Vita di Cecilia De' Vecchi nata Carrara-Beroa/I
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VITA
DI CECILIA DE’ VECCHI
NATA
CARRARA-BEROA
§. I.
Cecilia de’ Vecchi figlia di Ottavio Carrara-Beroa, e di Caterina Tomini-Foresti nacque in Bergamo il giorno 28. Gennajo 1779. e fu battezzata nella Chiesa del SS.mo Salvatore. Ambedue i genitori furono di Casato illustre e cospicuo, come ognun sa, e più ancora commendevole per un carattere di
cristiana pietà che ne fece un inalterabile spirito, ed un concetto universale.
Iddio libero dispositore delle sue benedizioni la prevenne in maniera colla sua grazia che fece precedere in lei e fiori e frutti di belle virtù alla stessa primavera dell’umana vita, cioè al primo possesso della ragione. Questi son tanto più belli, quanto più rari, ed indicanti il bel giardino che quell’anima fortunata doveva essere un giorno: e direi anche tanto più sensibili quanto che veduta la breve durata de’ suoi giorni preziosi, si scorge da questi che Dio ha voluto anticipare in lei le sue meraviglie, perchè si verificasse, che consumata in breve compiè molte giornate.
Nella infanzia, e puerizia imbecille e leggiera, che non occupa l’uomo che d’inezie e di trastulli, e lo rende nemico della considerazione, del silenzio, della quiete, e della dipendenza, era amabil cosa vedere in Cecilia una bambina sobria soavemente, ininquietabile, inalterabile, sennuta nelle poche ed umili risposte che dava, attenta a tutte le volontà de’ suoi Superiori, ed esecutrice ammirabile di quanto le veniva detto. Fin d’allora si videro in lei i semi di quello spoglio della sua volontà che nel decorso della sua vita fu singolare ed assoluto.
Non vi fu mai volta che le si dovesse replicare un cenno. Attesta la sua maestra tutt’ora vivente che mai non l’ebbe a correggere, che attentissima alle puerili incumbenze, e agli studj a lei imposti non era possibile trovarla in mancamento, e com’era piena di spirito, e d’intendimento il tutto eseguiva dilicatamente. Per le cose del suo dovere era ben tutta spirito e sagacità, non così per trastulli o bagattelle. Ella non si muoveva dal suo seggiolino, se non le veniva espressamente suggerito dalla maestra; nè si metteva a fare la sua colezione (cosa incredibile) se dalla medesima maestra non le veniva detto che la facesse. Bagattelle poi, e giuochi a miscuglio proprj di quell’età non erano di suo genio; non ne fece mai. Nessuno strepito, come sogliono fare i fanciulli, nessuna compagna per giuocare, nessuna alzata di voce; e quel che è più, mai nè pianto, nè serietà restìa, nè arsa malinconìa, nè lamento, nè ripugnanza.
Il divertimento, per cui le fanciulle hanno naturalmente tanta passione, i bambocci, erano pure di suo genio, e vi attese con grande diletto; ma in questo si osservò in lei, che per quanto le erano care quelle figurine (il che mostrava coll’allegria quando dalla madre, o dall’ava Tomini le ne venivano regalate, e col gusto ed intelligenza con cui le maneggiava, poliva, disponeva) pure 1.° non ne dimandò mai una, 2° non si querelò mai se alcuno se ne smarriva, e se si frastornava la disposizione che ne faceva, 3.° non mai si fece pregare, nè mai tardò a tutto lasciare al primo cenno che le ne veniva fatto, 4.° (importantissima osservazione, ed esempio singolare) non mai ne fece uso, come pur troppo, forse anche innocentemente, costumano le ragazze, ad imitare con una non maliziosa, ma però immodesta maniera gli officj materni, nè ad imitare insegnando ed apprendendo insieme la vanità ed ambizione femminile. Le funzioni di Chiesa, le orazioni, l’ornare altarini, il far i pensi dell’obbedienza era il bel divertimento che dava a quelle mascherine, e il bel gusto che procacciava al suo cuore.
