Vita (Alfieri, 1804)/Epoca IV./Cap. I.
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EPOCA QUARTA. VIRILITÀ. ABBRACCIA TRENTA E PIÙ ANNI DI COMPOSIZIONI, TRADUZIONI , £ STUDJ DIVERSI . CAPITOLO PRIMO. Ideate, e stese in prosa francese le due prime Tragedie, il Filippo, e il Polinice. Intanto un diluvio di pessime rime. Eccomi ora dunque, sendo in età di quasi i??®. anni venzette, entrato nel duro impegno e col Pubblico e con me stesso, di farmi autor tra¬ gico . Per sostenere una si fatta temerità, ecco quali erano per allora i miei capitali. Un animo risoluto, ostinatissimo, ed in¬ domito ; un cuore ripieno ridondante di affetti di ogni specie, tra’quali predominavano con bizzarra mistura l’amore, e tutte le sue furie, ed una profonda ferocissima rabbia ed abbor- rimento contra ogni qualsivoglia tirannide . Aggiungevasi poi a questo semplice istinto Alfieri, Fila. Voi. JI. i 6 VITA DI VITTORIO ALFIERI. 1775 della natura mia, una debolissima ed incerta ricordanza delle varie tragedie francesi da me viste in teatro molti anni addietro; che deb¬ bo dir per il vero, che fin allora lette non ne avea mai nessuna, non che meditata; aggiun¬ gevasi una quasi totale ignoranza delle regole deir arte tragica, e l’imperizia quasi che totale ( come pub aver osservato il lettore negli ad¬ dotti squarci ) della divina e necessarissima ar¬ te del bene scrivere e padroneggiare la mia propria lingua. Il tutto poi si ravviluppava nell’indurita scorza di una presunzione, o per dir meglio, petulanza incredibile, e di un tale impeto di carattere, che non mi lasciava, se non se a stento e di rado e fremendo, conosce¬ re, investigare, ed ascoltare la verità. Capita¬ li, come ben vede il lettore, pii adatti assai per estrarne un cattivo e volgare principe, che non un autor luminoso. Ma pure una tale segreta voce mi si face» udire in fondo del cuore, ammonendomi in suono anche pii energico che noi faceano i miei pochi veri amici : » E’ ti convien di neces¬ sità retrocedere, e per cosi dir, rimbambire, studiando ex professo da capo la grammatica, e susseguentemente tutto quel che ci vuole per sapere scrivere correttamente e con arte. w E EPOCA QUARTA. CAP. I. 7 tanto gridò questa voce, ch’io finalmente mi «778. persuasi, e chinai il capo e le spalle. Cosa ol¬ tre ogni dire dolorosa e mortificante, nell’età in cui mi trovava, pensando e sentendo come uomo, di dover pure ristudiare, e ricompitare come ragazzo. Ma la fiamma di gloria si av¬ vampante mi tralucea, e la vergogna dei reci¬ tati spropositi si fortemente incalzavami per es¬ sermi quando che fosse tolta di dosso, ch’io a poco a poco mi accinsi ad affrontare e trionfa¬ re di codesti possenti non meno che scliifosi ostacoli. j' La recita della Cleopatra mi avea, come dissi, aperto gli occhi; e non tanto sul demeri¬ to intrinseco di quel tema per se stesso infeli¬ ce, e non tragediabile da chi che si fosse non che da un inesperto autore per primo suo sag¬ gio; ma me gli avea anco spalancati a segno di farmi ben bene osservare in tutta la sua im¬ mensità lo spazio che mi conveniva percorre¬ re all’indietro, prima di potermi, per cosi di¬ re, ricollocare alle mosse, rientrare nell’arin¬ go, e spingermi con maggiore 0 minor fortu¬ na verso la meta. Cadutomi dunque piena¬ mente dagli occhi quel velo che fino a quel punto me gli avea si fortemente ingombrati, io feci con me stesso un solenne giuramento; B VltA DI VITTORIO ALFIERI. i7j5. che non risparraierei oramai nè fatica nè noj.t nessuna per mettermi in grado di sapere la mia lingua quant’uomo d’Italia. E a questo giuramento m’indussi, perchè mi parve, che se io mai potessi giungere una volta al Ben di¬ re, non mi dovrebbero mai poi mancare nè il ben ideare, nè il ben comporre. Fatto il giu¬ ramento , mi inabissai nel vortice grammati- chevole, come già Curzio nella voragine, tut¬ to armato, e guardandola. Quanto più mi tro¬ vava convinto di aver fatto male ogni cosa sino a quel