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— Felice sera, felice sera... ha fatto un po’ tardi, sa!...

— Credevo che il ballo non cominciasse a prim’ora, — rispose Errico, cui non era sfuggito il moto del cavaliere.

— Oh no!... qui il ballo è tutto... di musica se ne fa poca o nulla. Son tutte ragazze e giovanotti, a cui piace muover le gambe; ed anche a me, dopo una giornata di fatiche, dopo essermi logorato il cervello nelle faccende del paese, piace a vedere un po’ di movimento, un po’ d’allegria. Basta... s’accomodi, s’accomodi; si riposi un tantino, e poi cominceremo il fuoco.

Ed accennò ad Errico una sedia quasi isolata, messa lì in un cantuccio riposto della sala. Errico corse a sedervisi: ne sentiva proprio bisogno.

Quelle sedie lì rappresentano una specie d’ostracismo; l’ostracismo che dà l’elegante al goffo, lo spiritoso al timido, l’aristocratico al borghese quasi gli uni volessero dire agli altri: «Via, lontani da noi; voi non siete degni di stare in nostra compagnia.»

Il reietto a cui capita, o a cui è destinata una di quelle sedie, è sottoposto ad una specie di martirio impossibile a descriversi. Egli non ha a chi volgere la parola; i suoi sguardi errano confusi per la sala,

Alliata — Vuoto
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