Vite dei filosofi/Libro Terzo/Vita di Platone
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LIBRO TERZO
CAPO PRIMO.
I. Platone, ateniese, era figlio di Aristone e della Perittiona, o Potona, la quale traeva origine da Solone. Imperocchè di costui era fratello Dropide e da Dropide era nato Crizia; da Crizia Callesero; da Callesero Crizia, che fu dei trenta, e Glaucone; da Glaucone Carotide e la Perittiona, dalla quale e da Aristone, Platone, sesto dopo Solone. Solone poi traeva origine da Neleo e da Nettuno; poichè è fama che suo padre venisse da Codro, figlio di Melanto, i quali secondo Trasilo si dicono discesi da Nettuno. Speusippo nel libro intitolato Banchetto funebre di Platone, Clearco nell’Encomio di Platone, e Anassilide nel secondo Dei filosofi, raccontano: che era voce in Atene, che alla Perittiona, fatta matura, volle usar forza Aristone, e non vi riuscì; e che cessando dalla violenza vide in sogno Apollo. Il perchè intatta la serbò dalle nozze, sino al parto.
II. Ed è nato Platone, come narra Apollodoro nelle Cronache, l’ottantesima ottava olimpiade, a’ sette di Targelione, nel quale giorno dicono i Delii essere nato Apollo; ed è morto, secondo Ermippo, in un convito nuziale, l’anno primo della centesima ottava olimpiade, nell’ottantesimo di vita. Neante dice ch’e’ morì di ottantaquattro anni. È dunque più giovine di Isocrate sei anni: poichè questi sotto Lisimaco, Platone era nato sotto Aminia, sotto del quale morì Pericle.
III. Era, come riferisce Antileone nel secondo Dei tempi, del popolo colittese, e nato secondo alcuni in Egina, in casa di un Fidiade figlio di Talete, come afferma Favorino nella Varia istoria, sendo, in compagnia anche di altri, colà mandato suo padre per la divisione dei beni, e tornato in Atene, quando gli Ateniesi furono discacciati da’ Lacedemoni venuti in soccorso degli Egineti; e quando Dione in Atene diede giuochi a proprie spese, come dice Atenodoro nell’ottavo Delle peregrinazioni.
IV. Ebbe a fratelli Adimanto e Glaucone, a sorella Potona dalla quale nacque Speusippo.
V. Ed apparò lettere da Dionisio cui ricorda nei Rivali; e si esercitò nella ginnastica presso il lottatore Aristone l’argivo, che il nomò Platone pel suo bel portamento, sendo prima chiamato Aristocle dal nome dell’avo, secondo rapporta Alessandro nelle Successioni. Ma altri crede, come Neante, che così fosse appellato per l’abbondanza del dire, o perchè avea la fronte larga. V’ha pare chi afferma, anche secondo Dicearco nel primo delle Vite, aver egli lottato sull’Istmo.
VI. E coltivata la pittura; e scritti poemi: prima ditirambi, poi canti lirici e tragedie.
VII. Al dire di Timoteo ateniese nelle Vite, avea la voce debole. Narrasi che Socrate vide in sogno un giovin cigno stargli sulle ginocchia, il quale a un tratto, mosse l’ali, si pose a volare soavemente cantando e che il dì seguente, sendogli raccomandato Platone, disse che quegli era l’uccello.
VIII. Cominciò a filosofare nell’Accademia, poi in un giardino presso Colono, come sull’asserzione di Eraclito dice Alessandro nelle Successioni. In seguito, già prossimo a fare un tragico concorso pel teatro dionisiaco, udito Socrate, abbruciò i suoi poemi sclamando:
Qua Vulcano l’accosta. Ahi! di te d’uopo
Ha Platone.
Dicono che dopo d’ allora fu discepolo di Socrate, ed era ne’ vent’anni; e morto questo, s’accostò e a Cratilo l’eraclideo, e ad Ermogene che insegnava la filosofia di Parmenide. Quindi, di ventott’anni, secondo Ermodoro, si recò a Megara, da Euclide, in compagnia di altri Socratici. Poi andò a Cirene dal matematico Teodoro; poi dai pitagorici Filolao ed Eurito; e di là in Egitto presso i profeti; ove dicono averlo accompagnato anche Euripide, ed ove ammalatosi fu dai sacerdoti guarito colla cura del mare. Il perchè ebbe a dire:
Tutti i mali dell’uomo il mar deterge.
IX. Ritornato in Atene stanziò nell’Accademia. È questa un ginnasio suburbano, ombroso, così appellato da un eroe Ecademo, come dice anche Eupoli negli Astrateuti:
Negli ombrosi viali d’Ecademo
Il divo.
E parimente dice Timone parlando di Platone:
Di tutti guida, amplissimo, ne già
Per soave facondia alle cicale
Pari, che d’Ecademo in sulle piante
Spiegan la voce dilicata.
Poichè in grazia dell’E dicevasi prima Ecademia. Questo filosofo era amico d’Isocrate; e Prassifane scrisse non so qual disputa intorno a’ poeti, avvenuta fra loro in villa essendo Isocrate ospite presso Platone.
X. Dice Aristosseno lui aver militato tre volte: una in Tanagra; la seconda in Corinto; la terza a Delo, ove si mostrò anche assai valoroso; ed aver fatto una mescolanza della dottrina degli Eraclitei, dei Pitagorici e dei Socratici. Poichè delle cose sensibili, secondo Eraclito; delle intellettuali, secondo Pitagora; delle politiche, secondo Socrate filosofò.
XI. Raccontano alcuni, tra i quali è Satiro, lui avere scritto a Dione in Sicilia, che gli comperasse da Filolao tre libri pitagorici per cento mine; poichè dicono che e’ fosse nell’agiatezza, avendo ricevuto da Dionisio più di ottanta talenti; la qual cosa afferma anche Onetore nel libro intitolato: Se debba il sapiente attendere al guadagno.
XII. Molto parimente si giovò del comico Epicarmo, avendone copiate assai cose, secondo ci narra Alcimo ne’ suoi libri ad Aminta, che sono quattro, e nel primo dei quali dice così: È manifesto molte cose aver dette anche Platone che sono di Epicarmo e deve notarsi Platone affermare: sensibile esser quello che mai nè in qualità nè in quantità perdura, ma continuamente passa e si tramuta; come le cose che non hanno, se alcuno tolga ad esse il numero, nè eguaglianza, nè unità, nè in quantità, nè qualità. Ciò sono quelle che sempre per nascimento, non mai si hanno in sostanza: intelligibile poi quello, al quale nulla si toglie o si aggiugne. È questa la natura delle cose eterne, cui tocca sempre di essere e simili e le stesse. Per il che Epicarmo intorno le cose sensibili e intelligibili chiaramente si esprime:
A. Ma sempre i numi fur, nè mai cessavo
D’essere; e queste cose appaion sempre
Simili, e per sè stesse sempre. — B . Pure
Primo dei numi generato il Caos
Dicesi. A. — E come? S’è impossibil ch’esca
Da una cosa ch’esista un che di primo.
B. Non dunque nessun primo ci deriva?
A. Nè, per Giove, secondo di ciò ch’ora
Noi diciamo così. La cosa i questa:
Se ad un numero, vuoi dispari o pari.
S’aggiunga un sassolino, oppur si prenda
Ove n’esista, partì egli che quello
Sarà lo stesso? — B. Non a me per certo!
A. Nè se ad una misura ch’ha grossetta
Foglia apporsi altra solida lunghetta,
O tor da quella ch’era pria, la stessa
Misura ancor si rimarrà? — B. No, mai,
A. Così, gli uomini, or mira: cresce questo,
Quello declina; in sul mutarsi tutti
In tutti i tempi stan. Ma ciò che muta
Di natura a seconda, e non rimane
In uno stato mai, altro pur esso
Sarà da quello, dond’è uscito. E certo
Tu, ed io, altr’ieri, oggi altri siamo,
Ed altri noi saremo nuovamente.
Nè per questa ragion gli stessi mai.
Inoltre dice Alcimo anche questo: Affermano i sapienti, l’anima sentire alcune cose per mezzo del corpo, come udendo, vedendo; altre da sè, riflettendo per sè stessa senza servirsi del corpo; e quindi delle cose che esistono, altre essere sensibili, altre intelligibili. Però anche Platone diceva, che era mestieri, chi volesse avvisare ai principii dell’universo, le stesse idee per sè stesse distinguere, come per esempio la rassomiglianza, l’unità, la moltitudine, la grandezza, il riposo, il moto; in secondo luogo per sè stesso lo stesso bello e il buono e il giusto, e simili soggiugnere; in terzo luogo considerare in quali relazioni stanno fra loro le idee, come la scienza, la grandezza, il potere; riflettendo che le cose che sono presso di noi, per lo partecipare con quelle, sono ad esse eguali di nome. Dico, per esempio, giuste quante partecipano del giusto; oneste, quante dell’onesto. In ciascuna delle idee v’è e l’eterno e il pensiero e con essi l’impassibilità. Il perchè affermava le idee essere poste in natura a guisa di esemplari. A queste rassomigliarsi le altre cose; immagini di queste essere costituite. Ond’è che Epicarmo così si esprime e circa il buono e circa le idee:
A. È delle tibie il suono un che? — B. Per certo.
A. L’uom dunque è suon di tibia? — B. No, del tutto!
A. Or su, veggiamo, chi le tibie suona?
Chi parti sia? L’uomo? oppur no? — B. Sì; l’uomo.
