Una notte di maggio o l'annegata

russo

Nikolaj Vasil'evič Gogol' 1831 1916 Domenico Ciampoli Indice:Gogol - Novelle, traduzione di Domenico Ciampoli, 1916.djvu Novelle Una notte di maggio o l'annegata Intestazione 23 novembre 2023 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Novelle (Gogol)


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UNA NOTTE DI MAGGIO

O L’ANNEGATA




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I.

ANNA.


Un echeggiar di canti correva come fiumana sonora traverso le vie del villaggio di... Era l’ora, nella quale, stanchi dal lavoro e dalle cure del giorno, giovani e ragazze si raccolgono in allegre brigate, nella serenità della limpida sera, nei suoni sempre più pieni di malinconia; e, malinconica appunto, la sera misteriosa spirava pel cielo azzurrino, immergendo tutte le cose in vaghe lontananze. Già scendeva il crepuscolo, e i canti non cessavano ancora. Il giovane cosacco Levko, figlio del Capo1 del villaggio, con la bandura2 in mano, quatto quatto si era allontanato dai cantori. Calcatasi in testa la berretta pelosa, il cosacco avanzava per la via, pizzicando le corde dell’istrumento, che gli accompagnava il passo, e ballonzolando. Ecco: si ferma pian piano alla porta di una khata3, circondata da ciliegi nani. Di chi è quella khata? Di chi è quella porta? Dopo un breve silenzio, egli prese a cantare e a suonare:

               «Il sole è giù, la sera già declina;
               «Vieni vicino a me, cor di piccina!»

— Ma, certo; la mia bella dagli occhi chiari, va pei sette sonni, — disse il cosacco, finita la canzone, avvicinandosi alla finestra. — Haliu! Haliu!4 Dormi o non vuoi esporre al freddo il tuo visetto bianco? Non temere. Non c’è anima viva. La serata è calma; e se pur venisse qual[p. 26 modifica]cuno, ti coprirò con la mia svitka5; ti avvolgerò con la mia cintura, ti farò paravento con le mani, e niuno ci vedrà. Se pure il freddo punga, vieni; ti stringerò più forte al cuore, ti riscalderò coi baci, porrò i tuoi piedini bianchi nel mio berretto. O anima mia, pesciolino mio, collana mia! Affàcciati, sia pure per un momento! Da uno spiraglio della finestretta, sporgi almeno la manina bianca... Ma tu non dormi, fanciulla superba! — soggiunge alzando la voce e in tono da rivelare il suo dispetto, la vergogna di non essere accolto. — Tu godi nel burlarti di me... Addio!

Così dicendo volse le spalle, si calcò di sghembo il berretto sull’orecchio, e venne via crucciato, arpeggiando con le dita sulle corde della bandura.

Su quel punto la nottola di legno della porta girò; la porta si aperse cigolando e una giovinetta sulle diciassette primavere passò la soglia, avvolta nella penombra e guardandosi timidamente intorno. Nella semioscurità le brillavano simpaticamente, come stelline, gli occhi limpidi, le luccicava il monile di corallo rosso; e agli occhi di aquila del giovine non potè sfuggire anche il rossore che le si accese pudicamente sulle gote.

— Come sei impaziente! — gli disse lei sottovoce. — Eccoti già sul broncio. Perchè scegliere quest’ora? La via è piena di gente, che va e viene. Tremo tutta.

— Oh, non tremare, mia sensitiva. Stringiti più forte a me! — disse il giovine cingendola con le braccia, dopo essersi buttata alle spalle la bandura, sorretta da una cinghia, e sedendosi con lei sull’uscio della casetta. Sai pure quanto mi affligge lo star senza vederti anche per una mezz’ora.

— E tu sai che penso? — interruppe la giovinetta, fissandolo con gli occhi trasognati; — qualcosa mi sussurra all’orecchio che nell’avvenire non potremo vederci più tanto spesso.... la gente di qui è cattiva; tutte le ragazze mi guardan da gelose e i giovinotti... Vedo che la mamma stessa, da qualche tempo, mi tien più d’occhio. Confesso che mi sentivo più lieta fra gli estranei.

Un’aura dolorosa le passò sul volto a queste ultime parole. [p. 27 modifica]

— Sei da due soli mesi nel paese nativo, e già ti annoi? Forse... ti annoio anch’io?

— Ah, no; tu non mi annoi! — disse lei sorridendo. — Io ti amo, cosacco dalle sopracciglia nere. Ti amo per codesti occhi lionati, e quando tu mi guardi, mi par che qualcosa mi sorrida nell’anima. Se vai per la via, se canti o suoni la bandura, mi piace sentirti.