punto, altrettanto mi andava tenendo per certo di poter col tempo far meglio; e ciò tanto più tenendone quasi una prova evidente nel mio scrigno. E questa prova erano le due tragedie, il Filippo, ed il Polinice, le quali già tra il Marzo e il Maggio di quell’ anno stes¬ so 1775, cioè tre mesi circa prima che si reci¬ tasse la Cleopatra, erano state stese da me in prosa francese; e parimente lette da me ad alcuni pochi, mi era sembrato che ne fossero rimasti colpiti. Nè mi era io persuaso di que¬ st’ effetto perchè me l’avessero più o meno lo¬ date; ma per l’attenzione non finta nè coman¬ data, con cui le avevano di capo in fondo ascol¬ tate, e perchè i taciti moti dei loro commossi aspetd mi parvero dire assai più che le loro EPOCA QUARTA. CAP. I. 4 parole. Ma per mia somma disgrazia, quali 177;;. che si fossero quelle due tragedie, elle si trovavano concepite e nate in prosa francese, onde rimanea loro lunga e difficile via da calcarsi, prima ch’elle si trasmutassero in poesia italiana. E in codesta spiacevole e meschina lingua le aveva io stese, non già perchè io la sapessi, nè punto ci pretendessi, ma perchè in quel gergo da me per quei cinque anni di viaggio esclusivamente parlato, c sentito, io mi veniva a spiegare un po’più, ed a tradire un po’meno il pensiero mio; che sempre pur mi accadeva per via di non saper nessuna lingua ciò che accaderebbe ad un volante dei sommi d’Italia, che trovandosi infermo, e sognando di correre a competenza de’suoi eguali o inferiori, nuli’altro gli mancasse ad ottener la vittoria se non se le gambe. E questa impossibilità di spiegarmi,e tradurre me stesso, non che in versi ma anche in prosa italiana, era tale, che quando io rileggeva un atto, una scena,di quelle ch’eran piaciute ai miei ascoltatori, nessuno d’essi le riconosceva più per le stesse, e mi domandavano sul serio,perchè l’avessi mutate: tanta era l’influenza dei cangiati abiti e panneggiamenti alla stessa figura, ch’ella non era più nè conosci IO VITA DI VITTORIO ALFIERI. 1775. bile,nè sopportabile. Io mi arrabbiava,e piam geva: ma invano. Era forza pigliar pazienza, e rifare: ed intanto ingojarmi le più insulse e antitragiche letture dei nostri Testi di lingua per invasarmi di modi toscani; e direi, ( se non temessi la sguajataggine dell’espressione ) in due parole direi che mi conveniva tutto il giorno spensare per poi ripensare. Tuttavia, l’aver io quelle due tragedie future nello scrigno, mi facea prestare alquanto più pazientemente l’orecchio agli avvisi pedagogici, che d’ogni parte mi pioveano addosso. E parimente quelle due tragedie mi aveano prestata la forza necessaria per ascoltare la recita a’miei orecchi sgradevolissima della Cleopatra, che ogni verso che pronunziava l’attore mi risuonava nel core come la più amara critica dell’opera tutta, la quale già fin d’allora era divenuta un nulla ai miei occhi; nè la considerava per altro, se non se come lo sprone dell’altre avvenire. Onde, siccome non mi avvilirono punto le critiche ( forse giuste in parte, ma più assai maligne ed indotte ) che mi furono poi fatte su le Tragedie della mia prima edizione di Siena del 1783; cosi per l’appunto nulla affatto m’insuperbirono, nè mi persuasero, quegli ingiusti e non meritati applausi che EPOCA QUARTA. CAP. I. ii la platea di Torino, mossa forse a compassione 1775 della mia giovenile fidanza e baldanza, mi volle pur tributare. Primo passo adunque verso la purità toscana essere dovea, e lo fu, di dare interissimo bando ad ogni qualunque lettura francese. Da quel Luglio in poi non volli pii mai proferire paiola di codesta lingua, e mi diedi a sfuggire espressamente ogni persona e compagnia da cui si parlasse. Con tutti questi mezzi non veniva perciò a capo d’italianizzarmi. Assai male mi piegava agli studj gradati e regolati; ed essendo ogni terzo giorno da capo a ricalcitrare contro gli ammonimenti,io andava pur sempre ritentando di svolazzare coll’ali mie. Perciò, ogni qualunque pensiero