A. E dunque non ti par che sia lo stesso
Circa al buono? Che qualche cosa il buono
Non sia, ch’è per sè stessa? Che colui
Che l’appara divenga tosto buono?
Siccome suonator di tibie è quello
Il qual le tibie appara; ballerino
Chi il ballare; chi il tesser tessitore;
O s’altro v’ha di simil che li piaccia,
Artefici saran, l’arte, nessuno.
Platone nel libro, Opinione intorno alle idee, dice: Se tuttavolta vi ha memoria, le idee debbono esistere nelle cose che sono, atteso che la memoria è qualche cosa di quiescente e durevole; nè, fuor le idee, altro duri. Imperocchè, prosegue, come potrebbero conservarsi gli animali senza attingere all'idea ed avere, oltra ciò, ricevuto una naturale intelligenza? E da prima ricorda la rassomiglianza e il cibo, quale è per essi, dimostrando come a tutti gli animali è naturale la cognizione della rassomiglianza; ciò che fa che essi hanno un sentimento per le cose che sono dello stesso genere. Or che dice Epicarmo?
La sapienza, Eumeo, non è di un solo,
Ma tutto quanto ha vita, conoscenza
N’ha. Da poi che se attentamente miri
La femmina de’ polli, i suoi pulcini
Non partorisce vivi, ma li cova
E fa ch’abbiano spirto. Sol natura
Sapienza cotal sa ciò che sia:
Poichè quella l’appara da costei
E di nuovo:
Nè meraviglia è ch’io tai cose dica
In questo modo; nè che a’ cittadini
Piacciano i cittadini, e nascer belli
Stimino; poichè al cane il cane ancora
Par bello, e il bove al bove, e bello il ciuco
Al ciuco, e il porco al porco. —
E queste e simili cose va ne’ suoi quattro libri inculcando Alcimo, e dimostrando il profitto che derivò a Platone da Epicarmo. Che poi Epicarmo stesso non ignorasse la propria sapienza è da impararsi anche da questi versi, nei quali presagisce l’imitatore:
E come io credo — anzi da noi si crede
Questo per fermo — che memoria un giorno
Ancor sarà di queste mie dottrine;
Ed alcuno togliendone, del metro
Spoglie ch’or hanno, date vesti e varia
Di bei discorsi porpora, difficile
Sendo a vincer, farà vedere altrui
Facilmente vincibile.
XIII. Pare che Platone trasportasse primo in Atene anche i libri dimenticati del mimografo Sofrone, e che i costumi formasse da quelli, che pur si rinvennero sotto il suo capo.
XIV. Tre volte navigò in Sicilia. La prima certamente per veder l’isola e i crateri: quando Dionisio di Ermocrate, essendone tiranno, ve lo indusse per averlo in sua compagnia, ed esso disputando sulla tirannide, ed affermando che ciò non è migliore che a uno solo torna utile, se anche non si vince gli altri in virtù, ebbe ad offenderlo. Il perchè sdegnato Dionisio: I tuoi discorsi, disse, sono da vecchio. — E i tuoi da tiranno, disse Platone. Quindi montato in collera il tiranno, da principio si propose ucciderlo; dopo, pregato da Dione e da Aristomene, ciò per vero non fece, ma il consegnò a Pollide lacedemone, che a proposito era venuto ambasciatore, perchè lo vendesse. Ed ei condottolo in Egina, lo vendette. In quella occasione anche Carmandro di Carmandride lo accusò come reo di morte in grazia di una legge, presso gli Egineti stabilita, che il primo Ateniese che entrava nell’isola fosse posto a morte senza essere giudicato. E da costui, al dir di Favorino nella Varia istoria , quella legge era stata proposta. Ma dicendosi da un tale, quasi per ischerzo, che chi vi era entrato era un filosofo, lo lasciarono andare. Affermano alcuni che tradotto al cospetto di un’assemblea, e visto che neppure facea motto, anzi stava parato ad ogni evento, si stabilì di non farlo morire, ma di venderlo a guisa di schiavo; che abbattutovi a caso Anniceride cireneo, il riscattò per venti mine — o trenta, secondo altri — e il rimandò in Atene agli amici, che tosto gli spedirono il danaro e che e’ non volle riceverlo, dicendo ch’essi non erano i soli degni di aver cura di Platone. Altri affermano che Dione mandò il danaro, e che esso nol restituì, ma comperò per lui un orticello nell’Accademia. Raccontasi poi, e che Pollide fu vinto da Cabria, e che dopo fu sommerso nell’Elice, perchè un demone era seco sdegnato a cagione del filosofo; ciò dice anche Favorino nel primo dei Commentarii. Dionisio per altro non era tranquillo! poichè saputolo ne scrisse a Platone acciò non parlasse male di lui; il quale gli rispose, sè non avere tant’ozio che bastasse a ricordarsi di Dionisio.
XV. La seconda si recò dal più giovine Dionisio per chiedere terra e uomini, i quali vivessero a norma delle sue leggi politiche; e quegli, sebbene il promettesse, nol fece. Anzi da taluno si dice ch’ei vi corse pericolo, inducendo Dione e Teota a liberar l’isola, e che il pitagorico Archita avendo allora scritta una lettera a Dionisio, intercesse per lui, e sano il fece giugnere in Atene. La lettera è così:
archita a dionisio salute.
„Noi tutti, amici di Platone, ti abbiamo spedito Lamisco e Fotida, per ricevere il filosofo, come teco siamo rimasti. E farai pur bene a ricordare le tue premure a sito riguardo, quando sollecitavi noi tutti per la venuta di Platone, stimando conveniente l’esortarlo e il promettergli, oltre il resto, la sicurezza e dello stare e dell’andare. Sovvengati adunque del molto che facesti pel suo venire, e che lo amavi in quel tempo, come nessuno di coloro che ti stanno presso. Che se pure fosse avvenuta qualche cosa di spiacevole tu devi oprare da uomo, e renderci sano e salvo il filosofo. Così facendo oprerai anche secondo giustizia, e ci gratificherai“.
XVI. La terza andò per riconciliare Dione con Dionisio; e non riuscendo, senza nulla aver fatto, ritornò in patria.
XVII. Quivi non volle ingerirsi nel governo, sebbene da ciò che ha scritto appaia uom politico, a motivo che il popolo era già avvezzo ad altre fogge di governamenti. Narra Pamfile, nel vigesimo quinto dei Commentarii, che gli Arcadi ed i Tebani, avendo fabbricata una grande città, lo chiesero per legislatore; ma che egli, saputo non voler essi l’egualità dei diritti, non v’andò.
XVIII. È fama che prendesse a difendere Cabria il capitano, accusato di delitto capitale, nessuno dei cittadini volendo ciò fare; che quando saliva alla cittadella collo stesso Cabria la spia Crobilo disse, facendosi innanzi: Tu vieni per difendere un altro; e non sai che la cicuta di Socrate aspetta anche te? E ch’ei rispose: Affrontai pericoli, quand’io militava per la patria; ne affronterò ora per dovere, a cagione di un amico.
XIX. Platone, al dire di Favorino nell’ottavo della Varia istoria, primo introdusse lo interrogare nel discorso; primo persuase a Laodamante tasio il modo analitico nelle indagini; primo, in filosofia, usò i vocaboli, antipode; elemento; dialettica; qualità; lunghezza nel numero; superficie piana delle estremità; provvidenza divina; primo, tra i filosofi, contraddisse al discorso di Lisia figlio di Cefalo, ponendolo parola per parola nel Fedro; primo speculò la forza della grammatica; e chiedesi, come avendo primo chiamato ad esame quasi tutti coloro che lo precedettero, non abbia poi fatto menzione di Democrito?
XX. Narra Neante ciziceno che, salito in Olimpia, tutti gli occhi dei Greci si rivolsero a lui; e che allora conversò con Dione, il quale si preparava a portar l’armi contro Dionisio. Nel primo dei Commentarii di Favorino si riferisce che il persiano Mitridate dedicò una statua a Platone nell’Accademia, e vi pose quest’epigrafe: Mitridate il figlio di Robodate persiano dedicò alle Muse l’immagine di Platone, la quale fece Silanione.
