IX.

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VIII X

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IX.

— .... Se è vero che il mondo è un pantano pieno di vizi non si può negare che abbia le sue vette. E là che bisogna rifugiarsi.

— Di chi è don Peppino questo pensiero morale?

— Ma... credo che sia mio.

— Forse vi ingannate. Ho letto qualche cosa di simile in Campoamor.

— Anche questo può darsi.

Tre giovinotti che ascoltavano in piedi il dialogo dei due amici si posero a ridere.

Il teatro dell’azione era il salotto di Lilia; i due amici don Peppino e il giornalista: i tre giovinotti nuove reclute fatte nella società elegante dove, in memoria di una caricatura del Journal amusant, li avevano soprannominali Guy, Gontrand e Gaston. Da quindici giorni essi facevano la loro corte in regola alla signora del luogo, indivisibili, pensando che l’unione fa la forza, mediocremente interessati alla riuscita parziale, purchè uno riuscisse, per l’onore della triade. Ritti accanto alla finestra del balcone aspettavano che Lilia rientrasse, ma Lilia che trovavasi in buona compagnia non si curava affatto di loro. Tratto tratto uno de’ tre metteva fuori la testa [p. 113 modifica] e vedeva sempre la medesima, cosa; vale a dire una figura bianca di donna e una figura bruna d’uomo stretti in intimo colloquio nell’angolo più remoto del balcone; e la testa rientrava.

Don Peppino, seduto di fianco al piano, solleticava con un dito la tastiera, ma sempre sornione, osservando quelle mosse attaccò l’aria della Carmen: «To-re-a-dor- at-teento!» La sua voce tremula accompagnando le note riuscì di un effetto irresistibile. Fu il giornalista questa volta che rise di cuore, Egli aveva sorpassato la fase acuta della gelosia ed ormeggiando fra le rappresaglie e la rassegnazione niente lo divertiva quanto lo scacco matto di un avversario.

— Perchè smettete don Peppino? Siete un orecchiante portentoso.

— Temo che la musica di Bizet annoi questi signori.

— È volgaruccia davvero — disse uno della triade. — Non ho mai compreso il successo della Carmen se non immaginando un teatro diurno con un pubblico di droghieri e con accompagnamento di gazose stappate.

— Graziosissima! — appoggiarono gli altri due.

— Senza parlare di Josè che è un imbecille.

— Oh! oh! — interruppe don Peppino — si può discutere l’opera, ma Josè è il tipo perfetto dell’amante.

— Spagnuolo!! [p. 114 modifica]

— La Spagna è il paese dell’amore.

— Esempio don Juan, infatti.

— L’uno completa l’altro, signori, hanno ragione entrambi.

Don Peppino continuò il dialogo sottovoce col giornalista:

— Avete osservato che Lilia questa sera ha gli occhi delle grandi battaglie?

— Cioè?

— Quegli occhi languidi che segnano sempre una data nella sua vita; io li chiamo: ses yeux couchés... Riflettete come certe cose si dicono meglio in francese: ses yeux couchés, convenite, è tutt’altra cosa che a dire: i suoi occhi coricati.

Il giornalista parve gustare mediocremente la confidenza e con una voce che fischiò attraverso i denti chiusi soggiunse:

— Vi concedo tutta l’ammirazione che volete per le vostre sottigliezze glottologiche, ma a proposito di chi dite ciò? Non certo...

— Oh! non per essi, no. Conosco abbastanza Lilia per tenermi sicuro che ella qualifica i signori Guy, Gontrand e Gaston collo stesso aggettivo da essi regalato al mite Josè; non capisco neppure perchè li abbia ricevuti, se non forse per far piacere a qualche vecchio amico, ma se ne sbarazzerà presto, ve lo garantisco.

— E chi allora? — insistette, l’antico geloso. [p. 115 modifica]

— Ma! — fece don Peppino allargando le braccia e sporgendo il mento colle labbra strette.

Il giornalista girò lo sguardo intorno mormorando:

— Non vedo qui nessuno che possa mettermi sulle traccie.

