Una passione/X
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X.
Zio Remo.
L’ultima domenica di giugno Remo, dopo di avere assistito alla santa messa nella parrocchiale del villaggio, si era chiuso in casa, a rivedere i saggi che i suoi scolaretti stavano preparando per gli esami. Fresco come una mela e fregandosi le mani il buon maestro era tutto allegro perchè gli sembrava di verificare un notevole profitto. Cari ragazzi! Le corse all’impazzata attraverso i campi, le sfide a palle di neve, il tardo arrivare alla scuola, gli uccelli di carta lanciati dalle finestre, le barchette di carta nuotanti nella catinella, i pupazzetti sui libri di testo, i codini attaccati alla nuca dei compagni, le banderuole issate sulla cattedra, questi svaghi innocenti sì ma non contemplati dalla disciplina, non avevano danneggiato menomamente il risultato dell’anno scolastico.
Cari ragazzi! Tutte le massime ottimiste che egli aveva accumulate, che teneva in serbo per consolare sè stesso e gli altri, fra cui sceglieva invariabilmente il testo per i modelli di calligrafia, gli venivano sulle labbra con una sfilata trionfante. «L’uomo nasce naturalmente buono, basta saperlo educare. L’educazione è al fanciullo quel che la rugiada alle piccole piante. Non bisogna stancarsi di spargere a larghe mani il buon seme. Ognuno di noi deve lavorare onestamente pensando che Dio lo vede», ecc. ecc.
Egli aveva allineato davanti a sè sul tavolino, in cinque mucchietti, i compiti de’ suoi allievi e li mirava con compiacenza. C’era, è vero, quel Battistino Rota da cui non si riusciva a spremere nulla, e l’Aristide Pochini il quale confondeva sempre i nomi dei fiumi con quelli dei monti; ma la storia è piena di esempi di uomini celebri che sui banchi della scuola promettevano poco di buono. Le vie della Provvidenza sono infinite e non conviene disperare del giorno finchè è sera.
Ma che cosa aveva Rosalba da socchiudere ad ogni dieci minuti l’uscio della camera cacciando dentro quella sua testa da nottola?
— Rosalba, volete qualche cosa?
— Nulla. Guardavo se avete finito.
— Vi occorre che finisca dunque?
— No. Guardavo per guardare.
Alla buon’ora — pensò Remo. — L’occupazione è senza conseguenze. — E continuò a scegliere, ad annotare, ad ammucchiare foglietti senza preoccuparsi se l’uscio cigolasse o no. Quando credette di aver tutto in ordine asciugò diligentemente la penna, la depose attraverso al calamaio d’osso e si levò in piedi.
Così, senza accorgersene, aveva fatto venire le due e mezzo. Diede un’occhiata fuori della finestra ai mandorli che tremolavano al soffio della brezza e decise di muovere due passi prima del desinare.
Quando ebbe appena varcato l’uscio della cucina, il solo che desse adito alla casa, Rosalba gli corse dietro:
— Ricordatevi che è domenica e che si pranza prima degli altri giorni.
— Va bene, lo so.
— Non fatevi attendere, chè Romolo brontola.
— Lo so, lo so.
In fondo al cortile trovossi ancora Rosalba alle calcagna. Ella biascicava rivoltando fra le mani la pezzuola da naso:
— Tutto cambia talmente a questo mondo che non si è più sicuri di quello che si fa; cambiano le persone, cambiano le abitudini: una volta si pranzava a mezzogiorno ed ora si arriva fino alle quattro; hanno cambiato finanche gli orli dei fazzoletti, che una volta si ribattevano sul rovescio ed ora si ribattono sul dritto, vantaggio della macchina.
Remo che non la ascoltava più stava per girare il sentiero di fianco.
— Remo! Che diamine! Remo!
— Ma che cosa volete, benedetta donna? Vi ha forse morsicato una vespa?
— È più di un’ora che cerco di parlarvi; ma già, gli uomini non capiscono mai nulla. Mi manca il fiato a furia di corrervi dietro.
Remo si fermò di botto al colmo dello stupore.
— Se volete parlarmi perchè non lo avete già fatto?
Rosalba si lasciò andare colla schiena contro il muro affannata e scarlatta, facendosi vento col grembiule.