XXI. Dice Eraclide pontico che quand'era giovine era sì verecondo e composto, che non mai fu veduto ridere smodatamente.
XXII. Tale era Platone, e nondimeno provò anch’esso i sarcasmi dei comici. Teopompo adunque nell’Edicari dice così:
Poich’uno non è uno, e appena due
Son uno, al detto di Piatone. —
E Anassandride nel Teseo:
Quando le olive a modo di Platone
Si trangugiava. —
E anche Timone in questo modo, usando il bisticcio:
Come fingea Platone a finger dotto
Portenti. —
Alesside nella Meropide:
Vieni opportuno — ch’io nell’incertezza,
Come Platone, qua e colà m’aggiro;
Nulla di sapiente trovo, e stanco
Le ginocchia. —
E nell’Ancilione:
Parli di ciò che non intendi, a paro
Di Platone correndo, e le cipolle
Conosci e il nitro. —
Amfi nell’Amficrate:
Il ben, qualunque sia, che per tal cosa
Ti de’ accadere, io lo conosco meno.
Oh padrone, del bene di Platone.
B. Pensaci dunque. —
E nel Dessidemide:
O Platone, non sai altro che solo
Essere mesto, gravemente, a guisa
Di ostrica alzando il sopracciglio. —
Uom sei certo ed hai l’anima. Secondo
Platone io non lo so, suppongo averla.
Alesside nell’Olimpiodoro.
Il mio corpo; il mortai fu disseccato
Al certo; l’immortal sparve nell’aria.
Non son dottrine di Platone queste?
E nel Parassito:
O, con solo Platone, andar cianciando.
Finalmente di lui si burla anche Anassilao nel Botrilione, nella Circe e nelle Ricche.
XXIII. Aristippo nel quarto delle Delizie antiche dice che Platone amò un giovinetto per nome Astro, col quale si esercitava nell’astrologia, ed il prefato Dione. Pur di un Fedro parlano altri. Ed è manifesto l’amor suo da questi epigrammi, che per costoro si composero da lui:
Astro mio, tu contempli gli astri; oh fossi
Io cielo, onde vederti con molt’occhi!
E un altro:
Astro, splendevi Eoo sui vivi pria,
Estinto, a' morti or Espero risplendi.
E per Dione così:
Ad Ecuba, nascendo, e alle trojane
Donne, filarmi lagrime le Parche,
Te, di bell’opre di vittoria ornato
Dione, ergeano a speme ampia gli dei.
Tu, collocato in ricca patria, a’ tuoi
Cittadin venerabile, o Dione,
Fai d’amore impanar l’anima mia.
È fama cbe questo fosse anche l’epigrafe del suo sepolcro in Siracusa. — Dicono parimente, come prima si raccontò, che essendo innamorato e di Alesside e di Fedro, di essi così scrivesse:
Or nulla è Alessi; ma s’io dico solo
Ch’ei bello panni, ognuno a lui si volge!
Perchè, mio core, ossa tu mostri a’ cani?
Lasciarle ad essi tu dovrai da sezzo,
Non abbiamo così perduto Fedro?
E che amasse Archeanassa, per la quale cantasse così:
L’amica Archeanassa colofonia
Posseggo, nelle cui rughe s’asside
Amor pungente. Oh sventurati a cui
La costei giovinetta apparve al primo
Suo spuntare; per quale incendio andaste!
Ed anche per Agatona:
Io baciando Agatona avea sui labbri
L’anima; chè, meschina,
Come per trapassarli essa venia.
E un altro:
Ti getto un pomo; se di grado m’ami,
Li accogli, e dammi il verginel tuo fiore.
Se nieghi, detto pur ricevi, e mira
Come di poco tempo è la beltade.
Ed un altro:
Io sono un pomo; mi ti getta un tale
Che t’ama. Del il accennami, Santippe,
Ch’io e tu appaltiamo a poco a poco.
E dicono che fosse suo anche questo per gli Eretriesi presi in mezzo:
Già fummo ratta eretnea d’Eubea
Pretto Suza sepolti.
Quanto ahi! lontani dalia patria terra.
E questo:
Alle Muse Ciprigna: fate onore
A Vener, fanciullette, o contro voi
Armerò Amore. — A Ciprigna le Muse:
Queste chiacchiere a Marte;
Non vola a noi coletto fanciullino.
Ed un altro:
Trovando un uom dell’oro laida un laccio.
Or chi l’oro lasciò nol ritrovando
Al laccio che trovò si stesso appende.
XXIV. Del resto Molone portandogli odio, non essere strano, diceva, il motto: Se Dionisio in Corinto; ma, Se Platone in Sicilia. — Sembra che anche Senofonte non gli fosse benevolo, poichè quasi per gara scrissero le stesse cose: il Convito, l’Apologia di Socrate, i Commentarii morali; quindi la Repubblica quegli, questi l’Educazione di Ciro; e Platone, nelle Leggi afferma essere finta quella Educazione, perchè tale Ciro non era; ed entrambi parlando di Socrate, non mai fa menzione l’uno dell’altro, fuorchè Senofonte di Platone nel terzo dei Commentarii. — Si rapporta che Antistene, volendo leggere qualche suo scritto, invitò Platone ad essere presente; che chiestogli questi che cosa fosse per recitare, gli rispose: Del non doversi contraddire; e che soggiugnendo Platone, Come adunque tu di ciò stesso tratti? accorgendosi di essere aggirato, scrisse un dialogo contro Platone che intitolò Satone. Per questo continuarono di avere tra loro malevolenza. E si racconta che anche Socrate udito Platone recitare il Liside: Per Ercole, sclamò, quante menzogne racconta di me questo giovine. Chè per verità non poche cose, cui Socrate non disse, scrive costui. — Platone fu avverso anche ad Aristippo. Il perchè nel dialogo dell’Anima gli dice, riprendendolo, che non era vicino a Socrate quando morì, sebbene fosse in Egina e da presso. Anche aveva non so qual gelosia per Eschine, che, come affermano, essendo esso pure avuto in considerazione da Dionisio, presso il quale venne per bisogno, da Platone era dispregiato, commendalo da Aristippo. E i discorsi i quali attribuisce a Critone, fatti nel carcere per consigliare la fuga, afferma Idomeneo essere di Eschine, ma a quello averli attribuiti Platone per animosità verso di questo. Platone poi non mai fa ricordanza di lui ne’ suoi libri, fuorchè in quello dell’Anima e nell’Apologia.
XXV. Dice Aristotele essere la forma de’ suoi discorsi tra il poema e la prosa. — Favorino racconta in qualche luogo che Aristotele solo si rimase con Platone, quando leggendo questi il suo dialogo dell’Anima, tutti gli altri si alzarono. — Affermano alcuni che Filippo opunzio abbia trascritte le sue leggi che erano in cera; e tengono che anche l’Eponima fosse sua. Euforione poi e Panezio raccontano di aver trovato più volte mutato il principio della Repubblica, la qual Repubblica, dice Aristosseno, sta scritta quasi che tutta nelle Contraddizioni di Protagora. — Il primo libro ch’ei compose fu il Fedro; ed è quistione se abbia qualche cosa di giovanile; ma Dicearco biasima al tutto quella maniera di scrivere, siccome noiosa.
XXVI. Narrasi che avendo Platone veduto uno giuocare a’ dadi ne lo riprese, e che dicendogli costui come per poco il riprendea, soggiunse: Non è poco la consuetudine. — Interrogato se, al pari di chi lo precesse, alcune cose sue saranno memorabili, rispose: Prima è da acquistarsi un nome, poi molte saranno. — A Senocrate, venuto un giorno per visitarlo, disse di bastonargli un giovine schiavo, perchè ei noi potea, essendo in collera. — Anche ad uno de’ suoi giovini schiavi disse: Ti avrei battuto se non fossi in collera. — Salito a cavallo subito ne discese, dicendo temere nol pigliasse un orgoglio cavallino. — Agli ubbriachi consigliava specchiarsi, poichè cesserebbero da siffatta bruttura. — Diceva non essere mai conveniente bere sino all’ubriachezza, fuorchè nelle feste del nume dator del vino. — E dispiacevagli anche il troppo dormire, al qual proposito dice nelle Leggi: Chi dorme non è buono da nulla. — E la verità essere la più piacevole delle cose che si ascoltano.— Secondo altri, il dire la verità. — Intorno poi alla verità così si esprimeva nelle Leggi: La verità, o ospite, è certamente bella e durevole, nondimeno però non sembra facile a persuadere.
XXVII. Stimava in oltre che fosse conveniente lasciare memoria di sè, o tra gli amici o ne’ libri.
XXVIII. Mutava luoghi; e ciò di frequente secondo narrano alcuni.
XXIX. E morì nel prefato modo, come racconta anche Favorino nel terzo dei Commentarj, il decimo terzo anno del regno di Filippo, dal quale, al dire di Teopompo, ebbe dei rimprocci. Afferma Mironiano nel libro Delle cose simili, ricordare Filone il proverbio dei pidocchi di Platone come se di quelli e’ fosse morto.