Una carità sorprendente, e che per essere stata costante, e continua fu evidente a tutti si è che mai ricercò nè ai genitori, nè ai due zii Canonici Beroa e Tomini, nè all’ava Tomini, nè agli altri suoi parenti, che l’amavano tenerissimamente, nè un soldo per comperarsi cosa di gusto, nè una galanterìa, nè un vestito; nè mai mostrò elezione in colori, in panni, in ornamenti, nè mai dimandò la colazione per andarsene a scuola. A tavola inteneriva, e metteva ammirazione. Mai una volta mostrò genio di qualche vivanda, mai ne fece richiesta; persino al comparire in tavola delle frutta, e delle paste dolci, ella che per l’età ne avea un naturale trasporto, e le parea già d’inghiottirle, sino alcuna volta a venir rossa in viso, decisamente non ne chiese mai. Se le n’era dato ne mangiava, se no, egualmente serena, ed allegra mangiava intanto del pane, come non le avesse vedute, o non le piacessero nemmeno. Mi si permetta uno sfogo di ammirazione: in una fanciulla questi sono sacrificj di vero eroismo! Si fece persino prova del suo sentimento, e del suo cuore in questo suo stile. Il Canonico zio, e l’ava Tomini, che quasi sempre la tennero presso di loro nel tempo che andò a scuola in Borgo S. Lorenzo, mi attestarono, non senza lagrime di tenerezza, che più volte a pranzo portate in tavola paste o frutta, e datene anche a Cecilia, quando avea cominciato ad assaggiarne, e che interrogata, se erano buone, rispondeva con gran gusto di sì, or l’uno or l’altra le toglievano dinanzi il piatto, dicendo, bastare così, e facevano sembianza di non più darlo a lei; e che per vedere cosa era capace di fare l’andavano tormentando colle alternative, di dare di nuovo, e di ritogliere, nè mai o si fè seria, o diede lagrime, o si turbò, ma sempre serena, e vittoriosa trionfava del rinascente gusto, e al toglimento definitivo si rimaneva ridente ed eguale. Cosa che intenerì talvolta il cuore a quel sincero uomo fatto sul taglio della cordiale naturalezza antica il suo pro-zio Leonardo Tomini, che era costretto dire che si finissero queste da lui chiamate crudeltà, che non poteva più resistere a vederla patire, che la sua Cecilia era poi ancora una ragazza, e troppo era presto per tentarla come santa; ed era allora che esso le ne empiva il cistello da scuola per la merenda, e quelle paste e quelle frutta, se non le era detto di mangiarne essa, divenivano la delizia delle sue compagne, e massime di quelle che non aveano che un poco di pane.
Più duro ancora, e più glorioso per la nostra giovinetta fu l’esperimento che ne fece il pio e consideratore suo padre. Vedendo esso che mai in tanto tempo (ella era già circa di dieci anni) non avea dimandato cosa che fosse, nè mai mostrato risentimento di alcuna privazione, un giorno volle far prova del calibro della virtù di sua figlia, e vedere fin dove arrivasse quello spoglio della volontà che omai avea del sorprendente. Venuta pertanto l’ora del pranzo (e fu tardiva ad arte), e seduto colla famiglia a mensa cominciò a distribuire le vivande a tutti, ed a lei diede un bel niente. Vennero in tavola i soliti piatti, e quel dì per suo ordine erano dei più stuzzicanti la gola: ne dava a tutti; Cecilia li avea lì avanti, li vedea gustarsi a destra ed a sinistra, li sentiva lodare come buoni, e come ben cucinati: ma a lei niente. Un’altra sarebbe scappata via, avrebbe menato rumore, o abbronzita in volto si sarebbe sfogata a piangere, o almeno si sarebbe ammutolita, e cangiata di colore. Cecilia seguitò sino alla fine a masticare del pane, bevette un bicchier di vino, che le fu dato, allegramente; seguitò a parlare tutto il tempo del pranzo come se avesse goduto di tutto, e mangiato come gli altri. Vennero in fine le dolci, e le frutta: sua madre non potè più resistere, e le ne volle dare; ma il padre ritirò il piatto e non volle: volle fare con immenso suo patire una prova compita, e Cecilia ridente continuò via col suo pane, e legandosi tutti di tavola, levossi anch’ella piena di brio, e giuocò subito tutta brillante colla sua picciola sorellina: cosa che cavò le lagrime ai genitori, che quel dì fecero più penitenza di lei; nè parve loro di poter più reggere a differire il compenso alla vittoria dell’Eroina amabile loro figlia.
