Vuoto (1876)/Capitolo II
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II.
Ma in casa del Cav. Mario Fabbri non faceva punto freddo, nè si piangeva. Si era riunita una lieta brigata di un dieci o dodici giovanotti e d’un dieci o dodici signorine, coi rispettivi babbi e le rispettive mamme. Quindi, s’intende, buon’umore, allegria, schioppettio di frizzi, di sguardi, di sorrisi. Quelli sono elementi che non possono fare cattiva riuscita in una società. Invitate molti scienziati ed uomini di lettere, e vedrete che finirà per venire il sonno a tutti gli altri; molti artisti, ci sarà chiasso, rumore, troppo chiasso, troppo rumore; molti giornalisti e politicanti... peggio, la sala si cangerà in quella di Montecitorio, con l’immancabile destra, sinistra giovane e vecchia, e centro; riunite invece solo una mezza dozzina di giovanotti, ed una mezza dozzina di signorine, senz’altra qualità i primi, che d’aver buone gambe, e le seconde d’esser belline, e vedrete che armonia, che dolce armonia, che incantevole giardinetto d’Arcadia... oh, come scorreranno le ore!
Di questo avviso era il cavaliere Mario; egli uomo eminentemente pratico, come assicurava egli stesso, consigliere provinciale, ingolfato sino al naso nella faccenda delle acque, egli soleva dire: «In casa mia, la sera, ci voglio un po’ d’allegria. Voglio ritornare ai tempi della mia gioventù; voglio mischiarmi coi giovani: la mattina sono quel che sono, la sera non ne vo’ saper nulla; perchè la troppa serietà distrugge il fegato.»
Quella sera, quella piccola società improvvisata aveva forse uno scopo: non per nulla il cavaliere Mario era un uomo politico. — Egli voleva presentare ai suoi amici una sua nuova conoscenza, il Duca di S. Dionigi; un uomo, il quale nelle lettere aveva fatto parlare molto di sè, sino a pochi anni addietro. Ora il Duca s’era ritirato dalla vita letteraria; e, dopo aver dato uno indirizzo alla critica moderna, come diceva egli, dopo aver tentato di creare una scuola, voleva lasciare che gli altri camminassero su i suoi passi, ed egli riposarsi su i propri allori. Parlavą poco, e raramente di arte e letteratura: tante volte uno aspettava tremando una sua parola, che avesse ad annientare tutto un sistema, e poi egli diceva qualche cosa molto comune, che non annientava nulla di nulla. Era alto della persona, aveva capelli e barba d’un biondo che andava al giallo, gli occhi grandi e insignificanti, d’un giallo un po’ più oscuro de’capelli, il naso d’una regolarità desolante, modi molto signorili, ma che non ispiravano alcuna confidenza. Egli era d’un paese della Liguria. Le mamme si buccinavano fra loro, ch’egli fosse venuto in Napoli con l’intenzione di ammogliarsi. — E quella sera, vedendolo dal Cav. Mario, gli avevano subito destinato una moglie. Il cavaliere aveva un sorriso maligno di trionfo.
Alla signorina Nina era dato l’incarico della danza. Ella in effetto disponeva ogni cosa; presentava i cavalieri alle signorine; faceva far le nuove conoscenze; se c’era qualche signorina un po’ meschinuccia, un po’ nojosetta, non tanto cercata insomma, ella, la furbetta, aveva sempre il cavaliere di riserva, e non c’era pericolo che la facesse rimanere neghittosa in un cantuccio, con la mortificazione del non vedersi scelta. — Ella aveva proprio il bernoccolo della danza, se non che, non le guastava per nulla la bella testina.
E poteva chiamarsi, se fosse possibile, la danza personificata, deificata per meglio dire. Alta, snella, trasparente, con un vitino fatto apposta per abbracciarsi, un piėdino tornito ad arte per scivolare, anzi per ricamare; due occhioni neri, mobili, inebbrianti, come un valzer di Strauss, un sorriso spensierato, come l’idea della fugacità su la terra... movimenti... oh, movimenti flessuosi ed eleganti...movimenti pieni di dolce abbandono e d’energia repentina, da far pensare alla mazurca nel suo più alto ideale. Ecco, com’era fatta la signorina Nina.