XXX. Fu sepolto nell’Accademia, dove tanto tempo stette filosofando, e donde accademica si denominò la setta che da lui provenne, e fu accompagnato da tutto il popolo ivi concorso. — Così aveva testato:
„Queste cose lascia Platone e lega: li podere negli Efestiadi, al quale da tramontana è presso la via che mette al sacrato de’ Cefìsiadi, da mezzodì l’ Eracleio, negli Efestiadi, da mattina Archestrato frearrio, da sera Filippo collidese; e non possa alcuno nè venderlo nè permutarlo, ma sia, in ogni miglior modo, del fanciullo di Adimante; e il podere, negli Eresiadi, che comperai da Callimaco, al quale è vicino da tramontana Eurimedonte mirrinusio, da mezzodì Demostrato xipetese, da mattina Eurimedonte mirrinusio, da sera Cefiso; tre mine d’argento; una guastada d’argento del peso di censessantacinque dramme; una coppa stimata quarantacinque; un anello d’oro e un orecchino d’oro, tutti e due insieme del valsente di quattro dramme e tre oboli. — Il Tagliapietre Euclide mi è debitore di tre mine. — Lascio libera Artemide; servi Ticone, Bieta, Apolloniade, Dionisio. — Le suppellettili descritte, di cui ha l’inventario Demetrio. — Non debbo nulla ad alcuno. — Curatori Sostene, Speusippo, Demetrio, Egia, Eurimedonte, Callimaco, Trasippo.“ E così testava. — Furono scritti sopra il suo sepolcro questi epigrammi. Primo:
Chiaro per temperanza infra i mortali
E per giustizia di costumi, giace
Il divino Aristocle in questa tomba.
Che se fra tutti alcuno ebbe gran lode
Di sapienza, egli maggior l’ottenne,
Nè dall’invidia fu seguito mai.
Altro:
Entro il suo seno questa terra il frate
Asconde di Platone de’ beati
Immortali le sedi hanno lo spirto.
Il figliuol d’Aristone, ogni uom dabbene,
Anco abitando da lontano, onora,
La divina sua vita in contemplare.
Aquila, perchè poti sulla tomba?
Perchè, dimmi, contempli degli dei
La stellata magione? — Immago io sono
Dell’alma di Platon, che vola al cielo;
Il mio frate terren l’Attica serba.
Vi è anche il nostro ch’e’ così:
E chi mai, se tu, Febo, non avessi
Generato Platone a Greci, l’alme
Degli uomin medicate col sapere
Avrebbe? Perocchè da te nascea
Anco Esculapio, medico del corpo,
Come delle immortali alme Platone.
Ed un altro, come moriva:
Esculapio e Platone agli uomin diede
Febo; affinchè l’anima questi, quegli
Ne risanasse il corpo. Ei ne gì poscia
Sponsali a celebrar nella cittade
Che alzò a sè stesso e presso Giove pose.
XXXI. Discepoli suoi furono, Speusippo ateniese, Senocrate calcedonio, Aristotele stagirita, Filippo opunzio, Estieo perinzio, Dione siracusano, Amicleo eracleote, Erasto e Corisco scepzii, Timolao ciziceno, Evemone lampsaceno, Pitone ed Eraclide enii, Ippotalete e Callippo ateniesi, Demetrio amfipolite, Eraclide pontico, ed altri molti, tra i quali anche due donne, Lastenia mantinica, e Assiotea fliasia, che, come racconta Dicearco, vestivano da uomo. E dicono alcuni che lo udisse Teofrasto e Iperide l’oratore. Camaleonte vi aggiugne Licurgo; e Polemone parimente Demostene; e Sabino afferma anche Mnesistrato tasio, allegandone testimoni nel quarto delle Miscellanee d’esercitazioni.
XXXII. Ma perchè tu sei a buon dritto tenera di Platone, e sovra gli altri cerchi con ogni studio le dottrine del filosofo, ho stimato necessario descrivere e la natura de’ suoi ragionamenti, e l’ordine de’ suoi dialoghi, e i suoi modi d’induzione, quasi limitandomi ai soli elementi e per capi, per non laciare senza i suoi dommi ciò che abbiamo raccolto intorno la vita. Civette in Atene, come dicono, se queste cose ti si dovessero raccontare partitamente. — Affermano impertanto che primo a scriver dialoghi fosse Zenone l’eleate. Aristotele, nel primo Dei poeti, dice Alessameno stireo o teio , come anche Favorino ne’ Commentarj. Ma pare a me averne Platone ripulita la forma e riportata meritamente la palma siccome della bellezza, così dell’invenzione. — E il dialogo un discorso composto d’interrogazioni e risposte, sovra qualche argomento filosofico e politico, con dicevole rappresentazione dei costumi e delle passioni dei personaggi che si assumono, ed artifizio di stile. La dialettica poi è l’arte del disputare, per mezzo della quale si confuta o si sostiene qualche cosa coll’interrogare e rispondere degli interlocutori. — Due sono, nei dialoghi di Platone, gli eminentissimi caratteri: l’uno di esposizione ([testo greco]), l’altro di ricerca ([testo greco]). Si divide quello di esposizione in altri due caratteri, speculativo ([testo greco]) e pratico ([testo greco]) e di questi, lo speculativo in fisico e logico; il pratico in morale e politico. Quello di ricerca ha egualmente due precipui caratteri: esercitativo ([testo greco]) l’uno, l’altro contenzioso ([testo greco]) e l’esercitativo, l’ostetrico ([testo greco]), e lo sperimentale ([testo greco]); il contenzioso, l’accusatorio ([testo greco]), e il distruttivo ([testo greco]). — Nè s’ignora da noi che altri afferma altrimenti diversificare i suoi dialoghi; poichè si dice che alcuni sono drammatici, alcuni narrativi, alcuni misti. Ma costoro piuttosto tragicamente che filosoficamente appellarono sì fatta differenza. Ve n’ha di fisici, come il Timeo; di logici, come il Politico, il Cratilo, il Parmenide ed il Sofista; di morali, come l’Apologia, il Critone, il Fedone, il Fedro, il Banchetto, il Menesseno, il Clitofone, le Epistole, il Filebo, l’Ipparco, e i Rivali; di politici, come la Repubblica, le Leggi, il Minosse, l’Epinome, e l’Atlantico; di ostetrici, come gli Alcibiadi, il Teagene, il Liside ed il Lachete; di sperimentali, come l’Eutifrone, il Mennone, l’Ione, il Carmide, e il Teeteto; di accusatori, come il Protagora; di distruttivi, come l’Eutidemo, gl’Ippia, due, e Gorgia. Ma intorno a ciò che è dialogo e ad alcune sue differenze basti il detto.
XXXIII. E poichè si quistiona assai, e alcuni affermano ch’ei dommatizzi, altri no, or via, spieghiamoci anche intorno a ciò. — Questo dommatizzare adunque è uno stabilire dei dommi, come legizzare è uno stabilire delle leggi. Domma si chiama e la cosa che opiniamo e l’opinione stessa, e di queste, ciò che opiniamo è la proposizione, l’opinione, la stima. Il perchè Platone le cose che ha comprese dimostra; confuta le false; intorno alle incerte sta sospeso. Ciò che gli pare dimostra per mezzo di quattro personaggi, Socrate, Timeo, il forestiero ateniese, il forestiero eleate. I forestieri poi non sono, come altri crede, Platone e Parmenide, ma finzioni senza nome. Poichè riferendo le parole di Socrate e quelle di Timeo, Platone dommatizza; per le cose ch’ei confuta come false, introduce Trasimaco, Callide, Polo, Gorgia e Protagora; poi Ippia ed Eutidemo, poi ancora altri simili. Nel fare le dimostrazioni si giova assai del modo induttivo; nè di un modo solo, ma di due. Imperciocchè l’induzione è un discorso per mezzo di alcuni veri, che un vero ad essa simile convenevolmente inferisce. Di questa induzione sono due maniere, l’una secondo i contrarj, l’altra che si trae dalla analogia. Quella secondo i contrarj è quando ad ogni risposta di chi è interrogato va dietro una cosa contraria, per esempio: Il padre mio, o è altro dal padre tuo, o è lo stesso; se il padre tuo è diverso dal mio, sendo diverso da un padre, non sarà padre, se è lo stesso che mio padre, essendo lo stesso che mio padre, sarà mio padre. — E di nuovo: Se l’uomo non è animale, sarà pietra o legno. Ma non è pietra o legno, imperciocchè è animato e si muove di per sè; dunque è animale. Che se è animale, e animale è anche e il bue e il cane, l’uom parimente sarà animale e cane e bue. Di questa induzione, per contrarj, e a mo’ battaglia, egli ne usa, non per dommatizzare ma per refutare. — E di due maniere è quella che si trae dall’analogia: l’una la cosa singolare ricercata, per mezzo del singolare dimostra; l’altra prova l’universale per mezzo del singolare; ed è rettorica la prima, la seconda dialettica. Come quando nella prima si domanda: se uno abbia ucciso, prova è lo averlo trovato nel momento del fatto insanguinato. Questa maniera d’induzione è da oratore; chè la rettorica di cose particolari, non universali, si occupa. Poichè non indaga il giusto stesso, ma partitamente i giusti. L’altra è dialettica, dimostrando prima l’universale per mezzo dei particolari; come quando si domanda, se l’anima è immortale, e se tra’ morti siano alcuni viventi; il che si dimostra nel libro dell’anima per mezzo di una cosa universale, che dai contrarj derivano i contrarj; e lo stesso universale si stabilisce da alcuni particolari; come il dormire dal vegliare, e viceversa; e il più grande dal più piccolo, e viceversa. Di questa egli usava a conferma delle proprie opinioni.