— «È l’amore strano augel» — canticchiò don Peppino bonariamente mentre gli occhietti gli scintillavano di malizia.

Il balcone di Lilia si apriva sui boschetti, deserti in quell’ora e percorsi da brividi misteriosi, come se gli alberi approfittassero dell’oscurità per intrecciare le loro chiome in amoroso amplesso. Ella stava in piedi, appoggiata alla balaustra, tutta spinta in fuori col busto per sprofondarsi maggiormente nelle tenebre e nel silenzio; colla testa inclinata in atto soave, non ricordandosi nemmeno più delle persone che l’aspettavano in salotto, sembrava suggere tutta la dolcezza della ammirazione muta che palpitava al suo fianco; muta, nuova e per ciò deliziosissima. In verità non era mai accaduto a Lilia di fare una conversazione così interessante con un minor numero di parole. Forse venivano a lei nella dolce notte, per lontano atavismo, i sogni delle avole vissute nei tempi romantici delle congiure e del mistero, quando anche l’amore si vestiva di così poetici veli?

Egli aveva detto: «Non potevo più reggere»; [p. 116 modifica] ella aveva risposto: «La aspettavo». E poi si erano accostati al parapetto guardando insieme la massa bruna degli alberi, mormorando ancora, tratto tratto, qualche parola che non era quella che volevano dire, nè quella che avrebbero desiderato di ascoltare, nè alcuna delle parole segrete e ardenti che salivano da quel cantuccio romantico della vecchia Milano tutto pieno di ricordi passionali. Le lettere scambiate non permettevano loro di considerarsi quali stranieri; erano anzi esse che li legavano con una sottile catena di ricordi, di confidenze, di espansioni; eppure si conoscevano così poco che stavano a guardarsi, al dubbio riverbero delle lampade, nella stessa guisa che lo scopritore di tesori esamina un monile ritrovato.

— Possibile! Possibile! — gridava esultante il cuore di Ippolito violentemente compresso dalla sua mano, mentre colle pupille velate dalla commozione prendeva conoscenza delle mirabili bellezze di Lilia.

— Amico mio — ella disse a un tratto posandogli sul braccio l’estremità delle dita — noi siamo fuori dell’ordine. La nostra relazione è troppo singolare perchè ci sia permesso di trattarla co’ modi soliti. Avremo molto da perdonarci l’un l’altro... Vuole?

Ippolito, turbatissimo, si sarebbe gettato ai piedi della divina creatura con un improvviso [p. 117 modifica] desiderio di farsi schiacciare e calpestare da lei. Disse appena: «Oh! signora!», ma con tale smarrimento negli occhi, che Lilia trasalì di gioia. «Come è giovane! — pensava. — Come è giovane!»

Ma per quanta dolcezza provassero a conversare insieme, ne provavano anche una maggiore a guardarsi tacitamente, con una intuizione sibaritica di tutti i piaceri che avevano dinanzi e della voluttà di centillinarli adagio adagio. Era già un incantamento così soave quello di trovarsi vicini, di leggersi negli occhi la reciproca ebbrezza, di misurare quasi le proprie forze e sentirsi uguali, che non volevano domandare di più all’attimo fuggente. Incominciava per essi il meraviglioso inganno: la passione che tutto tramuta, anima e sensi. Lilia la conosceva già, ma non a quel modo. Dal poco che le avevano rivelato le lettere di Ippolito e dalla sua schietta e vigorosa bellezza le veniva un profumo singolarmente eccitante di erba montana, di dittamo che nessun giardiniere aveva coltivato, che odorava di una essenza aspretta e selvaggia piena di eccitamenti nuovi; e tutto ciò che vi era in lei di buono, di nobile, di ancora puro, si raddrizzava con un violento bisogno di comunione dove lo spirito aveva, forse per la prima volta, una parte preponderante.

Qualche parola dissero ancora; parole [p. 118 modifica] comuni, superficiali, staccate, che volavano via nella notte, dando loro l’impressione dell’areonauta che si alleggerisce della inutile zavorra per salire più rapido e più alto.

— Mi scriverà ancora?