Come non ebbe mai elezione, nè dimandò mai cosa alcuna; così non ebbe ripugnanza, nè mai diede rifiuto: cosa che per sino ha dell’incredibile. Hanno naturalmente i diversi palati degli uomini diverse le sensazioni, e la medesima cosa che ad uno è dilettevole, ad altri reca insuperabile nausea, e disgusto. Cecilia avrà forse anch’essa come tutti gli altri provato quest’effetto dell’organica costituzione umana: dissi forse, perchè anch’ella era come tutti gli altri; eppure da lei non se n’ebbe giammai verun indizio. Uno solo tra i cibi ella pareva non aver forza d’affrontare, ed era la mostarda. Lo stimolo piccante del senape le investiva talmente la pituitaria, e le narici, ed accendevale tutta la testa, che si vedeva poverina mangiare e lagrimare, e talmente tutta in pizzicore che non poteva ritener le mani dallo strofinarsi il naso, e soffregarsi gli occhi, e si vedeva propriamente che pativa. Una volta bisogna, che quello sciroppato fosse eccessivamente carico di senape: la buona Cecilia appena ebbe cominciato ad assaggiarne, che sentendosi inviperire la testa, nè potendo resistere, disse placidamente (unica volta in sua vita!) che non le piaceva, che ne aveva abbastanza, e che dimandava licenza di lasciare quel resto sul piatto: veramente estorta, violenta, e sforzata dimanda, ma che oltre il pregio d’esser l’unica ed inevitabile, ebbe quello di una direi quasi inimitabile, ma certo ammirabilissima pacatezza, e sommissione inalterabile, e che sente di quei prodigj d’obedienza, che rari ammiriamo in quei provetti e rinomati eroi claustrali, che la Chiesa onora sugli altari. Ma non finisce quì il bello di quella battagliuola, in cui parve Cecilia vittoriosa, ma ferita. Il fatto si è che l’ava Tomini presso la quale era allora a pranzo la virtuosa nipote, le soggiunse: cosa era questa novità? si meravigliava come non sapesse superarsi in cosa di sì poco momento: si sovvenisse che Gesù in agonìa dovette bevere ed assaggiare del fiele. Volea di più soggiungere; ma non bisognò, perchè Cecilia intenerita al nome di Gesù in agonìa: sì signora, la mangerò tutta volentieri, disse; e subito giuliva si mise a mangiare francamente. Mangiava, e lagrimava, e rideva; le lagrime le scendevano lungo le guancie sino a gocciolarle in seno, e tutta coraggio parlava, rispondeva, e si cibava sino all’ultima stilla di quel senape tormentoso; e nei momenti che non ne poteva più, e le pioveva il naso e gli occhi, dava tenere occhiate verso il Cielo, e poi seguiva il suo martirio, e fu allora che promise a Gesù di mai più rifiutar cosa veruna; il che eseguì poi fedelmente sino alla morte.