XXXIV. Come poi ab antico, nella tragedia, prima il solo coro recitava, poi Tespi un attore inventò per riposo del coro, e un secondo Eschilo, e un terzo Sofocle, e la tragedia ebbe il suo compimento; così anche il concetto della filosofia non fu prima che di una specie sola, cioè fisico; Socrate, secondo, aggiunse l’etica; terzo Platone la dialettica, e perfezionò la filosofia.
XXXV. Dice Trasilo che e’ pubblicò i suoi dialoghi a maniera di tragica tetralogia, come coloro che disputavano il premio con quattro drammi (Dionisii, Lenei, Panatenei, Cirtri), il quarto dei quali era Satirico. I quattro drammi si chiamavano tetralogia. Sono dunque, afferma, tutti i suoi dialoghi legittimi, cinquantasei. La Repubblica è divisa in dieci libri, (la quale, al dire di Favorino nel secondo della Varia istoria, si rinviene quasi per intiero nelle Contraddizioni di Protagora); in dodici sono le leggi. Nove quadrilogie; lo spazio di un volume occupa la Repubblica, e di uno le Leggi. Per prima quadrilogia adunque pone quella che ha un argomento comune, perchè vuol far vedere quale deve essere la vita di un filosofo. Ed usa in ciascuno dei libri doppio titolo, l’uno tratto dal nome, l’altro dalla cosa. A capo di questa tetralogia, che è la prima, sta l’Eutifrone, ovvero della santità; questo dialogo è sperimentale, secondo l’Apologia di Socrate, morale; terzo il Critone, o di ciò che s’ha a fare, morale; quarto il Fedone, o dell’anima, morale. — Seconda tetralogia: a capo di essa il Cratilo, ovvero dell’aggiustatezza dei nomi, logico; poi il Teetete, ovvero della scienza, sperimentale; il Sofista, o di ciò che è, logico; il Politico, o della regia potestà, logico. — Precede la terza il Parmenide, o delle idee, logico; seguono il Filebo, o delle voluttà, morale; il Banchetto, o del bene, morale; il Fedro, o dell’amore, morale. — A capo della quinta è l’Alcibiade, ovvero della natura dell’uomo, ostetrico; seguono il secondo Alcibiade, o della preghiera, ostetrico; l’Ipparco, o dell’avidità del guadagno, ostetrico; i Rivali, o della filosofia, morale. — A capo della quinta è il Teagete, o della filosofia, ostetrico; poi il Carmide, ovvero della temperanza, sperimentale; il Lachete, o della fortezza, ostetrico; il Liside, o dell’amicizia, ostetrico. — Alla sesta è preposto l’Eutidemo, o il contenzioso, distruttivo, succedono il Protagora, od i Sofisti, accusatorio; il Gorgia, o della rettorica, distruttivo; il Mennone, o della virtù, sperimentale. — Stanno a capo della settima gl’Ippia, due; il primo, o del bello, il secondo, o della menzogna, distruttivo; succedono l’Ione, ovvero della Iliade, sperimentale; il Menesseno, o l’epitafio, morale. — Dell’ottava è innanzi il Clitofone, ovvero l’esortatorio, morale; dopo la Repubblica o della giustizia, politico; il Timeo, o della natura, fisico; il Crizia o l’Atlantico, morale. Precede la nona il Minosse, o delle leggi, politico; vengono poi le leggi, o del far leggi, politico; l’Epinomide, o il consesso notturno, ossia il filosofo, politico.
XXXVI. Tredici epistole, morali. In esse scriveva Oprar bene, Epicuro invece Portarsi bene, Cleone Godere. — Ad Aristodemo una. — Ad Archita due. — A Dionisio quattro. — Ad Ermia, Erasto e Corisco, una. — A Leodamante, una. — A Dione una.— A Perdieca, una. — Due ai famigliari di Dione. — Così Trasillo ed alcuni dividono le sue opere.
XXXVII. Altri poi, tra quali è anche Aristofane il grammatico, spartiscono i dialoghi in trilogie; e pongono prima quella cui precede la Repubblica, segue il Timeo, il Crizia. — Seconda, il Sofista, il Politico, il Cratilo. — Terza, le Leggi, il Minosse, l’Epinomide. — Quarta il Teetete, l’Eutifrone, l’Apologia. — Quinta, il Critone, il Fedone, le Epistole. — Le altre ad una ad una e senz’ordine. — Questi, come si è detto, cominciano prima dalla Repubblica; altri, dal maggior Alcibiade; alcuni dal Teage; alcuni dell’Eutifrone; altri dal Clitofonte; altri dal Timeo; altri dal Fedro; diversi dal Teetete; molti finalmente stimano principio l’Apologia. — Tra i dialoghi, per consenso di tutti sono apocrifi il Midone, l’Ippotrofo, l’Erixia, ovvero l’Erosistrato, l’Alcione, gli Acefali, od i Sisifi, l’Assioco, il Feace, il Demodoco, il Chelidone, la Settima, l’Epimenide; dei quali l’Alcione, per ciò che dice Favorino nel quinto dei commentarj, sembra fattura di un Leonte.
XXXVIII. Usava nomi diversi perchè l’opera sua di leggieri non intendessero gli ignoranti. Stimava propriamente la sapienza essere la scienza celle cose intellettuali e realmente esistenti, la quale dice trovarsi presso Dio e l’anima separata dal corpo; e propriamente sapienza chiama anche la filosofia, appetito essendo di divina sapienza. In generale però si appella da lui sapienza la perizia in ogni cosa, come quando sapiente chiama l’artiere. Usa anche gli stessi nomi con differenti significazioni. Così da lui dicesi abbietto in vece di semplice; come nel Licinnio di Euripide si parla di Ercole in questo modo:
Abbietto, incolto, sopra tutto probo,
All’atto strigne ogni sapienza, rozzo
Nel conversare. —
Platone alcuna volta ne usa anche in vece di bello e talora di piccolo. Spesso però si serve di nomi diversi nella stessa significazione, appellando l’idea e specie e genere e esempio e cagione; e di voci contrarie per una cosa istessa, chiamando ciò che è sensibile esistente e non esistente: esistente, per essere generato, non esistente pel continuo mutarsi; e l’idea, non moventesi, nè stante; e la stessa cosa, e una e molte. Ciò per lo più e’ costuma di fare. L’esposizione de’ suoi discorsi è triplice: poichè deesi mostrare primamente che ciascuna delle cose dette è; poi per qual cagione è stata detta, se come premessa o in luogo di figura, e per sostegno di dommi o a confutazione del disputatore; in terzo luogo se si è parlato secondo la lettera.
XXXIX. Ma da che alcuni segni ancora sono stati posti ne’ suoi libri, or su, pur di questi diciamo un non nulla. X pigliasi per le locuzioni e le figure, e in generale per la maniera platonica. La doppia pei dommi e le opinioni di Platone. X, fra’ punti, per le scelte eleganze di stile. La doppia, fra’ punti, per alcune correzioni. Una lineetta punteggiata, per le cose che inconsideratamente si rifiutano. Un sigma rovescio, fra’ ponti, per le cose di doppio uso, e trasponimento di scritture. Il fulmine per l’ordine della filosofia. L’asterisco per la concordanza dei dommi. Una lineetta pel rifiuto. — Questi sono i segni, questo il numero dei libri. Dice Antigono caristio nel primo libro sopra Zenone, che se taluno, nelle ultime edizioni, voleva conoscere questi segni, pagava danaro a chi le possedea.
XL. Le sue opinioni erano queste. Diceva l’anima immortale, molti corpi vestire successivamente ed avere principio armonico; averlo geometrico il corpo. Definivala un’idea dello spirito che per tutto è diviso; sè movente, tripartita; la cui parte razionale è collocata nella testa, la irascibile nel cuore, la concupiscibile nell’ombilico , e sta nel fegato. Diceva abbracciare dal centro tutto quanto il corpo circolarmente, e constare di elementi, e, divisa per intervalli armonici, formare due cerchi congiunti, l’interno dei quali, tagliato in sei, formare in tutto sette cerchi; ed essere questo situato secondo il diametro, internamente a sinistra; quello, da canto, a destra, e perchè unico, essendo l’altro internamente diviso, padroneggiare su questo; quello della natura del medesimo, questo del diverso. Affermando quindi essere il primo il movimento dell’anima, il secondo dell’universo e dell’orbile dei pianeti. In questa maniera divisa l’anima nel mezzo, essendo in relazione colle estremità, conoscere le cose che sono, ed armonizzare in se stessa, per avere in sè gli elementi armonici; e dalla direzione del cerchio del diverso nascere l’opinione, da quella del medesimo la scienza.
