plurale”: (S + S) + S + (S + S).
Stiamo avvicinandoci al numero.
Non dovrebbe essere difficile accorgersi di che cosa avvenga se, per esempio, prima guardiamo il disegno vedendo “un” albero, cioè un singolare, eseguendo appunto, oltre alle operazioni percettive che lo costituiscono, compreso il suo isolamento dall'aria e dalla carta, quelle dell'“oggetto”; e dopo vogliamo vederlo come unità numerica, come “1”. Il singolare viene ripetuto: [S + (S + S) + S] + [S + (S + S) + S].
Né si potrà avere un qualsiasi numero se non con la ripetizione del singolare, e quindi con la singolarità e la ripetizione quali elementi costitutivi, a cominciare dalla prima ripetizione, quella dell'“1”. Dalla ripetizione consegue fra l'altro che, se la numerazione è applicata, le cose contate siano tutte eguali fra loro, la stessa eguaglianza non essendo altro che un confronto che si conclude con la singolarità. Andrà bene, ripetiamo, per gli alberi, ed anche per i vizi e le virtù, gli dei e gli uomini, ecc. ecc, ma non per 1 albero + 1 vizio.
Ne consegue la sciocchezza di chiedersi quanti siano i numeri e quella di dare un numero ai numeri! Essi provengono dalla ripetizione e questa non è numerica. Chi vuole il numero “infinito” confonde l'operare in corso con i suoi risultati, una volta arrestato.
Quando l'umanità nella filogenesi cominciò ad eseguire queste operazioni, e quando il bambino comincia oggi ad eseguirle? Per l'umanità è ben difficile rispondere; per il bambino, fra i due e i tre anni, quando appunto comincia a contare. Naturalmente, il nostro bambino viene aiutato e si aiuta, come gli antichi si aiutarono con i sassi, presumibilmente allineati, i nodi sulla corda e le dita delle mani. Dito, dito, dito, che si possono estendere e ritrarre; ed una volta fissata la serie numerica, permettono di controllare visivamente quanto si sta facendo e si è fatto.
Intanto, un nome differente viene assegnato ad ogni ripetizione, con le ben note — ma certo successive — varianti. In breve, se ciò che si fa viene tutto conservato, collezionato, abbiamo i numeri oggi detti cardinali, 1, 2, 3, ecc.; se viene mantenuto soltanto il risultato dell’ultima ripetizione abbiamo gli ordinali, 1°, 2°, 3°, ecc.; se si indica la ripetizione, abbiamo gli iterativi, bis, ter, quater, ecc.; se si indicano insieme la collezione e gli elementi abbiamo il duo o duetto, il trio o terzetto, il quattro o quartetto, ecc. Pensando all’appaiare nasce il “paio”, all'accoppiare nasce la “coppia”. E così via.
Anche per le operazioni sulle serie, la mano è stata meravigliosa per adottare la regola che, prima e dopo le operazioni, il numero delle unità resti uguale.
Ecco la mano e la serie:
ho 3 dita stese: |
- ne voglio aggiungere 2 e le stendo:
- sono affiancate alle altre e conto:
- cioè 3 + 2 = 5.
- Ho 5 dita stese:
- ne voglio togliere 2 e le ritraggo:
- conto le dita rimaste:
- cioè: 5-2 = 3.
Non credo possa esservi dubbio che i numeri sono nati applicati agli osservati, le dita, i sassi, e prima ancora forse gli stessi uomini, gli alberi, le capanne, ecc. assunti come singolari e come plurali, certamente come oggetti, e poi contati, dopo aver avuto successo con l’uno ed i più, i pochi ed i tanti, ecc. Non c’è dubbio perché, tanti millenni dopo, ancora lo studioso ingannato dal panconoscitivismo e panfisicalismo continuò a credere che il due si vedesse in ogni coppia di sassi o di dita, in ogni paio di uova.
Era ed è rimasto difficile liberare il mentale dall’osservativo. Il mentale, ripetiamo, non costa la fatica e lo sforzo dell’operare fisico, i suoi organi e funzionamenti non si vedono direttamente, ecc. È difficile resistere alla tentazione di “ricavare” dall’osservativo il mentale e convincersi che esso può fluire autonomo e soltanto così essere applicabile ad ogni cosa, che si troverà ad essere di volta in volta elemento o composto, parte o resto o tutto, soggetto od oggetto, causa od effetto, ecc.
Per i giochi con la trascendenza, cioè il presupposto delle cose sussistenti di per sé, richiesta dagli assoluti dell’ideologia, della religione, ecc., sarebbe stato traumatico.
Ma il processo liberatorio fu agevolato verso l’operare dell’uomo, e della futura macchina, dalla mediazione della coppia “fisico-mentale” rappresentata dalla parola, cioè dal nome dato ai numeri. La parola, infatti, non è che il prolungamento operativo fisico, che lo rende pubblico, dell’operare mentale. Come si è visto, si dirà “singolare”, cioè quel suono, quella grafia, per designare le operazioni mentali che abbiamo visto esserne costitutive. Inizialmente, fra l’altro, si trattò della scrittura, se non ideografica, almeno suggestiva: per esempio l’1, con una sbarra, /, il 2 con due, //, il 3 con tre ///, ecc.; così come la figura sulla carta aiuta le operazioni richieste dalle figure geometriche, con l’aggiunta del posto in cui vanno eseguite: il punto, poi, piccolissimo, affinché non ci si possa spostare; la linea, sottile, affinché non si passi alla seconda dimensione; il triangolo,
e così via.
L’agevolazione venne perché si poté operare, anche a freddo!, sui segni, avvalendosi di questa associata parte fisica, univocamente legati alle operazioni della mente.
Alle mani si aggiunse l’abaco, il pallottoliere.
L’intenzionalità consapevole, n. 2
Certo, una consapevolezza a metà. Ma fortunata perché permise di effettuare i calcoli senza disturbare la mente e l’uso trascendente fattone in chiave e con finalità etiche. Bastava che l’unità fosse identificata con un organo bistabile conservandone i risultati ad ogni ripetizione: giro di ruota, ingranaggi o denti, circuiti aperti e chiusi.
Guai se Pascal, invece di effettuare questa identificazione, si fosse chiesto come l’uomo si era apprestato l’1; e già il singolare, e l’eguaglianza. Di sicuro il cardinal Richelieu avrebbe banditi lui e suo padre. Ancora oggi questa consapevolezza dà abbastanza fastidio perché si preferisca farne a meno.
Dal pallottoliere alla macchina, meccanica, elettrica, pneumatica, idraulica, elettronica, ecc., il passo non è difficile: 3 × 9 lo faccio io e dico 27, lo fa la macchina e presenta un cartellino, 27; ma come è più rapida, sicura, economica!
È intelligente? Mah. Se la nostra intelligenza è dovuta all’attività del sistema nervoso, all’attenzione, e se ne parla quando vengono posti rapporti nuovi e riconosciuti di valore positivo (altrimenti si è nelle corbellerie), allora macchine simili non ne sono ancora state costruite; e forse sarebbe irragionevole farlo.
L’uomo, tuttavia, è sia bravo sia irragionevole; e vai la pena ricordare Giambattista Vico: “Dio è l’artefice della Natura, e l’uomo è il dio degli artefatti”. Una concorrenza, comunque, sleale.
marzo ’88