— Se fosse stata una cosa tanto semplice non mi sarei data questa pena, e dopo tutto è per voi altri, per l’onore della vostra famiglia... perchè nessuno possa ascoltare e riferire.
Remo incominciò a tremare per davvero. Ciò vedendo ella prese animo per entrare trionfalmente nell’argomento:
— Voi non sapete dunque nulla?
— Ma di che, in nome di Dio?
— Di Ippolito.
— Ippolito?
— Giusto lui.
— E che cosa c’è?
La donna volle godersi con una pausa quel punto culminante della scena che aveva preparata, godersi l’ansia di Remo, godersi la propria, momentanea importanza. Mise le mani sui fianchi, spinse innanzi la faccia tutta stravolta:
— C’è... c’è...
Poi tutt’a un tratto, come si schiaccia una mosca in un impeto di rabbia, gli soffiò sotto il naso:
— Ha una pratica!
Il buon pedagogo arrossì, oh! ma di un rossore straordinario che salì ad investirlo fino al di sopra delle orecchie, mentre cercava inutilmente dove posare lo sguardo smarrito. Un discorso di tal fatta con una donna! con Rosalba!... E senza avere il tempo di prepararsi! Tentò due o tre volte di aprir bocca; finalmente, cedendo al suo temperamento ottimista, disse un po’ rinfrancato:
— Siete poi certa?
— Ssss!! — fece Rosalba lanciando un braccio al disopra della testa.
— Sapete che il mondo, purtroppo, è pieno di cattive lingue; per ignoranza, per leggerezza, non credendo di far male il più delle volte... E come la falda di neve che ne trascina un’altra e che...
— Altro che falda di neve! È un fatto positivo. Vi immaginate perchè se ne sta a Bergamo tutti questi giorni?
— Sicuro, poverino. Ha gli ultimi esami al Conservatorio; prepara una composizione sacra...
— Sì, eh? Lo ha detto a voi, a me, a tutti, e tutti l’abbiamo bevuta!
— Rosalba, Rosalba, prima di dir male del prossimo conviene girare tre volte la lingua in bocca.
— Per me è tutto il giorno che la rigiro. Non dissi nulla a Romolo...
— Avete fatto bene.
— ... perchè è troppo furioso e Dio sa che quarantotto ne veniva fuori. Del resto la cosa è tanto sicura che lui sta a Bergamo per andarsene quando vuole a Milano...
— Che c’entra Milano, adesso?
— Come, non l’ho detto? È a Milano che egli ha la... (Terminò la frase con una strizzatina d’occhi).
— Oh! Signore Iddio — gemette Remo invaso da un subitaneo sgomento per le proporzioni che la faccenda minacciava di prendere. — Ma come sapete voi... una donna... queste cose...
— E so di peggio. Pare che in casa di quella pratica ci sia stata una rissa e che ne debba venire un duello. Vedete in che razza di impicci è andato a cacciarsi?
— Un duello? Ippolito!
Il povero Remo sudava freddo. Prendendo Rosalba per un braccio la trascinò ancor più lontano dalla casa, assalito da mille timori senza nome.
— Ditemi tutto quello che sapete, sopratutto da qual parte lo sapete, se pure non è una calunnia inventata di sana pianta, il che mi sembrerebbe più probabile.
Il buon Remo si attaccava con una ostinazione di naufragio alla scappatoia della calunnia, ma Rosalba fu spietata:
— Toniolo di Ponte di Sotto, sapete?...
— Sì, Toniolo dal naso a spegnitoio.
— Benissimo! Egli è a Milano a fare il sarto, e va a dormire in casa di Bernardo, sapete, Bernardo lo zoppo che sta a Milano da tanti anni?
— Sì, sì.
— Ebbene, Bernardo è il portinaio di quella casa... dove abita... avete capito adesso? Lui e Toniolo hanno visto tutto.
— Ma il duello, il duello?
— Il duello si deve fare uno di questi giorni.
— Oh! Signore Iddio! — tornò a gemere Remo; — pure, reagendo ancora con tutte le forze della sua anima semplice, riprese: — E se non fosse vero niente?