Era proprio bella, divinamente bella; ma però più la sera che il mattino, ed è naturale: il mattino la danza stona un poco.
Quella sera poi qualche cosa d’insolito, di strano si passava in lei. Ella non stava ferma un minuto; alle amiche mostrava una cert’aria di mistero; non rispondeva ad alcune interrogazioni che quelle le dirigevano. Più d’una volta fu veduta sotto il braccio d’una magnifica bionda, sua solita confidente, uscire nella stanza attigua e trattenervisi con lei per più d’una mezz’ora. Questa condotta insolita faceva fare a tutte le altre signorine mille supposizioni in aria, faceva imaginare certe cose, che poi non erano tanto lontane dal vero; e più d’una si preparò a tenerle il broncio, mormorando che quello non si chiamava avere dell’amicizia; perchè, fra giovanette, si devono confidare subito certi segreti.
Più d’una volta poi fu veduto il duca di S. Dionigi seduto accanto a lei, e, cosa strana, egli sembrava parlarle. Questo bastò per isciogliere ogni enigma; ma non produsse mica l’impressione più gradita del mondo; anzi ci fu più d’una vispa signorina, la quale fece udire a un dipresso queste parole: «A che ci ha invitato questa sera?»
Nina però finalmente s’accorse del malumore delle sue amiche, — di che non s’accorgeva quella fanciulla? — e cercò ogni suo mezzo per fugarlo, tanto più che cominciava anche lei a seccarsi.
— Stasera, prevedo burrasche, — diss’ella entrando in mezzo ad un crocchio di signorine e di zerbinotti, — il nuovo maestro non comparisce ancora.
— Oh, mio povero primo valzer! — esclamò un bel giovine.
— Oh, mia povera mazurca! — ripeteva un altro ballerino.
— Oh, mio disgraziato lanciere! — aggiungeva un terzo; già in ogni modo, questa sera sono in disdetta: ho cominciato per aver concesso un lanciere; figurarsi i resti!
— Sono resti di cui ti puoi gloriare, — rimbeccò il primo; quello del valzer, e certo quello tenuto in più alto concetto dalla signorina Nina.
— Gemma non si vede stasera, — disse qualcuna.
Nina guardò negli occhi il duca che in quel momento s’era avvicinato. — Il duca sorrise, crollando il capo con un movimento grave ed uguale.
— Oh, oh! Gemma viene tardi, tardi assai! — aggiunse ella poi, — e viene solo un momento, di passaggio; perchè deve andare dalla Principessa. Eh! adesso bisogna far poco conto su Gemma; ella s’è slanciata nel gran giro.
— L’ho vista stamattina da Madame Fass, — disse una brunetta dal nasino un po ’ puntuto, dagli occhietti sfavillanti una certa rabbietta maliziosa, — Nina, dovevi vedere che toeletta!
— Oh, sta cheta, chi può dir male delle toelette di Gemma?
— Già, già, è vero, — ripigliava la brunetta; ma vedi, quell’aria di voler dire: io non voglio parere più una signorina, mi dà un pochetto su i nervi.
— Ma fammi il piacere... dove la vedi quest’aria?
— No, sai che cosa è, Manetta? — entrò su a dire una dolce biondina, che soleva spargere il miele della concordia in tutte le questioni. — Gemma ha uno aspetto un po’ troppo imponente per signorina; ella, non volendo, pare una piccola matrona.
— Uhm! questa tua matrona poi non ha che una statura regolarissima, un dito o due dita forse più alta della nostra... no, no... è proprio che ha una grande smania a far la maritata. Figuratevi, stamane ella aveva una tunica di velluto violetto cupo appuntata dietro, sì che faceva due gran festoni, come un portiere; una vita liscia liscia con certi svolazzi alle maniche, che sembravano due altri gonnellini infilati alle braccia, e poi, su tutto ciò, un mantellino di velluto nero guernito di trecciolini di raso, anche neri, fatti tutti a scalature... ch’era d’una audacia... d’una audacia tale... E poi, figuratevi, un cappellino...