mi cadesse nella fantasia, mi provava di porlo in versi; ed ogni genere, ed ogni metro andava tasteggiando,ed in tutti io mi fiaccava le corna e l’orgoglio, ma l’ostinata speranza non mai. Tra l’altre, di queste rimerie ( che poecie non ardirò di chiamarle ) una me ne occorse di fare, da essere da me cantàta ad un banchetto di liberi muratori. Era questa, o dovea essere un Capitolo allusivo ai diversi utensili e gradi e officiali di quella buffonesca società. E benché io nel primo Sonetto quassù trascritto avessi rubato un vsxso del Petrarca la VITA DI VITTORIO ALFIERI. >775. dai suoi capitoli; con tutto ciò, tanta era la mia disattenzione e ignoranza, che allora cominciai questo mio senza più ricordarmi, 0 non l’avendo forse mai bene osservata, la regola delle terzine; e cosi me lo proseguii sbagliando, sino alla duodecima terzina; dove essendomene nato il dubbio, aperto Dante conobbi l’errore, e lo corressi in appresso, ma lasciai le dodici terzine cora’elle stavano; e cosi le cantai al banchetto: ma quei liberi muratori tanto intendevan di rime e di poesia, quanto dell’arte del fabbricare; e il mio Capitolo passò. Per ultima prova e saggio degli infruttuosi miei sforzi, trascriverò ancora qui, 0 gran parte, 0 tutto forse quel Capitolo; secondo che mi basterà la carta, e la pazienza. Verso l’Agosto di quell’anno stesso 76, credendomi far vita troppo dissipata stando in PRIMO CAPITOLO. Cetra, che a mormorar soltanto avvezza. Indagasti fìnor spietatamente I vizj, e n’hai dimostra la laidezza; Tu che in mano ad un vate impertinente Che le publiche risa nulla apprezza, Benché stolu, credesti esser sapiente, EPOCA QUARTA. CAP. I. i5 città, e non potere perciò studiare abbastanza, 1778. me n’andai nei monti che confinano tra il PieE di che canterai, e con qual fronte? Infra uno stuol»l venerando e augusto! Tu che neppur vedesti il sacro fonte. 0 temeraria cetra, e vuoi dar gusto Cicalando di cose a te mal conte Sacre al gelido Scita e al Libio adusto? Chi condottier ti fora all’alta impresa! Nelle Muse non spera, a te già sorde S’armerebbero in van per tua difesa. Rompi, stritola, o abbrucia le tue corde Se da fuoco divin non vieni accesa; Deluderai cosi le Parche ingorde. Quanti Numi in inferno, o in cielo, 0 in onda 1 favolosi Greci un dì crearo, Tutti forano vaui, ognun si asconda. Tu, chi invocar non sai; io te l’imparo: Inalza il voi dalla terrena sponda, Scorgi un Nume maggior, e a noi più caro. H supremo Fattor dell’orbe intero Rimira, e poi impallidisci, e trema, E se tant’osi, a lui richiedi il vero. Per lui fia in te già l’ignoranza scema. Egli ti additi il murator primiero, ’ Del grand’Ordine infin l’origo estrema. i4 VITA DI VITTORIO ALFIERI.
- 77^’ monte e il Delfinato, e passai quasi due mesi
in un borguccio, chiamato Cezannes a’piedi E «e pur ti svelasse un tanto arcano, Avresti tu sì nobili concetti E ad innalzare il voi bastante mano? Ah, scusatela sì, fratei diletti, Non ragiona l’insana, oppur delira Quando canta di voi con versi inetti. Cetra, di già tu m’hai destato all’ira. Taci, rispetta, credi, e umil t’inchina; Tanto e non più concede or chi t’inspira. Tu cantar de’miiterj, tu meschina? Che la semplice Loggia, e quanto acchiude, Mal descriver sapresti, ahi poverina! Di quel raggio d’angelica virtude, ’ Che in viso al Venerabile sfavilla, Come cantar con le tue voci crude? Come, quella di noi dolce pupilla, Il Primo Vigilante, in cui s’arresta Quando emana dal Tiono ogni scintilla? Come il Secondo, che la Loggia assesta Colla fida presenza, ed implorato Di avvicinarci al Trono, a ciò s’appresta? Come di quei che al gran Maestro a lato Siedono maestosi Consiglieri, Ch* il tempo infra i Misterj han consumato? EPOCA QUARTA. CAP. I. i5 del Monginevro, dove è fama che Annibaie 1778. varcasse l’Alpi. Io benché riflessivo per naCome, di quei ch’armato il braccio, e fieri. Ai Profani vietando ognor l’ingresso. Giustamente sen van di tanto altieri? Come, di