— Oh, Halia6 mia! — esclamò il giovane, baciandola, e serrandosela più forte al petto.

— Via, basta, Levko; di’ piuttosto se hai parlato a tuo padre.

— Cosa? — diss’egli come balzando da un sogno; — ch’io voglio ammogliarmi e che tu vuoi sposarmi? L’ho detto.

Ma quel «l’ho detto» gli suonò tristemente sulle labbra.

— E poi?

— Che farci? Il vecchio ramolaccio fece il sordo, al solito. Non solo ora non mi ascolta, ma, quel ch’è peggio, mi sgrida, e mi rimbrotta di vagabondare non so dove, nè con chi. Ma non darti pena, Halia mia; ti dò la mia parola di cosacco che saprò vincerlo.

— Ma basta tu dica una parola, Levko, e tutto si fa secondo il tuo volere. Lo so per prova su di me: certe volte, vorrei proprio non cederti; ma, alla prima parola, io faccio non volendo quel che tu vuoi. Guarda, guarda! — soggiunse, posandogli la testa sulla spalla e levando gli occhi al cielo azzurro, caldo d’Ukraina, velato in giù dalle ramaglie crespe dei ciliegi, che li attorniavano: — guarda come lontano lontano appaiono tante stelline: una, due, tre, quattro, cinque... vero? Sono gli angioli di Dio che hanno aperto le finestrelle delle loro dimore, e ci spiano; vero, Levko? Vero che son dessi ora a contemplar la terra nostra? Ah, se gli uomini avessero le ali come gli uccelli, bisognerebbe proprio volare tutti in alto, sempre più alto! E spaventevole! Non una quercia da noi che possa giungere al cielo! Dicono tuttavia che c’è in qualche punto, in non so quale paese lontano, uno di questi alberi, che stende la cima proprio nel cielo. E che di là Dio scende sulla terra la notte che precede la Pasqua.

— No, Halia; Dio ha una lunga scala che va dal cielo alla terra. Nella notte del sabato, santo gli arcangeli scendo[p. 28 modifica]no, e appena Dio mette il piede sul primo scalino, tutti gli spiriti cattivi fuggono a precipizio e piombano a mucchi nell’inferno. Ecco perchè di Pasqua tu non incontri più neppure uno spirito maligno sulla terra.

— Come si muove pian piano l’acqua! Pare un bambino cullato, — disse Anna additando lo stagno circondato da una nera macchia di alberi e di salici piangenti, i cui rami lamentosi vi si tuffavano. — Come debole vecchio, esso teneva nel freddo amplesso la fosca vastità del cielo, coprendo di baci le stelle ardenti, che spandevan la pallida luce nell’aria cupa della notte, come se presentissero la prossima venuta del luminoso re della notte. Vicina alla foresta, sull’altura, dormiva colle imposte chiuse una vecchia casa di legno; musco ed erbe selvatiche ne coprivano il tetto, meli le stendevano ramaglie alle finestre; la foresta, avvolgendola nell’ombra, la faceva parer cupa e tetra; un boschetto di noci si alzava a piè della collina e scendeva sino allo stagno.

— Mi ricordo, come in sogno, — disse Anna, senza distogliere gli occhi dallo stagno, — che, tanto, tanto tempo fa, quand’ero ancora piccina e vivevo con la mamma, mi raccontavano su quella casa qualcosa di tremendo. Tu devi saperla, quella storia, Levko, raccontamela.

— Non ne parliamo, bella mia; quante fiabe non raccontano le balie e gl’ignoranti! Non farei che turbarti, inutilmente; n’avresti paura e non ti addormenteresti tranquilla.

— Cònta, cònta, diletto mio, mio caro parobok 7 dalle ciglia nere, pregava lei poggiandogli il viso sulla guancia e cingendolo con le braccia; — se no, tu vuoi bene a un’altra. Non avrò paura, dormirò tranquilla; appunto se non racconti, non potrò chiuder occhio; sarò tormentata da questa idea fissa. Cònta, Levko.

— Ha ragione la gente quando dice che nelle ragazze c’è il diavolo, che le spinge a voler sapere tante cose. Orsù; la vada... Ascolta. Sono molti anni, cuor mio piccino, e in quella casa viveva un sotnik 8, un capitano de’ cosacchi. Questo capitano aveva una figlia, una bella bimba, [p. 29 modifica]bianca come neve, come il tuo visetto. Il sotnik pensò di riprender moglie. — «Mi carezzerai come prima, babbo, quando avrai presa l’altra moglie?»