— Oh, non dir male del cappellino! — si ribellò la biondina. — Oppure devi dire che nemmeno io ci ho gusto. Madama Poma ce li ha fatti venire a tutte e due da Parigi.
— E anch’io me ne farò uno eguale, aggiunse Nina.
— Fatemi il piacere che ci trovate di bello in quel cappellino?.. In primis, non è mica nuovo di zecca; me ne ricordo qualcuno simile, due o tre anni fa, quando sono uscita da S. Marcellino...
— Non dir malė di quel cappellino, venne in mezzo una seria giovanetta, che, fra quel fuoco incrociato, aveva la virtù di parlare di cose serie con un giovine seriissimo. — L’ho visto anch’io, e m’è piaciuto immensamente, carine mie; gli è un cappello che risponde al suo scopo, ch’è quello di coprire il capo, e poi, ciò che vale più ancora, è semplice, e la semplicità è il primo pregio da cercare nel nostro abbigliamento. — Quindi voltò di nuovo il capo al giovine seriissimo, a cui quella parola, «semplicità», servì d’appiglio per riprendere il filo interrotto de’ discorsi serii. Credo che imprendessero a svolgere la tesi della semplicità, messa in opposizione alla vanità femminile, fermandosi su l’argomento delicato del cuore della donna, messo a confronto col cuore dell’uomo.
— Ha ragione, ha ragione Bice, — riprese Nina, con un piccolo moto nervoso d’impazienza. — La semplicità innanzi tutto, e Gemma, sostengo ch’è semplice... anzi troppo semplice.
— Quanto è bella la semplicità! — dissero a coro i giovani, che non avevano che dire.
— Io l’adoro, — replicò Nina. — Il mio maestro ha promesso dedicarmi un valzer che porta il titolo: «semplicità».
— E tu lo meriti, bella, disse la brunetta.
— Perchè son semplice, n’è vero? allora significa che sono stupida.
— No, perchè tutti i valzer dovrebbero essere dedicati a te.
— E perchè?
— Li balli così bene!
— Trovi?
— Oh, altro! — interruppe il bel giovane: — Se Strauss la conoscesse, le innalzerebbe una piccola statua d’oro e la metterebbe, — la statua non lei, — sul suo piano forte, come una musa ispiratrice.
Nina sorrise di compiacenza.
Il complimento ti è andato a genio? — osservò la brunetta, con un sorriso furbo.
— Trovo ch’è nuovo, se non altro. — E poi, vedi, preferisco servire di musa ispiratrice ad uno Strauss ch’essere la Laura d’uno sdolcinato Petrarchino qualunque: che vuoi, quistioni di gusto!
Gli occhietti della brunetta sfavillarono più del solito. — Tutti volsero il capo, aspettandosi una risposta pungente che rivelasse qualche segretuccio; ma furono disillusi.
— Ed ha ragione la signorina Nina, esclamò il bel giovine, lisciandosi le punte dei suoi mostaccetti, quasi andasse in cerca d’una nuova scioccheria da spifferare. — Sicuro, Monna Laura doveva avere molta pazienza per sopportare le moine di quell’incorreggibile canonico. — E dire che la storia non ci parla di nessun valzer ballato da loro due; per messer Dante poi e Madonna Beatrice è un altro pajo di maniche: quelli sì che ne dovettero far giri! Che le pare, signorina Nina, è della mia opinione?
Nina sorrise.
— E sa lei da che l’argomento? Dante stesso ci dice, se non isbaglio, che egli incontrasse la prima volta la signorina Beatrice in un bal d’enfants, che dava quel buon’uomo e compiacentissimo papà di Messer Folco Portinari. Si può dunque imaginare facilmente quanti giri di polca, di valzer e di mazurche dovessero ballare assieme que’ due bambini, a cui frullava per benino la testa. Dante aveva già in corpo tutto l’inferno, senza parlare del purgatorio e del paradiso, che non sono roba per un ballo. Che ne dice, signorina Nina, ho ragione?