Questo pensiero che «non fosse vero niente» gli sorrideva con una dolcezza incomparabile. Tutto come prima: Ippolito a Bergamo per prepararsi all’esame; Rosalba accanto a’ suoi fornelli; e lui, Remo, correggendo i compiti in quella bella domenica di giugno, con un cielo così limpido ed una brezza così soave tra le foglie dei mandorli...
Vana speranza! Rosalba bruciò la sua ultima cartuccia:
— Per essere sicuri c’è un mezzo semplicissimo. Andate a Bergamo, subito. Se trovate Ippolito, bene con bene: se non lo trovate, via dritto a Milano, in una contrada che si chiama Palestro... Non vi dico altro. Se fosse una contrada onesta si chiamerebbe di S. Pietro o di S. Paolo e non con questo nome turco.
Remo implorava colle due mani tese a guisa di ventaglio verso la donna, quasi per arrestarne l’inflessibile chiacchierio.
— Esitate? Vedete un po’ come sono questi uomini...
— Non esito... no... se occorre... il mio dovere innanzi tutto.
— Dunque andate.
— Ma così... per una parola...
— Volete che vada io? o Romolo?
Egli misurò l’estensione del nuovo pericolo, lo scandalo, i pettegolezzi, l’ira del fratello, tutto il putiferio che ne sarebbe nato. Chinò la testa e rispose con un gran sospiro:
— Anderò.
Si trattava di decidere quando. Rosalba pretendeva che partisse sul momento; ma a questo egli si rifiutò categoricamente adducendo che conveniva preparare Romolo con un pretesto e che anche partendo subito non avrebbe potuto andare e ritornare nello stesso giorno, ed a star fuori la notte non era nemmeno da pensarci per una quantità di ragioni.
Rosalba, avendo ottenuto l’intento principale, mostrossi docile su questo punto e lasciò che Remo andasse a terminare il suo passeggio sotto i mandorli, benchè l’animo di lui contristato e turbatissimo non gli permettesse più di godere l’innocente svago.
Fu ben peggio quando, il giorno dopo, addotto un impegno professionale, egli prese di buon mattino malinconicamente la via di Bergamo con una grossa mazza fra le mani il cui pomo rappresentava una testa di cane, « simbolo di fedeltà» e un cappello di paglia le cui ampie tese ombreggiavano pietosamente il suo volto stremato dalla notte insonne.
— Ricordatevi — lo aveva ammonito Rosalba mescendogli nel caffè nero una goccia di acquavite per infondergli coraggio — che bisogna battere risolutamente il ferro intanto che è caldo. Questo genere di donne è terribile quando si attacca ad un giovinotto. Sono vampiri! Ricordatevi, vampiri!
Trotterellando sullo stradale, Remo cercava di prepararsi alla partaccia che gli era stato affibbiata. Che un giovine di ventidue anni ceda agli inviti d’amore mentre tutto nel mondo e nella natura ne lo consiglia, non era in se stessa cosa peccaminosa. «No, no, — andava ripetendo con una crollatina di testa — il male non è qui. Scelga una onesta giovine e la sposi appena gli venga fatto di ottenere il posto; è giusto, è umano, è saggio. Chi di noi gliele vorrebbe impedire? Non sarebbe anzi la nostra gioia? Non sarebbe il conforto della nostra vecchiaia veder girare per la casa una fresca sposa e, più tardi, una nidiata di bamboccetti a cui insegnerei a leggere e scrivere e che verrebbero alla loro volta a fabbricarmi le barchette di carta sotto il naso? Bamboccetti e bamboccette, uno biondo, l’altro nero, l’altro castano».
Si accorse di essersi allontanato dall’argomento, sempre per quella benedetta tendenza a vedere tutto roseo, ed affrettando il passo e crollando la testa più energicamente in senso affermativo, questa volta per avviarsi con una ginnastica graduale alla grande battaglia, si rimise di fronte il problema: Una pratica a Milano. «Uhff!!» — sbuffò. Molto molto di simili affari non si intendeva... Per conto proprio, intanto, no! Ma qualche amico, qualche racconto udito di straforo, qualche lettura... Cose vecchie del resto. Anche Circe, anche Cleopatra, anche Messalina... Dice bene Rosalba: Vampiri! Bisogna atterrarli e distruggerli. Ippolito, poveraccio, che ne sa lui? Ma capirà la ragione, oh! la capirà subito; un ragazzo intelligente, buono, affezionato alla famiglia non può perdersi così da un momento all’altro. È questione di arrivare in tempo. Il peggio è quel duello. Un duello! Ma se non ha mai maneggiato altra arma fuori dello schioppo! E poi non sono forse proibiti i duelli? Dunque non si fanno. Sarebbe un triplice attentato contro la religione, contro le leggi, contro la famiglia. Ippolito non ne è capace. Egli crede in Dio, rispetta i superiori, è sempre stato un figliuolo obbediente e timorato; perchè dovrebbe battersi?...