«Sì, figlia mia, ti stringerò ancora più forte al cuore; sì, figlia mia, ti darò orecchini e monili ancora più lucenti». E il capitano condusse in casa la novella moglie.

La novella moglie era giovane, bella; rosea e bianca, la giovane moglie, — ma lanciò sulla fanciulla uno sguardo sì truce, che costei gettò un grido; e durante l’intera giornata la burbera matrigna non le rivolse parola. Giunse la notte, il sotnik se ne andò con la moglie nella camera da letto, anche la bianca signorina si chiuse nella sua; si sentiva oppressa, e scoppiò in lacrime. A un tratto, alza gli occhi; ed ecco venirle contro un terribile gatto nero, entrato da lei furtivamente; gli fiammeggia il pelo, gli suonan sull’impiantito le zampe di ferro. Spaventata, lei salta su di una panca, e il gatto appresso; e salta sulla stufa, e il gatto la segue ancora; poi, d’un balzo, le si getta al collo e tenta di strangolarla. Con un grido, se lo strappa di dosso e lo getta per terra; e di nuovo il terribile gatto torna all’assalto. Adirata, afferra una sciabola appesa alla parete, e giù, colpisce; al colpo, lì resta una zampa, cogli artigli di ferro. E il gatto, gnaulando, scompare nel buio.

Per tutto il giorno, la giovine sposa non uscì dalla stanza. Uscì al terzo giorno con la mano fasciata. La povera signorina comprese che la matrigna era strega e lei le aveva tagliato la mano.

Il quarto giorno, il capitano comandò alla figlia di andar per acqua, di spazzar la casa, come una semplice muziska 9, e di non metter più piede nelle stanze dei padroni. Dura pena per la poverina; ma che fare? Si rassegnò agli ordini del babbo. Il quinto giorno, il capitano cacciò via la figliuola, e a piedi nudi, senza darle pur un tozzo di pane per la strada. Solo allora, la fanciulla scoppiò in singulti, coprendosi con le mani il bianco viso. «Tu mi hai perduta, babbo, me, la tua figliuola; e la strega perderà la tua anima peccatrice. Dio ti perdoni! Io, sventurata, non so più che farmi quaggiù...» — Or vedi, là, vedi? — e qui Levko si volse ad Anna e le additò la casa. — Guarda da quella parte; lassù, un po’ più in là della casa, la sponda più alta dello stagno; da quella sponda la fanciulla si gettò [p. 30 modifica]nell’acqua, e allora, davvero non ebbe a che farsi quaggiù...

— E la strega? — interruppe ansante Anna, fissando il giovine cogli occhi pieni di lacrime.

— La strega? Narrano le vecchie che d’allora tutte le annegate escono dallo stagno nelle notti chiare e vengono nel giardino del sotnik a riscaldarsi ai raggi della luna.

E la fanciulla guida la ridda. Una notte, lei scorse la matrigna, vicina allo stagno; le si avventò e la trascinò, gridando, nell’acqua. Ma la strega non si diè per vinta; si trasformò sott’acqua in una delle annegate e potette scampare così dalle sferzate di canne verdi, con le quali le annegate volevan farle la festa. Le vecchie ne raccontan tante! Narrano, per esempio, che la fanciulla raccoglie ogni notte le annegate, le scruta, le fisa una per una in viso cercando di scoprir quella che nasconde la strega. Ma fino ad ora i suoi sforzi sono vani; e lei s’incontra in persona viva, la costringe ad aiutarla nelle ricerche, minacciandola, se si neghi, di annegarla a sua posta. Ecco, Anna mia, quel che narrano i vecchi. Il padrone di ora, intende trasformar quella casa in una distilleria, anzi ha già mandato un distillatore... ma, sento voci: sono i nostri che tornano dal ballo. Addio, Halia! Dormi in pace, e non pensare a queste frottole di balie e nonne.

Così dicendo l’abbracciò forte forte, la baciò, e via.

— Addio, Levko, — rispose Anna, senza staccare gli occhi trasognati dalla foresta scura.

L’enorme luna infocata sorgeva in quel momento sull’orizzonte, maestosa; era mezza tuttavia sottoterra, e già il mondo intero era inondato di luce serena. Lo stagno sprizzò scintille; l’ombra degli alberi si disegnò sulla verdura cupa.

— Addio, Anna! — e la parola che le suonò alle spalle fu accompagnata da un bacio.