Ma la signorina Nina pensava a ben altro in quel momento. Ella aveva udito suo padre esclamare: «Oh, ecco finalmente il maestro!»
— Si balla finalmente! — gridò ella, e non volendo, fece un piccolo salto su la sedia, — Tilde, Margherita, Manetta, Laura, basta coi vostri serii discorsi; non sapete? si balla; cavalieri movetevi anche voi un poco.
— Ma non sembra sia ora ancora, — disse il Duca di S. Dionigi, e tutti si voltarono verso di lui; perchè forse era quella la prima volta, che facesse udire la sua voce.
— Si, si, duca, è venuto il maestro, — disse Nina.
— Dov’è questo maestro?
— Eccolo lì, — aggiunse il giovane spiritoso, — s’è piantato come un palo sotto la porta... un maestro per bene!...
— Quello è il maestro? sembra impossibile: un aspetto così elegante, così sentimentale!
— Suonerà elegantemente, sentimentalmente.
Il duca s’inchinò innanzi a Nina.
— Posso avere l’onore di chiederle il primo lanciere?
— Il primo è impossibile, sarà il terzo.
— La ringrazio lo stesso.
Ed aveva davvero un elegante aspetto quel maestro dei ballabili... ma che c’è di strano, come se una giubba ed un pajo di calzoni neri non possano stare del pari a pennello, tanto addosso ad un maestrucolo, quanto addosso al marchese B o al duca C? — Sta a vedere!
Errico, quella sera, per la prima volta si presentava in una società sotto quell’onorevole titolo di maestro; quindi, a dirvela in due parole, sembrava alquanto confuso, quasi quasi avesse vergogna.
Aveva traversato tutte le altre stanze con passo franco, con aria disinvolta ed elegante, come chi viene in una casa, dove sa d’essere atteso con piacere ed accolto onorevolmente; ma sul punto di entrare nella sala, a vedere quel lungo mobile nero starsene lì mogio mogio, con la tastiera scoperta, come se aspettasse lui, proprio lui; ad udire il padrone di casa profferire quelle parole: «Ecco il maestro finalmente!» a vedere tutte quelle testoline delle fanciulle voltarsi con curiosità a lui... egli aveva sentito stringersi il cuore come da una mano di ferro.
E s’era fermato lì, su la soglia della porta, e pareva esitante, se dovesse o no entrare.
Un buono osservatore si sarebbe forse accorto, come a lui tremasse in quel momento la mano, che teneva il cappello; avrebbe visto una vampa salirgli sul volto pallidissimo; gli occhi di lui vagare incerti all’intorno, come s’egli desiderasse atteggiarli ad indifferenza, e non potesse trovare quell’espressione... le labbra nell’atto d’aprirsi, per profferire qualche parola di scusa, ma nello stesso tempo restie a muoversi e sensibilmente tremolanti... oh, egli certo doveva soffrire in quel momento!
Ma che cosa aveva egli? Che c’è di strano venire a martellare per tre o quattro ore su d’un pianoforte, per far ballare della gente che non s’è mai vista e che bada tanto a te quanto all’istrumento mosso dalle tue dita? È una graziosa pretensione davvero, quella di credere che la gente possa pensare a te, o maestrino dei ballabili; tu adesso non rappresenti che un valzer, una polca, un galoppo; anzi il valzer, la polca, il galoppo, come tanti Saturni, ti divorano, ti annientano, e vogliono essere soli a regnare, soli ad avvolgere nelle loro onde armoniose quei fortunati mortali... tu sei sparito, non esisti più!
E dire, che tutte queste belle idee, che ora son venute a me, anch’egli, il nostro Errico, le aveva avute... ed ora, che volete, ora sono tutte svanite in un colpo; ora darebbe la metà della sua vita per trovarsi fuori di quel luogo.