XLI. Due i principii di tutte cose dimostrò, materia e Dio; il quale appella anche mente e cagione; ed essere la materia di cui si fanno i composti, informe ed infinita. Dice ch’essa movendosi un tempo disordinatamente fu da Dio riunita in un luogo, stimando l’ordine migliore del disordine. Questa sostanza essersi tramutata in quattro elementi, fuoco, acqua, aria, terra; e da essi essere nato il mondo stesso e ciò che e in quello. La terra sola dice immutabile, adducendone a motivo la differenza delle figure di cui è composta; poichè afferma essere di un sol genere le figure degli altri elementi, composte tutte di un triangolo con un lato bislungo, ma singolare quella della terra; cioè del fuoco elemento una piramide, dell’aria un ottaedro, dell’acqua un icosaedro, della terra un cubo; e però nè la terra mutarsi in essi, nè essi in terra. Ciascuno per altro non essere spartato in luoghi distinti; chè la circonferenza, comprimendoli e conducendoli al centro, ne riunisce le parti piccole, e ne disgiugne le grandi; quindi mutando le specie, anco i luoghi mutare. E dice il mondo generato solo, da che pur da Dio è fabbricato sensibile; ed anche animato, perchè la cosa animata vantaggia l’inanimata; e quest’opera argomento di un’ottimissima cagione; e solo un mondo fabbricato, e non infiniti, perchè unico il modello sul quale si fece; e sferico, perchè aveva la stessa figura anche chi lo generò, e perchè il mondo gli altri animali, questa contiene le figure di tutto; e liscio e non avente in giro alcun organo, perchè di nessun uso per lui; durare per altro immortale anche il mondo, perchè non si dissolve che in Dio; e Dio causa di ogni generazione, perchè il buono è di sua natura benefattore; e della generazione del cielo causa l’ottimo, perchè della cosa bellissima fra le create afferma essere cagione l’ottima fra le intellettuali, e non potersi il cielo, se, come bellissimo, è simile all’ottimo, e questo ottimo è Dio, ad alcuna cosa generata rassomigliare, ma a Dio. Afferma constare il mondo di fuoco, acqua, aria, terra: di fuoco, acciocchè sia visibile; di terra, acciocchè solido; d’acqua e d’aria acciocchè proporzionato; poichè le forze dei solidi hanno coi due medii quella proporzione che forma una soia cosa di questo tutto; di tutti finalmente, acciocchè perfetto e incorruttibile sia. — Il tempo, dice, essere immagine dell’eternità; questa sempre durare, quello, il tempo, null’altro essere che un movimento del cielo; e la notte e il giorno e il mese e tutte le cose sì fatte, parti del tempo: di modo che senza questa natura di mondo, non sarebbevi tempo, insieme con esso avendo principiato ed esistendo il tempo; e dopo la produzione del tempo, sole e luna e stelle erranti generate; ed acciocchè patentissimo sia il numero delle ore e gli animali vi possano partecipare, aver Dio accesa la luce del sole; ed essere la luna nel cerchio dopo la terra, nell’attiguo il sole, nei superiori i pianeti; e il mondo per tutto animalo, perchè collegato da un movimento animato; ed acciocchè fosse condotto a perfezione, a similitudine di un animale, concepibile dalla mente, essersi creata la natura degli altri animali, e come quello ne avea, doverne avere anche il cielo. Quindi avere numi il più ignei, ma essere tre gli altri generi, volatile, acquatico, terrestre; e la terra essere più antica degli dei che sono nel cielo; ed opera creata per formare la notte e il giorno; e siccome nel mezzo, nel mezzo girare. E poichè due sono le cagioni, afferma doversi asseverare, alcune cose esistere per mezzo della mente, alcune per ragioni di necessità. Queste sono l’aria, il fuoco, la terra, l’acqua, che a tutto rigore non sono elementi, ma possono contenerli. Queste constare di triangoli e in esse risolversi; ma elementi di esse essere il triangolo con un lato bislungo e l’isoscele. Chiama dunque principii e cagioni le due prefate cose: modello di esse Dio e la materia, cui è necessità essere informe, al pari anche dell’altre cose che atte sono a ricevere. La cagione di queste essere da necessità: poichè ricevute in qualche modo le idee, nascono le essenze e si muovono per disuguaglianza di potere, e quel moto le cose nate da essa muove a vicenda. Queste da prima essersi mosse senza ragione e senz’ordine; poi incominciatesi a comporre, il mondo, per la simmetria e l’ordine ricevuto da Dio, essere nato. Poichè afferma, anche prima che fosse fatto il cielo, due essere le cagioni, e terza la generazione, ma non chiare, e sole vestigia, e disordinate, e da poichè fu creato il mondo, anche queste aver preso un ordine. Da tutti i corpi esistenti, dice, essere formato il cielo; Dio, pare a lui, siccome anche l’anima, esistere senza corpo, e cosi al tutto incapaci di corruzione e di passioni. Essere le idee, come si è detto prima, alcune cagioni e principii che fanno essere tali quali esse sodo le cose in natura differenti.
XLII. Dei beni e dei mali diceva questo: Essere fine dell’uomo rendersi simile a Dio — La virtù bastare di per sè stessa alla felicità, ma aver bisogno, nel corpo, di organi vantaggiati; di forza, di salute, di bontà, di sensi e simili: e di cose esterne, come sarebbe di ricchezza, di nobiltà, di gloria, tuttavia felice il sapiente se anche non le possedesse. Il quale amministrerebbe la repubblica, e ammoglirebbesi, e si guarderebbe dal violare le leggi costituite. Nondimeno darebbe leggi anche alla sua patria, il meglio che sapeste, se in qualche grave dissensione non vedesse piegare in meglio gli affari — Credeva che gli Dei agguardassero alle cose degli uomini, e fossero demoni — e primo dimostrava il concetto del bello collegato con quello del lodevole e del ragionevole e dell’utile e del decente e del convenevole, le quali tutte cose sono collegate con quanto è conforme a natura e da tutti assentito.
XLIII. Trattò della giusta applicazione dei nomi, come anche primo costituì la scienza di rettamente interrogare e rispondere, usandone ei stesso con esuberanza.
XLIV. Ne’ suoi dialoghi tenne per legge divina anche la giustizia, come incitamento più potente ad oprare le cose giuste, affinchè i malvagi, eziandio dopo la morte, non avessero ad isfuggire la pena. Il perchè fu avuto da taluno in concetto d’uom favolosissimo, tramischiando a’ suoi scritti tali racconti, che per mezzo dell’incertezza in che si stanno le cose dopo morte, allontanavano gli uomini dalle colpe — e questi erano i suoi sentimenti.
XLV. Le cose, dice Aristotele, divideva in questo modo. Dei beni ve n’ha alcuni nell’anima, alcuni nel corpo, alcuni di fuori; come la giustizia, la prudenza, la fortezza, la temperanza e simili, nell’anima; la bellezza, la buona complessione, la robustezza, nel corpo: gli amici, la felicità della patria, la ricchezza, tra que’ di fuori. Dei beni adunque sono tre specie: alcuni nell’anima, alcuni nel corpo, alcuni di fuori.
XLVI, Di amicizia tre specie; poichè una è naturale, una compagnevole; una ospitale. Naturale chiamiamo quella che i genitori hanno verso i figli e l’uno verso l’altro i parenti, e questa toccò agli altri animali ancora. Compagnevole chiamiamo quella che nasce da dimestichezza e senza legami di nascita, come tra Pilade ed Oreste. Amicizia ospitale qoella che da raccomandazioni e per lettere nasce a favore degli ospiti. Dell’amicizia adunque, altra è fisica, altra compagnevole, altra ospitale. Alcuni aggiungono, quarta, l’amatoria.
XLVII. Di governo sono cinque maniere. Una democratica; un’altra aristocratica; una terza oligarchica; una quarta regia; mia quinta tirannica. La democratica esiste in quelle città in cui comanda il popolo, e le magistrature e le leggi sceglie di per sè stesso. L’aristocrazia è in quelle dove nè i ricchi, nè i poveri, nè i nobili comandano, ma i migliori presiedono alla città. L’oligarchia è quando tra le famiglie che hanno un censo si eleggono i magistrati; poichè i ricchi sono in minor numero dei poveri. L’autorità regale si ha o per legge, o per famiglia: appo i Cartaginesi, per legge, essendo civile; tra Lacedemoni, e in Macedonia per famiglia, poichè in alcune famiglie sta la real dignità. La tirannide dove per frode e per violenza uno comanda. Dei governi adunque uno è democratico, uno aristocratico, uno oligarchico, uno regale, uno tirannico.