— Eccolo che torna! — disse lei, volgendosi; ma, vedendosi d’inanzi uno sconosciuto, si trasse indietro.

— Addio, Anna! — suonò ancora la parola, e ancora qualcuno le scoccò un bacio sulla guancia.

— Or ve’ se il diavolo non me ne manda un altro! — disse sdegnata.

— Addio, cara Anna! — e i baci le piovevan su di ogni parte.

— Ma qui ce ne è proprio uno stuolo! — esclamò Anna sbuffando alla brigata dei giovani che l’abbraccia[p. 31 modifica]vano a vicenda — Come? non la smetterete più con tante smorfie? Presto, perdio, giungeremo a tale che non potrò più passar per le vie!

Con queste parole l’uscio si chiuse e non s’intese che il cigolare della sbarra spinta.


II.

IL CAPO.


Conoscete la notte dell’Ukraina? Ah! Voi non conoscete la notte dell’Ukraina? Contemplatela. Di mezzo al cielo la luna guarda: la volta incommensurabile stendesi e par sempre più profonda ancora; arde e respira. Sulla terra diffusa la luce argentea; l’aria è fresca, e pur greve, piena di languore, alitante ondate di profumi. Notte divina; notte incantevole! Immobili e pensose, le foreste riposano, nelle tenebre, proiettando le loro grandi ombre. Silenziosi, calmi, ecco gli stagni; la freschezza e l’oscurità son come imprigionate tetramente nelle verdi cupe muraglie dei giardini. Le vergini siepaglie di pruni e ciliegi stendono silenziosamente le radiche nel fondo dell’acqua; di quando in quando stormiscono le fronde come in un brivido di sdegno, quando il procace venticello vi penetra e cheto cheto le bacia. Tutta la distesa dorme. Di su, nell’alto, tutto respira; tutto è splendido, solenne, trionfale; e nell’anima si aprono vastità sconfinate; a schiere a schiere, si levan le visioni argentee, dal profondo, armoniosamente.

Notte divina! Incantevole notte! D’un subito si anima ogni cosa; le foreste, gli stagni e le steppe; irrompe improvviso il maestoso gorgheggiar dell’usignuolo d’Ukraina e par che la luna si fermi nel mezzo del cielo ad ascoltarlo... Sulla collina sonnecchia il villaggio come nell’incantamento: spiccano ancor meglio ai raggi della luna le file delle capanne; spiccano ancor più chiare dalle tenebre i loro muri bassi. Tacciono i canti; tutto è silenzio. La gente per bene già dorme. Qua e là, tuttavia, scintilla qualche stretta finestrina. Solo, sulla soglia di qualche capanna, una famiglia attardata finisce di cenare. [p. 32 modifica]

— Ma il hopak10 non si balla così. No, no; non è così. Cosa contava il compare? Orsù, via! Opp! Opp!... tra là là, tra là là. Opp, opp, opp!...

Così parlava fra sè un contadino d’età matura, un po’ brillo, barcollando per la via. — Non è mica così che si balla il hopak. Perchè mentire? Per dio, non è codesto... Via: opp, opp, opp, tra là là, opp, tra là, opp, opp, opp!

— Oh perde il cervello colui? Fosse almeno un giovinotto! Ma è un vecchio cignale; l’andar trescando così per le vie, è diventar lo zimbello de’ ragazzi! — esclamò una vecchietta che passava portando una bracciata di paglia. Vattene a casa! È tempo omai di dormire!

— Ci vo, ci vo, — disse soffermandosi il muzik: — ci vo. Io mi infischio del capoccia del villaggio. Per chi mi piglia colui? O perchè lui fa annaffiare la gente gelata d’acqua fredda, crede di alzare il naso?... sì, capoccia, capoccia lui! Ma anche io son capo, io, il diavolo se lo porti! Se il diavolo mi porti, sono capo anch’io, sono capo di me stesso. Siamo intesi, eh, ben intesi! — seguitò avvicinandosi alla prima casuccia, innanzi alla cui finestra si fermò, tastando col dito il vetro, e cercando di afferrare il nottolino di legno.

Baba, apri! Su, baba! Apri, ti dico; è tempo di dormire, pel cosacco.

— Dove vai, Kalenik? Tu sbagli porta! — gli gridaron di mezzo alla via, dietro alle spalle, alcune fanciulle tornando dal ballo. — Bisogna insegnarti la casa?

— Insegnate, insegnate, mie care piccine....