E quella donna, a proposito, quella donna, se lo ama, non lo può permettere nemmeno lei. Bisogna dirglielo, bisogna mostrarle la responsabilità che le verrebbe da una disgrazia. Bisogna all’occorrenza minacciarla... ci sarà bene nel Codice un qualche paragrafo in questo senso. Intimorirla bisogna. Andare da lei direttamente, là, e dirle che tutto è scoperto. Questo le deve fare una grande impressione».
A tal punto del monologo Remo tentò di rappresentarsi press’a poco la via Palestro, che doveva essere qualche cosa come il sentiero dell’Inferno, ma un pudore improvviso gli accalorò la faccia e capì che la matassa si ingarbugliava di tutti gli sforzi che egli faceva per sgarbugliarla. In quale brutto passo era mai caduto!
Essendosi fermato un istante per riposare sopra un mucchio di ghiaia andava tamburinando colle dita la testa di cane della sua mazza in cerca di aiuto. Decise finalmente di non pensarci più finchè fosse giunto a Bergamo, vedere se Ippolito c’era e lasciarsi guidare dall’ispirazione del momento, la quale vuolsi sia sempre la migliore.
L’abitazione dell’amico, presso cui Ippolito aveva preso alloggio in quei giorni col pretesto di prepararsi insieme all’esame, sorgeva poco lungi dal Conservatorio sullo sdrucciolo solitario di San Giacomo, ed aveva un giardinetto disposto a scaglioni in vista delle mura. Fu in questo giardinetto che il buon uomo trovò la madre dell’amico occupata ad inaffiare certe sue pianticelle. Egli non sapeva, in verità, da qual parte rifarsi per interrogarla; ma ella lo tolse subito d’impaccio prevenendolo:
— Buon giorno signor Remo; viene a trovare suo nipote? Bravo, si accomodi. È al Conservatorio con mio figlio; li aspetto fra poco per la colazione; la faremo insieme.
Remo trasse un respiro tanto prolungato a questa prima notizia rassicurante che la signora, ingannandosi sul significato, soggiunse:
— È una salita dura, nevvero? Pensi un po’ quando non c’era la funicolare! Ma quale compenso una volta giunti quassù! Guardi che vista.
— Stupenda!
Egli avrebbe ben voluto chiedere alla madre dell’amico se Ippolito stava fermo agli studi o se faceva qualche scappata a Milano; ma fu preso da uno scrupolo. O se non c’era nulla di nulla perchè sollevare sospetti temerari? Spirava tanta pace in quella casetta! Si chinò a guardare le pianticelle:
— Sono tuberose?
— Tuberose e garofani della China.
— Vengono su bene.
— Sì, se Dio vuole. Aria e sole non mancano. Guardi tutti i giardini qui intorno, che paradiso!
Remo girò gli occhi sul panorama: incantevole a monte, dove una catena di giardinetti si arrampicava tra le case usufruendo d’ogni più piccolo spazio di terreno per lanciare al sole ciuffi d’erbe fiorite; imponente a valle, coll’ampia distesa fra il Brembo e il Serio perdentesi all’orizzonte in una vastità di mare.
— Permetta, signor Remo, le è caduto un ragno sulla manica; due anzi. Volevano fare all’amore sul suo pastrano.
Tutto confuso egli tese docilmente il braccio per accogliere il buffetto che la signora diede ai due vagabondi, non senza poi passare e ripassare la mano sul posto del convegno, invaso da una certa inquietudine.