E pareva ancora esitante, se dovesse o no avanzarsi; ma finalmente, come se raccogliesse tutte le sue forze, fece alcuni passi, e si diresse al padrone di casa. Gli s’inchinò leggermente dinanzi, e quasi per istinto stese a lui la mano.
Il cav. Mario ritirò la sua immediatamente, limitandosi a fare con essa un cenno di saluto. — Felice sera, felice sera... ha fatto un po’ tardi, sa!...
— Credevo che il ballo non cominciasse a prim’ora, — rispose Errico, cui non era sfuggito il moto del cavaliere.
— Oh no!... qui il ballo è tutto... di musica se ne fa poca o nulla. Son tutte ragazze e giovanotti, a cui piace muover le gambe; ed anche a me, dopo una giornata di fatiche, dopo essermi logorato il cervello nelle faccende del paese, piace a vedere un po’ di movimento, un po’ d’allegria. Basta... s’accomodi, s’accomodi; si riposi un tantino, e poi cominceremo il fuoco.
Ed accennò ad Errico una sedia quasi isolata, messa lì in un cantuccio riposto della sala. Errico corse a sedervisi: ne sentiva proprio bisogno.
Quelle sedie lì rappresentano una specie d’ostracismo; l’ostracismo che dà l’elegante al goffo, lo spiritoso al timido, l’aristocratico al borghese quasi gli uni volessero dire agli altri: «Via, lontani da noi; voi non siete degni di stare in nostra compagnia.»
Il reietto a cui capita, o a cui è destinata una di quelle sedie, è sottoposto ad una specie di martirio impossibile a descriversi. Egli non ha a chi volgere la parola; i suoi sguardi errano confusi per la sala, quasi in cerca d’un punto, su cui posarsi con indifferenza; incrocia le braccia, le disnoda; ne poggia uno su la spalliera; accavalca l’una gamba su l’altra; s’accomoda il nodo della cravatta; si passa la mano ne’ capelli; desidera il cappello, che per caso ha lasciato fuori, pensando che gli riuscirebbe di grande risorsa; cerca d’impadronirsi d’un album, d’una carta, d’un oggetto qualunque; e in ogni atto, in ogni gesto, ad ogni scricchiolio della sedia, gli sembra che tutti gli sguardi si voltino a lui, che tutti l’osservino e ridano alle sue spalle.
Oh, quelle sedie lì son molto molto penose!
Manzoni e Leopardi han paragonato la vita ad un letto: avrebbero fatto meglio a paragonarla ad una di quelle sedie.
Il povero Errico forse provava tutte quelle punture di spillo, ed oltre a ciò alcune pazze idee gli passavano per il capo.
— E se adesso mi vedessero i miei compagni? — ruminava egli tra sè; — essi che avevano tanta invidia di me... che avrebbero pagato per vedermi avvilito, oh, come trionferebbero, oh, come sarebbero contenti! Ognuno di loro ha già un nome, ed io vo’ mendicando un’obolo per le società, facendo saltare la gente.
La sua mano corse agli occhi, quası temesse l’apparire improvviso di qualche indiscreta lagrima.
In questo, la signorina Nina s’avvicinò a lui. Egli s’alzò.
— Maestro, noi aspettiamo che lei sia pronto.
— Lo sono, signorina, disse Errico, con la rassegnazione con cui il paziente si prepara a salire le scale del patibolo.
— Ci raccomandiamo a lei; tutta musica allegra, anzi rumorosa, e sopratutto molto Strauss... spero che lei sappia molte cose di Strauss?
— Non molte, signorina; questa è la prima volta che suono ballabili in società.
— Ah, ah, capisco, non è il suo genere, — disse a fanciulla con una strappatina di voce, quasi volesse significare: «Solita superbia di cotesti maestri!» e poi lo guardò negli occhi, con una cert’aria di burletta infantile.
— Non lo è, — rispose egli con fermezza, — e la fanciulla fu obbligata a chinarli, i suoi occhi.
Quindi egli mosse dritto al piano.