— Mie care piccine!... Mie care piccine! — esclamò una di loro; — com’è gentile questo Kalenik! Merita gli s’insegni la porta. Ma no! Deve prima ballare.

— Ballare?... E voi, bricconcelle, — disse con voce strascicata Kalenik, minacciandole col dito, e ridendo, barcollando, vi lascerete abbracciare? Io vi abbraccerò tutte, tutte...

E balzellando si prese ad inseguirle.

Le ragazze si misero a gridare e a correre, accalcandosi le une alle altre; ma subito, ripreso animo, si accorsero che lui non si reggeva sulle gambe e passarono dall’altra parte della via.

— Eccola costì, la casa, — gli gridarono allontanan[p. 33 modifica]dosi, e additandogli una capanna un po’ più grande delle altre, che apparteneva al Capo del villaggio.

Kalenik seguì adagio adagio la direzione indicatagli, e riprese a insultare il Capo.

Ma chi è mai codesto Capo, che si è saputo meritar quella intemerata di male parole? Oh, quel Capo è davvero persona ragguardevole. Or prima che Kalenik non giunga al termine del suo viaggio, avremo certo tempo di dirvene qualcosa. Appena lo vedono, tutti del villaggio si sberrettano e le ragazze più piccole gli danno il buon di più grazioso. Chi fra gli uomini non vorrebbe essere capo? Per lui, libero ingresso in ogni tabacchiera! per lui, il contadino più audace, gli resta davanti a testa scoperta umilmente aspettando che il Capo degni di trarre le dita tozze dal suo tabacco. Nell’adunanza del miz11, sebbene il suo potere sia limitato dalla maggioranza, il Capo piglia sempre il sopravvento e di suo capriccio manda questo a livellar le strade, quello a scavar fosse, altri a sterrare... È grave, burbero, parco di parole. Tanto tempo fa, quando la Zariza, la grande Caterina, di felice memoria, faceva il suo viaggio di Crimea, lui fu scelto a scortarla. Compì questo incarico per due giorni interi, ed ebbe anche l’ambito onore di sedere in serpa vicino al cocchiere imperiale. Da quel tempo, il Capo imparò a chinar la testa in aria grave e pensosa lisciandosi i lunghi mustacchi, e sogguardando dalle ciglia con occhio di nibbio. Da quel tempo, qualunque fosse il discorso, lui trovava sempre il destro di ricordare come avesse guidata la zariza e come fosse stato seduto in serpa alla carrozza imperiale. Il Capo suol fingere di esser sordo, specie quando sente cosa che non vorrebbe sentire. Il Capo non può sopportare il vestir di garba: porta sempre una svitka di panno nero casalingo, sulla quale passa una cintura di lana colorita; e niuno l’ha mai veduto in altro arnese, tranne al tempo del viaggio della zariza in Crimea, quando aveva indossato il gabbanello turchino de’ cosacchi. Non è tuttavia probabile che anima nata, nel villaggio, ricordi quel tempo; ma il gabbanello lui se lo tien chiuso in cassa sotto chiave.

Il Capo del villaggio è vedovo; ma ha seco la cognata, che gli cucina, gli lava le panche, gl’imbianca di calce la stanza, gli tesse la tela per le camicie, gli governa in[p. 34 modifica]somma la casa. Si buccina nel villaggio che la non sia cognata; ma si è già visto che nel villaggio il Capo ha molti nemici, felicissimi di spargergli intorno calunnie. Però, quello che potrebbe dar pretesto a simili voci, gli è che la cognata non nasconde il suo dispetto quando lui entra in un campo ove son mietitrici, o in casa d’un cosacco che abbia figliuola.

Il Capo del villaggio è guercio; ma in cambio, l’occhio che gli resta è furbo e vede in lontananza una graziosa contadinella; non sbircia tuttavia un bel visetto, senza esser prima sicuro che i parenti di lei non lo spiino a loro volta.

Ora noi abbiam detto quasi tutto intorno al Capo del villaggio, mentre il briaco Kalenik non è ancora a metà della sua strada; intanto, egli seguiterà a prodigare contro il capoccia tutte le elette parolacce che possono escirgli dalla lingua tartagliante e torpida.


III.

UN RIVALE INASPETTATO. — LA CONGIURA.


— No, cari miei, no, non voglio. Basta omai la baldoria. È tempo di smettere. Già ce l’abbiamo il nome di fior di bricconi. Meglio, andare a dormire. — Così diceva Levko ai compagni buontemponi che volevan trascinarlo a nuove chiassate. — Addio, cari! Buona notte.

E via, di buon passo.