Un carattere di virtù sì elevata, vittorie e sentimenti di tanto merito non potevano darsi in una Giovinetta ripiena di spirito e di vivacità, come la nostra Cecilia, senza un fondo di anticipato criterio, e divozione che certo in un’anima così padrona di se stessa non poteva non essere singolare; dal che si vide che il suo contegno era guidato da un giudizioso riflesso che la faceva operare a sentimento determinato. Godeva moltissimo di averla seco a continua, direi quasi, compagnia la sua ava materna Tomini, e questa racconta, che quando passato alcun tempo di confabulazione colla nipote, essa le diceva: Cecilia voglio fare le mie consuete divozioni, Cecilia si raccoglieva subito in un silenzio così esatto per non disturbarla, che pareva non avesse più fiato a respirare, più forza a muoversi, ed occorrendole pure di dovere per necessità o dirle qualche parola, o chiederle qualche cosarella, era impreteribile la sua osservazione di aspettare, e spiare il momento che l’ava facesse pausa, ed allora le diceva: adesso posso parlare? e dal sì o no di quella veniva decisamente il parlare, o tacere di lei, che consisteva nelle pure precise parole di bisogno, e nulla più, ritornando subito in silenzio per la gran paura che avea di far cosa non buona col dare il minimo motivo di distrazione alle preghiere dell’ava. E questo era suo stile ordinario; bastava si trovasse ove alcuno leggeva, o faceva orazione, pareva ch’ella più non vi fosse: tanto era il rispetto che avea dell’orazione, di cui vedremo in seguito quanta ella avesse pratica, e quanto sapore. Un solo gusto si scopriva in lei, ed era d’essere condotta alla Chiesa per ascoltarvi più Messe che poteva, gusto però che non palesò mai con una dimanda, ma che si scopriva brillante all’invito fattole dall’amantisima madre, che accortasi della di lei vivissima consolazione, non preteriva mai di condurvela anche con incommodo, perchè quel dì che non vi fosse andata Cecilia era bensì allegra, ma si capiva che le mancava qualche cosa al cuore. Qui piacemi inserire due righe di compito elogio che di lei mi scrive il degno sacerdote Antonio Ignazio Baldis Parroco di S. Salvadore; le quali danno una viva idea di Cecilia nell’età dai sette ai tredeci anni; eccole: Ne’ sei anni intermedj al mio ingresso alla Parrocchia, ed il suo (di Cecilia) nel Monastero, nè quali ebbi l’onore di dirigerla parvemi sempre, vedendola, ascoltandola, ragionando con lei di trattare con persona non già di umana, ma di angelica gerarchia; sì grande scoprivasi in Cecilia l’ilarità del volto, la modestia del portamento, la giustezza del tratto, la compostezza della persona, la purità del cuore, il raccoglimento di spirito, il fervor di preghiera, pregj tutti, che in essa ammirai sempre congiunti al luminoso corredo d’altre grandi virtù, e segnatamente di uno spoglio totale della sua volontà.
Essendo ella con tale condotta venuta in età di circa tredeci anni, e fatta l’ammirazione insieme, e la tenerezza del suo parentado, e di quanti la conoscevano, ed avendo una sorella più giovine per nome Maria, sua madre, per dare a questa una educazione, come costumano le famiglie cospicue, sotto la direzione di sagge maestre claustrali, disegnò di collocare con la piccola Maria anche Cecilia, perchè le fosse di compagnia, e conforto, giacchè tanto si amavano le buone Sorelle, nel Convento di S. Agostino in Treviglio. Dimandò pertanto la madre a Cecilia, se sarebbe andata volontieri colla sorellina in Accademia a Treviglio. Cecilia in cui il volentieri o malvolentieri non avea mai fatto radice, nè potuto mai cosa alcuna con quel suo geniale sorriso, disse che quel che voleva ella, che era sua madre, era tutto il suo piacere; e giuliva e ridente disposta egualmente ad andarvi, ed a rimanersi a casa, stette attendendo l’esecuzione dei voleri de’ suoi genitori. Anche qui diede una prova del suo generale distacco, e superiorità di cuore al di sopra dell’età sua, e del suo naturale amorevole ed aperto. Al vederla sempre o stretta alle ginocchia della cara sua madre, o della zia paterna Anna Beroa, che tanto l’amava, o dell’ava Tomini, e da queste quasi indivisibile; al vederla sì da queste, che dal genitore, che tanto l’avea nel cuore che a parlarne piangeva, e dai zii Canonici Beroa, e Tomini così benvoluta e accarezzata, chiara cosa è che le dovea rincrescere il distaccarsene. Avea passati tredici anni con loro, non conosceva quasi altra persona, avea in essi tutta la confidenza, vi trovava tutto, e partirsene, e lasciarli tutti d’un colpo, ed andarne lontana venti miglia sicura di vederli, Dio sa quando, certo per lungo tempo no, dovea pure destar in essa un momento di tristezza. Ma nè all’annunzio, nè al partire, nè nel viaggio, nè nell’entrare in Convento, nè al momento doloroso del partir della madre che ivi l’avea condotta, mai si risentì, nè diede lacrima, nè perdette la parola, ma piena di confidenza nel suo Dio, e spoglia di ogni terrena debolezza, si dichiarò figlia di Maria, quella prese per madre, e le si pose in mano. La superiora, la maestra dell’Accademia divennero subito per lei come se fossero unite colla più stretta parentela, e prese per loro immantinenti tutto quell’amoroso rispetto e quella dipendenza che in casa avea eroicamente professata a’ suoi parenti.