quel che all’opra sì indefesso, Necessario Censor, vi molce e accheta, E si nobile esempio dà lui stesso? Come, di quel che nella steril meta Di vane Cerimonie a cui presiede N’adempisce il dover con faccia lieta? Come, di quel, cui l’instanoabil piede, ( A noi non Servo, ma Fratei diletto ) La lautissima mensa oggi provvede? Come, di quel che con sì dolce affetto Serve e v’illustra colla penna arguU Secretato gentile, a tutti accetto? — Cetra, ti veggo già stupida e muta, Se intraprendi parlar del Sacro Quadro • Che i Profani in Fratelli ci commuta. Che diresti tu poi di quel leggiadra Baldacchin del Maestro, il quale al Cielo Di coprirlo divieta, invido ladro? Fora inutile, e stolto anche il tuo zelo, Se t’accingessi a dir dell’alma Stella, Cui più lucido il Mastro oggi dà velo. i6 VITA DI VITTORIO ALFIERI. 1775. tura, talvolta pure sconsiderato per impeto, non riflette! nel prendere quella risoluzione, che in quei monti mi tornerebbe fra i piedi la raaladettissima lingua francese,che con si giusta e necessaria ostinazione io m’era proposto di sfuggir sempre. Ma a questo mi indusse quell’Abate, ch’io dissi m’avea accompagnato in quel viaggio ridicolo fatto l’anno innanzi a L’emblematica ancor Trina Facella, E le Sante Colonne, e il Tempio antico, Richiederian più nobile favella. Dunque taci.balorda, io tei ridico;. E tei dicono pur a un tempo istesso Color che l’Architetto han per amico. Se d’arroisir ti fora ancor concesso. Pensando sol alla scabrosa impresa, Cetra, davver tu arrossiresti adesso. E così finiva questa eterna invocazianeT alla Cetra, la quale rispondeva da par sua. Strano è che fatti tanti versi inutili, non ce ne aggiungessi uno in fine necessario, per chiudere il Capitolo con la rima secondo le regole. Ma niuna regola mi s’era ancor fitta in capo. EFOCA QUARTA. CAF. I, 17 Firenze. Era quest’Abate nativo di Cezannes; 177* Chiaraavasi Aillaud; era pieno d’ingegno, di una lieta filosofia, e di molta coltura nella letteratura latina, e francese. Egli era stato Ajo di due fratelli coi quali io m’era trovato assai collegato nella prima gioventù, ed allora aveamo fatto amicizia ’ Aillaud ed io; e continuatala dappoi. Debbo dire pel vero, che codesto Abate ne’ miei primi anni avea fatto il possibile per inspirarmi l’amore delle lettere, dicendomi che ci avrei potuto riuscire; ma il tutto invano. E alle volte si era fatto fra noi il seguente risibile patto; ch’egli mi dovrebbe leggere per un’ora intera del Romanzo, 0 Novelliere, intitolato Les Mille et une Nuits; conche poi io mi sottomettessi a sentirmi leggere per soli dieci minuti uno squarcio delle Tragedie di Racine. Ed io me ne stava tutto orecchi nel tempo di quella prima insulsa lettura, e mi addormentava poi al suono dei dolcissimi versi di quel gran Tragico; cosa, di cui VAillaud arrabbiava, e vituperavarai, con gran ragione. Questo era la mia disposizione a diventar tragico, quando stava nel Primo Appartamento della Reale Accademia. Ma neppur dappoi ho potuto ingojar mai la cantilena metodica muta e gelidissima dei versi francesi, che non mi sono i«VITA DI VITTORIO ALFIERI. ■775. sembrati mai Versi; nè quando non mi sapea che cosa si fosse un verso, nè quando poi mi parve di saperlo. Torno a quel mio ritiro estivo in Cezannes, dove, oltre l’Abate letterato, aveva anche meco un Abate citarista, che m’insegnava suonar la chitarra, stromento che mi parea inspirare poesia, e pel quale una qualche disposizione avea; ma non poi la stabile volontà, che si agguagliasse al trasporto che quel suono mi cagionava. Onde nè in questo stromento, nè sul cimbalo, che da giovane avea imparato, non ho mai ecceduta la mediocrità, ancorché l’orecchio e la fantasia fossero in me musichevoli nel sommo grado. Passai cosi quell’estate fra codesti due Abati, di cui l’uno mi sollevava dalla angoscia per me si nuova ( deU’appIi* car seriamente allo studio ) col suonarmi la cetra; l’altro poi mi facea dar al diavolo col suo