«Dormirà la mia Anna?» pensava, avvicinandosi alla casetta dai ciliegi nani che conosciamo. A un tratto, il silenzio fu turbato da un discorrere sommesso. Levko si fermò in ascolto. Si scorgeva fra le piante un biancicar di camicia12; «che vuol dir cotesto?» pensò; e avanzando di soppiatto, si nascose dietro un albero.

Al lume della luna spiccava il viso d’una fanciulla... «È Anna! Ma chi, l’uomo d’alta statura che mi volge le spalle?». Invano tendeva la vista; l’ombra gli nascondeva lo sconosciuto dal capo a’ piedi: solo il petto era un poco illuminato; se Levko si fosse mosso un tantino, sarebbe [p. 35 modifica]stato scoperto. Poggiandosi pian piano al tronco, risolse di restar lì, fermo.

La fanciulla profferì nettamente il nome di lui.

— Levko?... Levko è ancora un ragazzo, — diceva a voce bassa e roca l’omone alto. — Se te lo capito in casa, gli tiro le orecchie!

— Vorrei proprio vedere il bravaccio che vanta di tirarmi le orecchie! — disse Levko fra sè, e sporse la testa sì da non perdere una sola parola; ma lo sconosciuto discorreva tanto piano, che non era possibile coglier sillaba.

— Tu dunque non ti vergogni? — disse Anna, appena l’altro tacque. — Tu menti, tu m’inganni, tu non mi vuoi bene; io non crederò mai che tu mi abbia voluto bene.

— Lo so, — rispondeva l’uomo aitante: — Levko deve averti snocciolato un monte di sciocchezze, e ti ha fatto girar la testa.

Questa volta parve al giovine che la voce dello sconosciuto altrettanto sconosciuta non gli fosse; che l’avesse udita altra volta.

— M’incarico io del tuo Levko, — insisteva lo sconosciuto: — lui crede che io non conosca tutte le sue bricconate. Gl’insegnerò io, a quel figlio di cane, il colore del mio pugno.

A queste parole, Levko non potè restare sulle mosse; si avventò allo sconosciuto e già levava il braccio per dargliene a tempesta, chè, per gagliardo che fosse, lo sconosciuto avrebbe piegato, quand’ecco, in quell’attimo, la luna gli schiara il volto e Levko resta lì di sasso... aveva davanti il padre. Il suo stupore, non apparve che dal tentennar del capo e da un lieve bramito.

S’intese un fruscio. Anna scomparve nella casetta, e si chiuse la porta alle spalle, sbarrando poi in fretta.

— Addio, Anna! gridò allora uno fra i giovanotti sopraggiunti lì d’improvviso e aprendo le braccia per seguirla; ma, spaventato, indietreggia quasi interdetto nell’incontrare i ruvidi mustacchi del capoccia.

— Addio, addio, Anna! — seguitarono a strillare molti altri giovani, avviticchiandoglisi al collo.

— Andate al diavolo, birbaccioni maledetti! — urlava il Capo brancicando e scalpitando rabbiosamente. — Per quale Anna mi scambiate? Andate a pigliar sulle forche il posto de’ vostri padri, figli di Satanasso! Sciame di mosche al miele!... Ve la darò io l’Anna! [p. 36 modifica]

— È il Capo, il Capo! È il Capo! — sgridazzarono i giovanotti sbandandosi d’ogni parte.

— Ve’ che fior di padre! — fece Levko, riavutosi dallo stupore, e guardando il Capo che si allontanava bestemmiando. — Che razza di briccone! Bell’uomo! Ed io che mi meravigliavo e non capivo niente a vederlo fare il sordo, quando gli parlavo della faccenda di sposare! Ora aspetta un po’, vecchio barbogio, chè vo’ insegnarti a levar le promesse agli altri! — Su, su, ragazzi, qui, accorrete! — gridava Levko, accennando con la mano agli amici, che si andavan di nuovo raccogliendo. — Accorrete, su. Or ora io vi diceva di andare a coricarvi; ma adesso ci ho ripensato; eccomi pronto a far baccano tutta la notte, se bisogna.

— Così va bene! — approvò l’un d’essi dalle spalle quadre e gagliardo, che passava pel primo buontempone e caposcarico del villaggio. — Io non sto nei panni quando non me la godo a dovere; par mi manchi qualcosa, come avessi perduta la berretta o la pipa; a dir breve, non mi sento più cosacco.

— Avete cuore di mandar su tutte le furie il capoccia?

— Il capoccia?