Stette nel Convento fra le educande circa anni due sempre eguale a se stessa. La sua maestra tuttora vivente ne parla con espressioni di maraviglia, e di tenerezza. In tutto il tempo che fu sotto la sua disciplina, mai una volta la trovò ritrosa a qualsivoglia ordine, mai una volta mancante alle sue incumbenze, mai una volta negligente ne’ suoi doveri. Di tutte le regole dell’Accademia non ne preterì mai una, nè mai in tanto tempo ebbe la superiora motivo di rimproverarle alcun mancamento. La prima al lavoriere, la più esatta nei pensi, la più abile esecutrice dei medesimi. Impreteribile era il suo silenzio nelle ore prescritte; ed era una specie di prodigio vederla in mezzo a tante sue compagne divenuta così muta che parea avesse perduta la lingua, tanto nè dimandava, nè rispondeva, nè proferiva parola per qualunque evento, se l’obbedienza non la faceva parlare. Allegra nella ricreazione compariva così spiritosa e gioviale che le sue compagne non cercavano altro che la di lei conversazione; ed essa era l’anima non solo delle educande, ma ben anche delle stesse Superiore Religiose. In sua compagnia non si poteva essere malinconici, così il suo tratto angelico, e le sue parole uscite da un cuore come il suo innamorato di Dio, e pieno di mortificazione, erano penetranti, e toglievano dolcemente il lamento, e la tristezza dalla bocca, e dal cuore di chicchessia. Sul suo volto poi, sulla sua bocca nè malinconia nè lamentela non ebbe mai luogo; quale fu in casa paterna, tale in Convento, sempre ilare, contenta di tutto, nè mai rifiutò, nè mai cercò cosa veruna. Tre cose specialmente dieder nell’occhio di tutte, e superiore, e compagne, una cioè l’inimitabile ed inesprimibile suo raccoglimento, e fervore nelle cose di divozione, e negli esercizj di pietà. Quando era in orazione, potea ben cadere la stanza, o il coro dove si trovava, che ella come una statua persisteva immobile, nè vi era caso che o guardasse attorno, o dicesse parola. Nei giorni che ricevea la SS. Comunione pareva tutto il giorno in Paradiso, tanto era inondata di gioja, che le brillavano gli occhi in fronte, e parea sino che prendesse nuova bellezza in volto. L’altra fu, che non si è mai veduta in lei la minima curiosità, compagna inseparabile a giovani donne rinchiuse in monastero. Solevano tutte le educande all’arrivar delle carrozze conducenti al Convento, o qualche nuova educanda, o parenti d’alcuna di esse per visitarla accorrere a cercar tutte di sapere, di vedere chi fosse venuto, parte per il naturale desiderio di ricever esse la visita de’ loro parenti, parte per il nativo istinto di vedere chi venisse, e in qual vestito, e simile. Cecilia non accorse mai, nè mai dimandò chi fosse venuto, ed anche quando venivano a visitarla i suoi parenti, massime la madre, e l’ava Tomini, bisognava che la maestra le desse ordine di recarsi da loro, diversamente non si moveva. La terza, che appunto in tali visite de’ suoi ella spiegava un carattere di una ammirabile eguaglianza, che certo dovea costarle assai. Stava ella co’ suoi con tanta espansione di cuore, che veramente tripudiava, ma guardi il Cielo che si fermasse al parlatorio un sol momento al segno d’una chiamata altrove, se l’obbedienza non ve la teneva; nè che dimandasse mai dispensa alcuna per trattenervisi, nè si lamentasse della brevità, o rarità di tali visite; nè mai al ripartire delle amate sue genitrice ed ava, o piangesse o si mostrasse passionata; nè mai dimandasse loro cosa al mondo. In somma quest’Angioletta pareva aver gli affetti delle anime beate, che hanno tutto quel che è pregio, virtù, e godimento, e nulla di quello che sente di terra, e di passione.