— Certamente.

— Non più ferma in posta?

— Non più.

— Come è tranquillo questo punto di Milano!

— Somiglia a Bergamo?

— Oh! no.

— Meno bello?

— Diverso.

Don Peppino sollevava allora dai tasti l’aria della Carmen: «Toreador attento...». Essi tacquero in un silenzio inebbriante. Ippolito vedeva attraverso la manica di velo il braccio di Lilia simile a un ramo carico di gigli e quella vista gli mozzava il respiro. Ma dopo un po’ di tempo:

— Dobbiamo rientrare?

— Sono a’ suoi ordini.

— La presenterò ai miei amici.

Quando essi apparvero sulla soglia del balcone come raggianti di bellezza, col pallore sul volto del nascente amore, coloro che si trovavano nel salotto provarono l’impressione di due astri sorgenti e quando Lilia ebbe pronunciato le parole sacramentali: «Un caro amico, il signor Ippolito Brembo», tutti quegli uomini trasalirono [p. 119 modifica] colpiti al cuore dal morso della gelosia. Si inchinarono poi freddamente, eccettuato don Peppino che tese la mano al nuovo venuto sorridendogli con una mite indulgenza paterna.

Lilia si lasciò cadere sul suo piccolo divano, improvvisamente illanguidita, tenendo la mano sollevata all’altezza degli occhi come se la improvvisa luce la offendesse.

— Brembo! — susurrò uno dei tre — chi lo conosce? C’era un cardinale di questo nome una volta...

— Sta’ zitto — interruppe un altro — quello si chiamava Bembo. Lo dovresti sapere, tu che discendi da Lucrezia Borgia.

Risero tutti e tre con un piccolo sussulto nervoso adattandosi all’occhio la caramella. Indi, a bassa voce:

— Se è possibile presentarsi di sera con una cravatta di quel colore!

— E quelle scarpe!

— E i capelli, vi prego. Si parla tanto di diboscamento in Italia!

— Signori — entrò a dire il giornalista — la musica ha questo di buono che fa crescere le chiome, lo sappiamo tutti nevvero? Quel signore è organista.

— Organista?

— Organista?

— Organista? [p. 120 modifica]

— E perchè no? — riflettè don Peppino — Verdi pure lo è stato.

— Oh! oh! Verdi... già Verdi!

— Si parla ancora di Verdi? — domandò un signore che guardava degli albums. — La sottoscrizione per il suo monumento ha raggiunto la bella cifra di sessantanovemila e ducentotrentacinque lire.

— Sarebbe maggiore — disse Lilia mescendosi alla conversazione — se tutti quelli che palpitano alle sue melodie avessero potuto offrire un centesimo solo; ma tutti, intendiamoci, dagli studenti che si ritempravano dalla noia delle lezioni, cantando quarant’anni fa i cori dell’Ernani, alla modistina che seguiva sull’organetto l’addio alla vita di Violetta Valery. La stessa cosa si avvererebbe per il suo compatriota — soggiunse volgendosi direttamente a Ippolito. — Donizetti! E forse, nell’espressione del sentimento, Donizetti è anche più penetrante. Non crede?

Ippolito, a cui non era sfuggita la corrente di avversione che aveva destata la sua presenza, rispose a bassa voce con un monosillabo.

Il giornalista intanto confidava all’orecchio di don Peppino:

— Lo dobbiamo a voi questo regalo?

— Che idea! È la prima volta che lo vedo.

— Dove diamine sarà andata a pescarlo [p. 121 modifica]allora? Già ne aveva una voglia!... Ha però aspettato troppo; il suo quarto d’ora di celebrità è passato e nessuno si ricorda più del signor Ippolito Brembo.

— Lo dicono promettente assai come musicista.

— Chi lo dice? Sempre lei. Non ha la fronte abbastanza vasta per poter contenere qualche cosa.

— Aspettiamo quando sarà calvo; potremo giudicare meglio — concluse don Peppino con la sua malizia senza punte simile al morso di un agnello. — Nella mia villa sul lago di Como tengo una raccolta di ritratti di tutti i maestri da Cimarosa in poi. Si potrebbe consultare.