francese. Con tutto ciò deliziosissimi momenti mi furono, ed utilissimi, quelli in cui mi venne pur fatto di raccogliermi in me stesso, e di lavorare efficacemente a disrugginire iPmio povero intelletto, e dischiudere nella memoria le facoltà dell’imparare, le quali oltre ogni credere mi si erano oppUate in quei quasi dieci anni continui d’incallimento nel più vituperoso EPOCA QUARTA. CAP. I, 19 letargico ozio. Subito mi accinsi a tradurre o 1775. ridurre in prosa e frase italiana quel Filippo e quel Polinice, nati in veste spuria. Ma, per quanto mi ci arrovellassi, quelle due tragedie mi rimanevano pur sempre due cose anfibie, «d erano tra il francese e l’italiano senza essere nè l’una cosa nè l’altra;appunto come dive il Poeta nostro della carta avvampante; Un color bruno, n Che non è nero ancora, e il bianco muore, n In quest’angoscia di dover fare versi, italiani di pensieri francesi mi era già travagliato aspramente anche nel rifare la terza Cleopatra; talché alcune scene di essa, ch’io avea stese c poi lette in francese al mio Censor tragico e non grammatico, al Conte Agostino Tana, e ch’egli avea trovate forti, e bellissime, tra cui quella d’Antonio con Augusto, allorché poi vennero trasmutate ne’ miei versacci poco italiani, slombati,facili, e cantanti, esse gli comparvero una cosa men che mediocre; e me Io disse chiaramente; ed io lo credei; e dirò di piò, che lo sentii anche io. Tanto è pur vero che in ogni poesia il vestito fa la metà del corpo, ed in alcune ( come nella Lirica ) r abito fa il tutto; a segno che alcuni versi »o VITA DI VITTORIO ALFIERI.
- 77^- n Con la lor vanità che par persona»
trionfano di parecchi altri in cui» Fosser gemme legate in vile anello.» £ noterò pure qui, che si al Padre Paciaudi, che al Conte Tana, e principalmente a questo secondo, io professerò eternamente una riconoscenza somma per le verità che qii dissero, e per avermi a viva forza fatto rientrare nel buon sentiero delle sane lettere. E tanta era in me la fiducia in questi due soggetti,che il mio Destino letterario è stato interamente ad arbitrio loro; ed avrei ad ogni lor minimo cenno buttata al fuoco ogni mia composizione che avessero biasimata, come feci di tante rime, che altra correzione non meritavano. Sicché, se io ne sono uscito Poeta, mi debbo intitolare, per grazia di Dio, e del Paciaudi, e del Tana. Questi furono 1 miei Santi Protettori nella feroce continua battaglia in cui mi convenne passare ben tutto il primo anno della mia vita letteraria, di sempre dar la caccia alle parole e forme francesi, di spogliare per dir cosi le mie idee per rivestirle di nuovo sotto altro aspetto,di riunire in somma nello stesso punto lo studio d’un uomo maturissimo con quello di un ragazzaccio alle prime scuole. Fatica indicibile; ingratissima, e da ributtare chiunque EPOCA QUARTA. CAP. I. *i avesse avuto (ardirò dirlo) una fiamma minor 1778. della mia. Tradotte dunque In mala prosa le due Tragedie, come disri, mi posi all’impresa di leggere e studiare a verso a verso per ordine d’anzianità tutti’i nostri Poeti primarj, e postillarli in margine, non di parole, ma di uno o più tratticelli perpendicolari ai versi, per accennar* a me stesso se più o meno mi andassero a genio quei pensieri, o quelle espressioni, o quei suoni. Ma trovando a bella prima Dante riuscirmi pur troppo difficile, cominciai dal Tasso, che non avea mai neppure aperto fino a quel punto. Ed io leggeva con si pazza attenzione, volendo osservar tante e si diverse e si contrarie cose, che dopo die/;i stanze non sapea più quello ch’io avessi letto, e mi trovava essere più stanco e rifinito as«ai che se le avessi io stesso composte. Ma a poco a poco mi andai formando e l’occhio e la mente a quel faticosissimo genefe di lettura; e cosi tutto il Tasso, la Gerusalemme; poi l’Ariosto, il Furioso; poi Dante senza commenti; poi il Petrarca, tutti me gli invasai d’un fiato postillandoli tutti, e v’impiegai forse un anno. Le