Quando i due studenti reduci dal Conservatorio fecero la loro apparizione in giardino, scavalcando il muro di cinta con delle rose in mano colte allora allora, il buon Remo non seppe far altro che sorridere a suo nipote tendendogli cordialmente la destra. Ma la sorpresa di Ippolito non fu lieve e non si appagò del pretesto accampato lì per lì per giustificare uno strappo così straordinario alle occupazioni ed alle abitudini del maestro del villaggio. Non poteva nemmeno sfuggirgli il contegno di Remo in cruda lotta fra la dolcezza naturale e l’aspro compito che si era assunto. — «C’è un guaio» — pensò il giovinotto; lontano per altro dalla verità.
Terminato il modesto asciolvere, mentre gli ospitalieri padroni avevano lasciato soli zio e nipote immaginando bene che avessero qualche cosa da dirsi, Ippolito chiese subito di che si trattava.
— Figliolo mio — esordì Remo messo nella condizione di chi addossato a un muro si trova il nemico davanti — bada che io non credo niente. Sono ciarle, dicerie, roba messa in giro da qualche invidioso o da qualche sfaccendato...
Fin dalle prime parole la voce segreta dell’istinto fece battere confusamente il cuore a Ippolito il quale si morse i piccoli baffi con un movimento nervoso aspettando il seguito. Ma anche Remo aveva sollevato sul nipote i dolci occhi rotondi sperando un aiuto o un incoraggiamento purchessia, e l’attitudine del suo volto era pietosa a segno che Ippolito finalmente disse:
— E così?
— Dicono... ma non arrabbiarti, sai, perchè se non è vero non è vero, ed io credo più a te che agli altri. Dicono che hai una relazione...
Si fermò in attesa che Ippolito protestasse, ma vedendo che non faceva altro che mordersi i baffi in silenzio, prese animo a soggiungere:
— .... a Milano...
Sempre silenzio.
— .... in via Palestro... e che c’è un duello per aria. È vero?... No? Ah! lo sapevo bene.
— Piano, caro zio. In quello che tu dici c’è vero e c’è falso, come succede spesso.
— Ma niente di male, eh? Questo è l’importante. Il duello?...
— Il duello non si farà. Ti basta?
— C’era però?
— C’era, ma non c’è più. Uno sciocco vanesio voleva che mi battessi, infatti; ma tutto venne accomodato coll’intervento di una brava persona, un gentiluomo, un galantuomo, uno che se lo conoscessi ti piacerebbe certamente. Rallegrati dunque e non ne parliamo altro.
Remo stava per appigliarsi giocondamente a questo consiglio che armonizzava a pieno co’ suoi desideri, quando si accorse di non avere dato fondo alla questione. Anzi quello che rimaneva a decifrarsi era ancor più scabroso. Si diede qualche colpettino prima colla mano destra sulla sinistra, poi colla sinistra sulla destra, si raschiò la gola, aspirò l’aria a pieni polmoni. Improvvisamente, colle risoluzioni violente che i timidi trovano nella loro coscienza quando si tratta di un dovere da compiere, mise fuori la gran parola:
— E... la donna?
— Caro zio, poichè ti ho assicurato che non corro nessun pericolo, che importa il resto?
Remo si sovvenne delle terribili raccomandazioni di Rosalba a proposito dei vampiri. Ciò lo rese ardito:
— Non tutti i pericoli, caro figliuolo, ci vengono dalle armi e dalle risse. Vi sono abissi tenebrosi sotto ai laghi più azzurri, veleni micidiali in grembo ai fiori maggiormente profumati. Tu sei inesperto ancora, e per questo, e perchè sei giovine, male ti puoi difendere dalle astuzie femminili che non conosci, che forse non sospetti nemmeno. Se tu vagheggi un puro sogno d’amore, perchè farne mistero? Se invece cadesti nei lacci di un’avventuriera...
— Ma chi ti ha raccontato queste frottole?
— So che vai nascostamente a Milano.
— Chi te l’ha raccontato?
— Gente che ti ha visto; ma non è ciò che importa. Chi hai a Milano? Dimmelo. Non sono più il tuo vecchio zio al quale hai sempre confidato tutto? Il tuo vecchio zio che ti ama? Voglio esserti utile in ogni modo. Se ciò a cui tendi è bene, aggiungerò le mie forze perchè tu lo raggiunga; se è male, ti sarò compagno nel combatterlo. Già tu non vuoi il male, nevvero?... Ippolito, figliolo caro... rispondi...