— Sì, il capoccia. Cosa gli frulla in capo? Si dà l’aria d’etmano; non gli basta di trattarci da schiavi, si dà attorno alle nostre ragazze; e non una v’è di belloccia nel villaggio, ch’egli non l’abbia tentata.

— Vero, vero! — gridaron tutti a una voce.

— Oh che, figliuoli, lui ci abbia a pigliare per la vile genia di Cam? Non abbiamo noi nelle vene lo stesso sangue suo? Grazie a Dio, siamo liberi cosacchi; proviamogli che siamo liberi cosacchi.

— Lo proveremo, — gridarono i giovanotti: — ma nel far i conti col Capo, non è da scordare lo scrivano.

— Lo scrivano non sarà scordato. Or che ci penso, ho appunto sulla lingua una canzone pel Capo. Andiamo, e ve la insegno, — soggiunse Levko, pizzicando le corde della bandura. — Ognuno si camuffi come meglio gli pare.

— Via, su, testa di cosacco! — disse il nostro gagliardo scavezzacollo, cozzando piede contro piede e facendo schioccar le mani. — Festa vuol essere! Viva la libertà! Quando ti metti a far baldoria, ei ti arriva come una folata dei tempi antichi. Fa bene al cuore, e l’anima è come in paradiso. Olà, compagni, baldoria! [p. 37 modifica]

E la brigata s’avviò chiassando per la strada. E le vecchierelle svegliate dalle grida, sollevavan le finestre, e facendosi il segno della croce con le mani indormentite, dicevano: «Già, i parobkij si danno bel tempo!».


IV.

I «PAROBKIJ» SI DIVERTONO.


Una sola casetta è illuminata laggiù, in fondo alla via. È la casa del Capo. Il Capo ha finito di cenare da un pezzo e da un pezzo sarebbe addormentato, certo, se non avesse seco un invitato, il distillatore, mandato a metter su la distilleria, dal ponescik13, che prenderà qualche palmo di terra in mezzo ai liberi cosacchi. Proprio sotto le ikone 14, al posto di onore, era seduto l’ospite, un omaccino grassottello, dagli occhietti sempre ridenti, onde luccicava il piacere di fumare a pipa corta, il quale sputacchiava a ogni momento e tastava col dito la cenere del tabacco che s’abbruciava. Il nuvolo di fumo che gli si spandeva sulla testa, lo avvolgeva in una nebbiolina grigiastra. Pareva un largo fumaiolo da camino di distilleria, che annoiatosi di far la scorta sul tetto, avesse pensato di svignarsela e di andare a sedersi beatamente al desco del capoccia. Sotto il naso gli si rizzavano i mustacchi corti e folti, ma fra quel vaporar del tabacco, s’intravedevano solo di tratto in tratto, e indistinti, sì da sembrare un sorcio che il distillatore avesse abboccato e tenesse fra i denti, a scapito del monopolio del gatto di granaio.

Il Capo, come padrone di casa, se ne stava seduto là, alla buona, in maniche di camicia e pantaloni di tela. Quell’occhio di aquila, come sole al tramonto, a poco a poco cominciava a chiudersi e a spegnersi. A capo di tavola, fumava a pipa uno dei decurioni del villaggio che componevan la guardia del capoccia. Per riguardo al padrone, indossava la svitka.

— Lei pensa dunque di metter su presto la distilleria? — disse il Capo volgendosi al distillatore e facendosi il segno della croce sulla bocca aperta allo sbadiglio. [p. 38 modifica]

— Se Dio m’aiuta, può darsi che distilleremo sin da questo autunno. Alla Prokov15, scommetto che il signor Sindaco disegnerà coi piedi le mezzelune tedesche per la strada.

Detto ciò, gli occhi del distillatore sparirono, e apparvero invece delle rughe sino alle orecchie; tutta la sua persona fu scossa da un riso folle, e le gioconde labbra lasciaron per un momento la pipa fumante.

— Voglia Dio! — fece il Capo, la cui faccia espresse qualcosa come un sorriso. Pur oggi, le distillerie vengon su a stento; ma nel tempo antico, quando accompagnavo la zariza per la strada di Pereiaslav, il defunto Bezborodko...

— A che tempi ci vai richiamando, compare! Allora da Kremencing sino a Romen si contavano appena due distillerie, mentre oggi... Hai sentito che cosa hanno inventato quei maledetti tedeschi? Fra breve, non si distillerà più con legna, come tutte le persone dabbene, ma con non so qual vapore del diavolo...

E così dicendo, il distillatore fissava lo sguardo alla mensa, sulla quale teneva poggiate le mani.