difficoltà di Dante, se erano istoriche, poco mi curava di intenderle; se di espressione, di nioAlJieri,V,U.VoLJI. a DI VITA VITTORIO ALFIERI. >775. di, 0 di voci, tutto feceva per superarle Indovinando; ed in molte non riuscendo, le poche poi ch’io vinceva mi insuperbivano tanto più. In quella prima lettura io mj cacciai piuttosto in corpo un’indigestione che non una vera quintessenza di quei quattro gran luminari;ma mi preparai cosi a ben intenderli poi nelle letture susseguenti, a sviscerarli, gustarli, e forse anche rassomigliarli. Il Petrarca però mi riuscì ancor più difficile che Dante; e da principio mi piacque meno; perchè il sommo diletto dai Poeti non si può mai estrarre, finché si combatte coll’intenderli. Ma dovendo io scrivere in verso sciolto, anche di questo cercai di formarmi dei modelli. Mi fu consigliata la traduzione di Stazio del Bentivoglio. Con somma avidità la lessi,studiai, e postillai tutta; ma alquanto fiacca me ne parve la struttura del verso per adattarla al dialogo tragico. Poi mi fecero i miei amici Censori capitare alle mani l’Ossian del Cesarotti; e questi furonó i versi sciolti che davvero mi piacquero, mi colpirono, e m’invasarono. Questi mi parvero, con poca modificazione, un eccellente modello pel verso di dialogo. Alcune altre tragedie o nostre Italiane, o tradotte dal francese, che io volli pur leggere sperando d’impararvi almeno quanto EPOCA QUARTA. CAP. I. aS allo stile, mi cadevano dalle mani per la lan- 1778. guidezza, trivialità, e prolissità dei modi e del verso, senza parlare poi della snervatezza dei pensieri. Tra le men cattive Jessi e postillai la quattro traduzioni del Paradisi dal francese, e la Merope originale del Maffei. E questa, a luoghi mi piacque bastantemente per lo stile, ancorché mi lasciasse pur tanto desiderare per adempirne la perfettibilità, 0 vera, 0 sognata, ch’io me n’andava fabbricando nella fantasia. E spesso andava interrogando me stesso:,,Or, perché mai questa nostra divina lingua, si maschia anco ed energica e feroce in bocca di Dante, dovrà ella farsi cosi sbiadata ed eunuca nel dialogo tragico? Perché il Cesarotti, che si vibratamente verseggia nell’Ossian, cosi fiaccamente poi sermoneggia nella Semiramide e nel Maometto del Voltaire da esso tradotte? Perché quel pomposo galleggiante scioltista caposcuola, il Frugoni, nella sua traduzione del Radamisto del Crebillon, è egli si immensamente minore del Crebillon e di se medesimo? Certo, ogni altra cosa ne incolperò che la nostra pieghevole e proteiforme favella., „ E questi dubbj ch’io proponeva ai miei amici e censori, nissuno me li sciogliea. L’ottimo Paciaudi mi raccomandava frattanto di non ti» b4 VITA DI VITTORIO ALFIERI. 1775. scilrate nelle mie laboriose letture la proSà, ch’egli dottamente denominava la nutrice del verso. Mi sovviene a questo proposito, che un tal giorno egli mi portò II Galateo del Casa, raccomandandomi di ben meditarlo quanto ai modi, che certo ben pretti toscani erano, ed il contrario d’ogiii franceseria. Io, che da ragazzo lo aveva ( come abbiam fatto tutti ) male letto, poco inteso, e niente gustatolo, mi tenni quasiché offeso di questo puerile o pedantesco consiglio. Onde, pieno di mal talento contro quel Galateo, lo apersi. Ed alla vista di quel primo Conciossiacosaché, a cui poi si accoda quel lungo periodo cotanto pomposo e si poco sugoso, mi prese un tal impeto di collera, che scagliato per la finestra il libro, gridai quasi maniaco:» Ella è pur dura e stucchevole ne»9 cessità, che per iscrivere tragedie in età di»> venzett’anni mi convenga ingojare di nuovo n codeste baje fanciullesche,e prosciugarmi il»j cervello con si fatte pedanterie. n Sorrise di questo mio poetico ineducato furore; e mi profetizzò che io leggerei poi il Galateo, e più d’una volta. E cosi fu in fatti; ma parecchi anni dopo, quando poi mi era ben bene incallite le spalle ed il collo a sopportare il giogo grammatico. E non il solo Galateo, ma presso