— Che devo mai rispondere?
— Vai a Milano?
— Ebbene, sì, vado a Milano. È questo il male?
— Ma vedi... è secondo... Intanto è male che tu vada nascostamente, facendo credere che ti fermi qui per studiare. E poi... una relazione...
— Senti, zio. Ti ho detto fin dal principio che nelle ciarle che ti hanno riferito c’è del vero e del falso. Vado a Milano a trovare una persona, una signora, un’amica carissima, e basta. Non c’è altro. Tutto ciò che la malignità o la stupidaggine possono aggiungere a questo fatto semplicissimo è spudorata calunnia.
Con uno slancio di improvviso coraggio Remo lanciò una domanda che da molto tempo gli bruciava la lingua:
— È maritata? perchè, vedi, il peccato sarebbe doppio...
— No.
— Una fanciulla?...
— Una signora, ti dico. Non pensare altro, intendi? Non altro. Sappi che io la venero come una Madonna; sappi che è la più buona, la più nobile, la più disinteressata di tutte le donne e che non tollererò mai sul suo conto una parola meno che rispettosa.
— Tu l’ami? — mormorò Remo quasi sbigottito dalle ultime parole del giovine.
— L’amo.
Il silenzio che seguì questa ferma dichiarazione fu lungo e penoso per entrambi. Remo arrischiò timidamente un’altra domanda:
— E lei?...
— Ah!... Non so, non so, non so!
Ippolito si cacciò le mani nei capelli, pallido e convulso.
Vedendo il suo diletto nipote in tanta agitazione zio Remo fu subito preso da una specie di pentimento. Era chiaro che non c’era nulla di male. Si trattava evidentemente di un amor platonico ispirato dalle virtù di una donna eccezionale, e poichè la signora era onesta, così nobile, così buona, così disinteressata, il pericolo scemava d’assai. Cosa vuol dire le male lingue! E Rosalba che parlava di vampiri!... Il bisogno che egli aveva di serenità e di pace lo sospingeva rapidamente ad accogliere il concordato che gli veniva offerto dalle dichiarazioni di Ippolito, per cui soggiunse con convinzione:
— Ad ogni modo tu agirai onestamente, nevvero? Rimettiti alla Provvidenza. Se ella ha destinato che tutto finisca bene, finirà. Sarebbe però consigliabile che tu ora abbandonassi un po’ questi sogni d’amore per attendere agli esami... Se li dovessi mancare anche questa volta... rifletti.
Ippolito appariva impaziente che il dialogo terminasse: ad ogni modo non era disposto a dare maggiori spiegazioni, segretamente irritato che la sua passione fosse già conosciuta. Disse ancora alcune parole per calmare lo zio: parole vaghe, imprecise, sufficienti tuttavia perchè il sorriso rinascesse sulle labbra, e negli occhi del buon Remo.
— Prima di lasciarti — disse, mentre un raggio si accendeva nelle sue pupille rotonde — voglio ripeterti il consiglio di andare cauto, sia per te, sia per lei: sopratutto per lei, per la sua riputazione. Sono del parere, guarda, che appena terminati gli esami tu vada a fare un viaggetto... così, per distrarti. Il tempo intanto porterà consiglio e tutto anderà per il meglio. La Svizzera, eh?... Non ti piacerebbe vedere Ginevra? E il lago dei Quattro Cantoni?
Ad un’obbiezione di Ippolito egli replicò tutto ilare:
— Non ci pensare. Ho da parte una sommetta che destinavo all’acquisto di una fisarmonica... te la cedo volentieri. Forse non avrei nemmeno tempo di suonarla la fisarmonica. Al caso sarà per un altro anno.
Zio e nipote si abbracciarono teneramente. Sulla via del ritorno Remo si fregava le mani pensando che proprio le cose non erano andate così male come temeva. Quanto a Rosalba, conveniva giuocare d’astuzia per sviare le sue ciarle. Egli le avrebbe detto che Ippolito studiava come un martire e che se andava tratto tratto a Milano era per fare quattro passi in Galleria, tanto per sollevarsi lo spirito.