XLVJII. Sono tre specie di giustizia: una verso gli dei; una verso gli uomini; una verso i trapassati. Chi fa sagrificj secondo le leggi ed è sollecito delle cose sacre manifesta divozione agli Dei. Chi i mutui e i depositi restituisce opera giustamente cogli uomini. Coi trapassati chi si prende cura dei monumenti. Della giustizia adunque altra è verso gli Dei, altra verso gli uomini, altra verso gli trapassati.
XLIX. Di scienza sono tre spezie: una pratica; una operativa; una speculativa. La scienza di fabbricare case e navigli è operativa, poichè si può vedere il lavoro da essa operato. Quelle di governare, di suonare il flauto e la cetra e simili, sono pratiche, poichè non vogliamo apparire ciò ch’esse hanno operato, tuttavia quando uno suona il flauto e la cetra, un altro governa, fanno qualche cosa. La geometrica, l’armonica e l’astrologica, speculative; poichè nè fanno, nè operano nulla; ma il geometra specula come tra loro stanno le linee; il musico, i suoni; l’astrologo gli astri e il mondo. Delle scienze adunque alcune sono speculative, alcune pratiche, altre operative.
L. Cinque specie sono di medicina: farmaceutica; chirurgica; dietetica; nosognomonica; boetetica. La farmaceutica cura le malattie per messo dei farmachi; la chirurgica guarisce col tagliare e coll’abbruciare; la dietetica allontana le malattie regolando il vitto; la nosognomonica colla conoscenza delle malattie; la boetetica col soccorrere, istantaneamente liberando dal dolore. Della medicina adunque altra è farmaceutica, altra chirurgica, altra dietetica, altra nosognomonica, altra boetetica.
LI. Delle leggi due divisioni: l’una scritta, non scritta l’altra. Quelle con cui nelle città governiamo lo stato, sono scritte, quelle che ci derivano dall’uso, non scritte, come il non andare ignudo per la piazza e il non mettersi attorno vesti da donna. Chè nessuna legge queste cose ci vieta, ma tuttavolta non le facciamo, per essere vietate dalla legge non scritta. Delle leggi adunque una è scritta, una non scritta.
LII. Il discorso si divide in cinque specie; una delle quali è il discorso che gli amministratori degli stati pronunciano nelle adunanze, il quale chiamasi politico. Un’altra divisione del discorso, quella che si scrive dagli oratori e dai medesimi è usata nella dimostrazione, nelle lodi, ne’ biasimi, e nelle accuse; e questa specie è oratoria. Una terza divisione del discorso, quella che i privati osano conversando fra di loro; e questa maniera appellasi privata. Un’altra divisione, quella colla quale chi brevemente interroga e risponde, disputa con coloro che lo interrogano; cotesto discorso chiamasi dialettico. Una quinta divisione del discorso, quella con che gli artigiani trattano dell’arte loro; la quale è detta tecnica. Del discorso adunque altro è politico, altro oratorio, altro privato, altro dialettico, altro tecnico.
LIII. In quattro specie si divide la nobiltà: una, quando gli avi sono stati onesti, buoni, giusti; i figli di costoro si dicono nobili. Altra, quando gli avi sono stati potenti, e divennero principi; i figli di costoro si dicono nobili. Altra, quando gli avi ebbero nominanza, come per comando di eserciti, per corone riportate; anche i nati da questi appelliamo nobili. Altra specie, quando alcuno abbia per sè stesso l’animo ben nato e magnanimo; questo pure chiamano nobile: e certo è dessa la miglior nobiltà. Una specie di nobiltà proviene adunque da avi dabbene, una da potenti, una da gloriosi, un’altra da bontà propria ed onestà.
LV. La bellezza si spartisce in tre. Lodevole, come le belle forme di un volto; utile, come una casa, uno strumento e altro tale, che sono belli per l’uso; belle perchè profittevoli sono le cose spettanti alle leggi, alle istituzioni e simili. Una bellezza adunque si riferisce alla lode, una all’uso, un’altra all’utilità.
LVI. Si spartisce l’anima in tre: razionale; concupiscibile; irascibile. La razionale, tra queste, è cagione del nostro deliberare, riflettere, giudicare, e di ogni cosa sì fatta. La parte concupiscibile dell’anima è cagione del nostro desiderio di cibarsi, congiugnersi e simili. La irascibile è cagione del nostre ardire, e godere, e attristarsi, e incollerirsi. Dell’anima adunque una parte è razionale, un’altra concupiscibile, un’altra irascibile.
LVII. Quattro specie di consumata virtù: prudenza; giustizia; fortezza; temperanza. La prudenza è cagione di far bene le cose; la giustizia di operare il giusto nelle società e nelle contrattazioni. La fortezza di non desistere dal fare, ma durarla ne’ pericoli e ne’ timori. La temperanza di padroneggiare i desiderii, e di non essere schiavo a nessuna voluttà, ma di vivere decentemente. Della virtù adunque, una è prudenza, un’altra giustizia, una terza fortezza, una quarta temperanza.
LVIII. Cinque specie d’autorità: per legge; per natura; per consuetudine; per eredità; per forza. Però gli arconti nella città, se sono eletti dai cittadini, comandano per legge. Per natura i maschi, non solo tra gli uomini, ma tra gli altri animali; poichè il più comandano per tutto i maschi alle femmine. L’ autorità per consuetudine è come quella con cui i pedagoghi comandano ai fanciulli e i precettori a quelli che vanno a scuola. Per discendenza dicono alcuni un’autorità, come quella colla quale i re lacedemoni governano: poichè da certe famiglie si traggono i re; e al modo stesso governano in Macedonia, essendo colà pure costituita per ischiatte la dignità reale. V’hanno finalmente di quelli che a malgrado dei cittadini comandano per forza o per frode; una sì fatta autorità dicono essere per violenza. Un’autorità adunque è per legge, una per natura, una per consuetudine, una per discendenza, una per violenza.
LIX. V’ha tre maniere di discorsi oratorii, poichè quando s’induce a far guerra od alleanza contro di alcuno, questa specie si chiama esortazione. Quando si propone di non fare nè guerra, nè alleanza, ma di stare in pace, questa specie è dissuasione. Terza specie di discorsi oratorii: quando uno asseveri di essere stato ingiuriato da un tale, e gli attribuisca la colpa di molti mali, e questa specie si chiama accusa. La quarta specie dei discorsi oratorii si chiama difesa, ed è quando uno dimostra ch’egli nè ha violata la giustizia, nè altro affatto ha commesso di sconcio, e questa chiamano difesa. Quinta specie di discorsi oratorii, quando uno lodi e ponga in vista l’utile e il bello. Questa specie chiamasi lode. Sesta specie, quando uno fa conoscere il turpe; e questa specie chiamasi biasimo. Dunque dei discorsi oratorii uno dicesi lode, uno biasimo, uno esortazione, uno dissuasione, uno accusa, uno difesa. — Divide in quattro il retto parlare. Primo, ciò che si dee dire; secondo, quanto si dee dire; terzo, a chi si dee dire; quarto, quando si dee dire. Ciò, impertanto, che dir si dee è quello che è per giovare a chi parla e a chi ascolta. Quanto si dee dire, è il non dire nè più nè meno di quel che basta; a chi si dee dire, è, se si abbia a parlare a più vecchi, il debito di proferire discorsi tali che si convengano a più vecchi; se a più giovani, il debito di pronunciarne di convenienti a più giovani; quando si dee dire, è il dire nè troppo presto, nè troppo tardi. Se altrimenti, peccherassi e si dirà male.
LX. In quattro divide la beneficenza: poichè si benefica o coi denari, o colle persone, o col sapere, o coi discorsi. Coi denari quando tu soccorra con denari qualche bisognoso, in proporzione delle proprie facoltà. Coi corpi gli uni fanno bene agli altri, quando vengono in soccorso di coloro che sono percossi. Quelli che ammaestrano e medicano e insegnano qualche virtù, beneficano col sapere. Quando uno venga in giudizio per soccorrere un altro, e pronunci a suo favore un conveniente discorso, costui benefica col discorso. Dunque la beneficenza, altra è per mezzo dei denari, altra dei corpi, altra del sapere, la quarta dei discorsi.
LXI. Il fine delle cose divide in quattro specie. Le cose ottengono un fine secondo la legge, quando si fa dal popolo un decreto, e lo sancisce la legge. Secondo natura hanno un fine le cose, come il giorno e l’anno e le stagioni. Hanno un fine le cose secondo l’arte, come l’architettura, quando uno compie una casa, e l’arte di costruire le navi, quando le navi. Secondo fortuna hanno un fine le cose, quando altrimenti e non come si stimava avviene alcun che. Dunque il fine delle cose altro è secondo la legge, altro secondo la natura, altro secondo l’arte, altro secondo la fortuna.