— Non ho mai saputo che aveste una villa sul lago di Como — disse Lilia che aveva udito le ultime parole.

— Veramente è come se non l’avessi perchè non ci vado e non ci sono andato mai. Non mi piace la campagna.

— Non potreste vivere ventiquattro ore lontano dal club della Unione.

— Proprio così. Da sette anni, quando morì mia madre, la villa è rimasta chiusa. Già per sè stessa discretamente selvaggia, deve essere diventata un antro.

— Selvaggia sul lago di Como?

— Oh! lago di Como così lontano da Como [p. 122 modifica]che non ne avete un’idea. È laggiù, oltre Gravedona dove il lago è deserto e le montagne si ergono nude di contro al cielo in una solitudine sconfinata.

— Una descrizione che mette i brividi — gemette uno dei tre.

— Magnifica! — esclamò Ippolito quasi senza avvedersene.

Il giovanetto elegante lo guardò d’alto in basso, Scontrandosi i loro sguardi si urtarono con una mossa decisa di antipatia.

— Varese è più allegro — disse il giornalista.

— Ah! parlatemi di Varese, alla buon’ora. Là almeno vi sono strade per correre coi cavalli. Non esiste in campagna piacere maggiore. Anche don Peppino si divertirebbe quando attacco la mia charrette e quando faccio sellare il mio poney. Scommetto che vorrebbe accompagnarmi nei box con le tasche piene di zucchero.

Don Peppino crollò il capo:

— Amo le bestie, ma non troppo, perchè è notorio che si finisce sempre col prendere qualche cosa dell’oggetto amato.

Guy, Gontrand e Gaston abbozzarono un sorriso privo di convinzione intanto che Lilia, attirando Ippolito accanto al suo divano, ricominciava con lui uno di quei silenzi ardenti che già l’avevano inebbriato sul balcone. I suoi occhi [p. 123 modifica]carichi di languore avvolgevano il giovine in una rete di irresistibile seduzione; irresistibile eppure non volgare, perocchè nulla di volgare potesse svolgersi dalla donna eletta la cui intelligenza palpitava sempre come un’ala tesa verso un indefinibile bisogno di perfezione. Tratto tratto gettava ancora qualche parola nel crocchio degli amici, ma tenendosi muta accanto ad Ippolito e dandogli a suggere l’anima negli sguardi mostrava così visibilmente la nuova preferenza che l’aria intorno sembrava scottare. A un certo punto gli chiese con lo stesso accento col quale avrebbe potuto dire «Ti amo»:

— Si annoia?

Egli ebbe l’audacia di rispondere, guardandola in viso:

— Sì.

Le gote di Lilia si tinsero allora di una lieve fiamma e, strappandosi all’estasi, si alzò con un bel movimento di pantera che fece ondulare sul tappeto lo strascico aereo della sua gonna. La voce tremula di don Peppino diceva:

— Tutto basta al primo amore che è sempre un milione di fame per un centesimo di pane.

— Si parla di amore qui? — domandò Lilia avanzandosi verso il gruppo.

— Non tutti hanno la fortuna di poterlo fare — rispose don Peppino, correggendo con l’umiltà dell’accento l’impertinenza dell’allusione [p. 124 modifica]e soggiungendo subito con galanteria: — Potrebbe essere diversamente intorno a voi?

— Non gli credete — saltò su il giornalista: — si trattava di amore nell’arte.

— Di amore applicato all’industria.

— Alla coltivazione dei baccelli.

— All’istruzione dei pappagalli.

— Volete finirla di dire sciocchezze? Di amore ve n’è uno solo. Anche quando l’artista se ne impossessa e crea con esso il capolavoro, noi crediamo di ammirare il genio ed ammiriamo ancora l’amore.

— Bravissima! — gridò don Peppino.

Ella volse i begli occhi verso Ippolito quasi chiedendo la sua approvazione. Il giovine disse:

— Donizetti da lei citato poco fa potrebbe essere una prova luminosa del suo asserto. Il temperamento amoroso ha dato a tutta l’opera di questo maestro una penetrazione di sentimento che è difficile riscontrare in altri, se non forse in Bellini.