LXII. Divide la potenza in quattro specie. La prima per cui possiamo colla mente pensare e riflettere. La seconda, col corpo, come andare, e dare e prendere e simili. La terza che ei fa potenti per copia di soldati e di danari; d’onde si dice un re aver molta potenza. La quarta divisione della potenza è quella di fare a patire il bene ed il male, potendo ammalarci ed essere istruiti, e divenir sani, e simili. Una potenza adunque sta nella mente, una nel corpo, una nell’esercito e nei danari, una nel fare e nel patire.
LXIII. V’ha tre maniere di civiltà. Una che nasce da affabilità, come in alcuni, che a quanti s’abbattono, volgono la parola, e la destra protendono salutando. Un’altra maniera, quando alcuno è soccorrevole ad ogni sventurato. Altra maniera di civiltà è in alcuni che amano il convitare. Di civiltà ve n’ha adunque una per mezzo del salutare, una per mezzo del beneficare, una per mezzo del banchettare e dello amare la compagnia.
LXIV. In cinque parti divide la felicità. La prima di esse è il buon consiglio; la seconda il vigore dei sensi e la salute del corpo; la terza la buona fortuna negli affari; la quarta la buona opinione presso gli uomini; la quinta l’abbondanza delle ricchezze e delle cose utili nella vita. Il ben consigliarsi proviene dall’educazione e dall’essere sperimentato in assai cose; il vigor dei sensi dall’aver cura dei membri del corpo, come se alcuno vegga cogli occhi, oda colle orecchie, e col naso e colla bocca senta ciò che dee essere sentito — e questo è vigor di sensi — La buona fortuna si ha, quando uno per condurre a buon fine le cose a cui mira, fa quello che deve l’uomo onesto; la buona opinione, quando uno ha rinomanza; l’agiatezza quando uno le cose, che nella vita sono di uso, possiede in modo da potere e beneficar gli amici, e a gara e facilmente concorrere ai pubblici uffizi. Colui che gode di tutto questo è compiutamente felice. Della felicità dunque sono parti il ben consigliarsi, la vigoria dei sensi, la salute del corpo, la buona fortuna, la buona opinione, l’agiatezza.
LXV. Le arti si dividono in tre. Prima, seconda, terza. Prima, l’arte di scavare i metalli e l’arte di tagliare i legnami, poichè sono arti che preparano i materiali; poi quelle di lavorare il ferro ed il legno, che ne mutano la forma; poichè del ferro, l’arte del fabbro fa armi, del legno, quella del falegname, flauti e cetre; finalmente l’arte che sa usare le cose, come l’equitazione che si serve di freni, la milizia di armi, la musica di flauti e di lire. Delle arti adunque sono tre specie, una prima, una seconda, una terza.
LXVI. In quattro generi divide il bene; dei quali primo diciamo essere quando l’uom dabbene possiede in proprio la virtù. Il secondo: la virtù per sè stessa e la giustizia diciamo essere un bene. Il terzo: i cibi, un conveniente esercizio e le medicine. Il quarto, affermiamo essere un bene l’arte di suonare il flauto, l’arte di rappresentare e simili. Sono adunque quattro specie di bene: prima, il possesso della virtù; seconda, la virtù stessa; terza, i cibi e gli utili esercizj; quarta, l’arte di suonare il flauto, e l’istrionica diciamo essere un bene.
LXVII. Delle cose esistenti, altre sono cattive, altre buone, altre nè l'uno, nè l’altro. Di queste cose pertanto diciamo cattive quelle, che sempre sono abili a nuocere, come l’intemperanza, la demenza, la malvagità e simili. Le contrarie ad esse sono buone. Altre qualche volta giovano, qualche volta nuocono, come il diportarsi, il sedere, il mangiare; o al tutto nè giovare, nè nuocere possono; e queste nè beni, nè mali sono. Dunque delle cose che esistono, altre sono buone, altre cattive, altre nè l’uno, nè l’altro di ciò.
LXVIII. Divide in tre la buona legislazione. Prima, se le leggi sono buone, affermiamo essere buona legislazione. Secondo, se i cittadini osservano esattamente le leggi costituite, anche questo affermiamo essere buona legislazione. Terza, se, non essendovi leggi, per mezzo di istituzioni e di usi, si governa bene lo stato, e questa pure appelliamo buona legislazione. Vi ha dunque buona legislazione, primo, se le leggi sono buone; poi, se quelli che hanno leggi le osservano esattamente; in terzo luogo, se gli usi e le istituzioni utili governano lo stato. — La cattiva legislazione divide in tre; di cui una, quando le leggi sono gravi e agli stranieri e ai cittadini; un’altra, quando non si obbedisce alle leggi che esistono; un’altra, quando nessuna affatto ve n’abbia. Mala legislazione è adunque se le leggi sono gravose; se non si obbedisce a quelle che esistono; se nessuna legge vi sia.
LXIX. In tre divide i contrarj. Così diciamo le cose buone essere contrarie alle prave, come la giustizia all’ingiustizia, la saggezza alla stoltizia e simili. Le cattive contrarie alle cattive sono, per esempio, la prodigalità all’avarizia, e l’essere collato ingiustamente all’esserlo giustamente, ed altre simili cattive alle cattive sono contrarie. Il grave poi al leggiero, e il veloce al lento, e il nero al bianco, come neutri a’ neutri sono contrarj. Dei contrarj adunque, altri sono contrarii, come le cose buone alle prave; altri, come le cattive alle cattive; altri, come alle neutre le neutre.
LXX. Tre generi di beni. Alcuni si possono possedere, altri sono partecipevoli, altri sussistenti. Possibili a possedere sono tutti quelli che si possono avere, come la giustizia e la sanità. Partecipevoli que’ che non si possono avere, ma a cui possiamo partecipare, come il bene stesso, che avere non è concesso e al quale è concesso partecipare. Sussistenti quelli cui nè partecipare, nè avere possiamo, ma devono sussistere, come l’essere dabbene e l’essere giusto, che sono un bene. E queste cose nè avere nè partecipare si possono, dovendo sussistere l’esser dabbene e l’esser giusto. Dei beni adunque alcuni si possono possedere; altri sono partecipevoli; altri sussistenti.
LXXI. Tre maniere di consiglio. Ve n’ha uno che si trae dai tempi passati, uno dagli avvenire, uno dai presenti. Quello che dal passato sono gli esempi: come, ciò ch’ebbero a patire i Lacedemoni allorchè si fidarono quello che dal presente, il far vedere, per esempio, che le mura sono deboli, gli uomini timidi, scarse le vettovaglie; quello che dall’avvenire, che per sospetto non si debbono violare le ambascerie, acciocchè non ne sia disonorata la Grecia. Dei consigli adunque, uno si trae dal passato, uno dal presente, uno dallo avvenire.
LXXII. In due divide la voce. Animata, inanimata. Animata la voce degli animali; inanimati i suoni ed i romori. Della voce animata, una consta di lettere, una no. Consta di lettere quella degli uomini; non consta di lettere quella degli animali. Dunque una voce è animata, una inanimata.
LXXI1I. Delle cose esistenti, alcune sono divisibili, alcune indivisibili. Delle divisibili, alcune similari, alcune non similari. Le indivisibili sono quelle che non ammettono divisione, nè sono composte di cosa alcuna, come la monade, e il punto, e il suono; le divisibili quelle che sono composte di qualche cosa, come le sillabe, gli accordi, gli animali, e l’acqua e l’oro; le similari quelle che si compongono di simili, e il tutto non si differenzia dalla parte, se non nella quantità, come l’acqua e l’oro e tutto che a queste somiglia; le non similari finalmente quelle che si compongono di parti dissimili, come le case ed altre tali. Delle cose esistenti adunque, altre sono divisibili, altre indivisibili: delle divisibili, altre similari, altre non similari.
LXXIV. Delle cose esistenti alcune sono per sè, alcune si dicono in relazione con altre. Quelle che diciamo per sè sono quante, nell’elocuzione, non abbisognano di nulla, come sarebbe, uomo, cavallo, ed altri animali; poichè nessuno di questi è suscettivo di elocuzione. Quelle che si dicono in relazione con altre, quante hanno mestieri di un’elocuzione, come il maggiore di un che, e il più veloce di qualche cosa, e il più bello, e simili; chè il maggiore è maggiore del minore, e il più veloce lo è di qualche cosa. Delle cose esistenti adunque le une si dicono per sè stesse, le altre in relazione con altre. — Così, secondo Aristotele, divideva anche le prime.
LXXV. Vi fu un altro Platone filosofo da Rodi, discepolo di Panezio, come afferma Seleuco il grammatico nel primo Della filosofia; ed un altro, peripatetico, discepolo di Aristotele; ed un altro, di Prassifane; e il poeta della vecchia commedia.