Lilia interruppe.

— E sappiamo che da uno strazio d’amore nacque la Favorita!

I tre facevano spallucce.

— Non v’ha dubbio — rispose don Peppino — che ciò che manca alla maggior parte dei compositori moderni quando vogliono affrontare il lavoro drammatico, è appunto questo fuoco [p. 125 modifica] concentrato, questa passione interna che io voglio pur chiamare amore, come dice la nostra divina Lilia, anche se altri si accontenta di chiamarla ispirazione. E credo che se venne dedicato principalmente il nome di amore al fatto che genera la vita, è non per altro che per questo. Più la cosa creata è grande e più implica nell’atto creatore una forte somma di amore. Rammento una gita fatta al Piccolo San Bernardo, in una calda giornata di agosto, e il ritorno penoso sotto il sole bruciante che ci consigliò di fermarci a mezza strada per prendere un bagno. C’era lassù uno stabilimento impiantato di fresco con tutte le comodità moderne: vestibolo grandioso, ampi corridoi, luce abbondante, campanelli elettrici, vasche di marmo, sali d’ogni qualità, termometri di tutte le grandezze... e un filo d’acqua: così poca acqua che non riuscii ad immergervi i ginocchi. Davanti a certe opere musicali di cui si vantano i pregi vi assicuro che mi viene in mente quel bagno, dove uno specialista avrebbe potuto ammirare l’impianto, ma dove il pubblico non ci si poteva bagnare.

Qualcuno osservò che don Peppino aveva dello spirito.

— Naturalmente — disse il giornalista — parlano per bocca sua tutti gli scrittori della terra! È il vero caso di dire che parla come un libro stampato. Ma concludiamo: Poichè si [p. 126 modifica] venne a ciò parlando di musica, non c’è alcuno che si senta di farne un po’ questa sera? Oserei pregare la padrona di casa.

Lilia accennò negativamente col capo.

— Qualcuno dei signori? — ripetè volgendosi ai tre eleganti. — O il signore?

Ippolito, interpellato direttamente, si schermì, sotto le occhiate oblique della triade dalla quale fischiò in tono sommosso questo commento ironico:

— Gli occorrebbe l’organo.

Non tutti udirono, ma Ippolito sì. Egli varcò con un balzo lo spazio che lo separava dal suo rivale e chinando verso di lui il volto infiammato, lampeggiando negli occhi, gli scattò a bruciapelo la botta di risposta:

— Come a lei la frusta.

I tre si alzarono furibondi: nell’attrito fu rovesciata una sedia.

— Che avviene laggiù? — chiese Lilia.

— Un malinteso — si affrettò a dire don Peppino cui non era sfuggita la rapidissima scena.

— Ah! — protestò uno dei tre — lo chiama un malinteso?

— O se preferisce uno scherzo — continuò don Peppino col suo accento persuasivo mettendosi risolutamente in mezzo a loro. — I signori hanno voluto scherzare ed il signore raccolse l’invito. Già. Un’allusione alle loro abitudini sportive... niente altro. Uno scherzo, un [p. 127 modifica] semplice scherzo. Abbiamo fatto molto tardi questa sera. Mi pare che la signora abbia bisogno di riposarsi.

Lilia afferrò subito l’intenzione del suo vecchio amico e tendendo cortesemente la mano li congedò tutti, con una lunga, speciale stretta a Ippolito il quale uscì barcollando di sdegno e d’amore. In anticamera gli si avvicinò don Peppino e gli disse:

— Caro giovinotto, ho molti anni più di lei e posso darle un consiglio. Si ricordi che per ogni donna che ha la bontà di distinguerci noi dobbiamo calcolare sopra dieci uomini che ci detestano; è fatale. La prego però di non comprendermi nel numero — aggiunse sorridendo di un sorriso fine tra il filosofo e l’uomo di mondo che diede ad Ippolito la soave impressione di aver trovato un amico.