— Come faranno col vapore? È quel che, per dio, non so spiegare!

— Che imbecilli quei tedeschi! — esclamò il Capo; — bisognerebbe staffilarli, quei figli di cani! A chi può venire mai in mente di far bollire una cosa qualunque col vapore? D’ora in poi non potremo portarci più un cucchiaio di minestra in bocca senza arrostirci le labbra, come un porcellino da latte.

— E tu, compare, — interruppe la cognata, seduta a gambe ripiegate sulla stufa: — te ne starai qui tanto tempo senza moglie?

— A che farne? Ne valesse almeno la pena, allora...

— Allora, non è bella? — chiese il Capo fissandolo con l’unico occhio.

— Bella? Vecchia, come il diavolo. Ha un grugno tutto grinze, come borsa vuota. — E nella tozza persona si torse di nuovo in un ridere sguaiato. [p. 39 modifica]

In questo, s’intese un fruscio dietro l’uscio; l’uscio si aperse; e un contadino, senza levarsi il berretto, passò la soglia e rimase là, nel mezzo della stanza, come assorto in pensieri, a bocca aperta, a guardare il soffitto.

Era Kalenik di nostra conoscenza.

— Eccomi a casa! — disse mettendosi a sedere sulla panca vicina all’uscio e senza punto badare alle persone presenti. — Quel figlio del demonio mi ha allungata la via. Cammini, cammini, e non arrivi mai; le gambe par che me le abbia rotte qualcuno. Dammi, vecchia, il pelliccione16, che me lo stenda su. Costì, vicino a te, sulla stufa, non ci vengo; per dio, non ci vengo. Mi fan male, troppo male le gambe. Dammela; è là, vicino ai santi. Bada però di non rovesciare il vaso del tabacco; orsù, no; non toccarla, non toccarla; tu hai da essere briaca, oggi; smetti; vengo a prenderla da me.

Kalenik si sforzò per alzarsi; ma una forza irresistibile lo inchiodò sulla panca.

— Niente imbarazzo! — disse il Capo: — lui è in casa altrui e vi comanda come nella propria. Cacciatelo fuori, subito!

— Lo lasci star là, compare, — esortò il distillatore, trattenendolo con la mano: — codesto è un uomo prezioso; e, più ce ne saranno di simili, e più la distilleria farà cammino...

Ma non diceva questo per bontà di animo; il distillatore era superstizioso; credeva che il cacciar via un uomo appena entrato, porti disgrazia.

— E che sarà quando verrà la vecchiezza? — grugniva Kalenik, stendendosi sulla panca. — Fossi almeno briaco; ma io briaco non sono, no; non son briaco. Son pronto a sostenerlo innanzi al Capo in persona. Che m’importa del Capo? Crepi pure, quel figlio di cane. Io gli sputo in faccia. Gli passi sopra l’aratro, a quel guerciaccio del demonio! Perchè lui inaffia la gente gelata...

— Va’, va’; lasciati entrare il porco in casa; e, lì per lì, ti mette le zampe sul desco, — disse il Capo, alzandosi crucciato. Ma nell’un tempo un ciottolone, mandando in pezzi la finestra, venne a cadergli ai piedi. Il Capo si [p. 40 modifica]fermò... — Se sapessi, — riprese, raccogliendo il ciottolo, — chi è lo sforcato che l’ha scagliato, gl’insegnerei ben io a tirare. Ve’ che ribalderia! — soggiunse, esaminando il proiettile con sguardo truce. — Ti strangoli nel gozzo questo sasso!

— Oibò, oibò! Dio te ne salvi, compare! — interruppe vivamente il distillatore, impallidendo: — Dio te ne scampi, in questo mondo e nell’altro; ti scampi dal mandare a qualcuno questo augurio...

— Or non troverà qui per giunta un difensore? Ma crepi!

— Non ti venga neppure in mente, compare. Probabilmente tu non sai quel che avvenne a mia suocera, buon’anima. Una sera, forse un po’ più presto di quest’ora, si cenava: la buon’anima della suocera, la buon’anima del suocero, un garzone di fattoria, una fante e una mezza dozzina di ragazzi. La suocera aveva versato delle galuski da un caldaione in una grossa scodella, perchè fossero men calde. Venuti dal lavoro, tutti avevan gran fame e non volevano aspettare che i gnocchi si raffreddassero. Infilzandoli a lunghe asticciole di legno, si misero a mangiare. D’improvviso ecco sopraggiungere, non si sa d’onde, un uomo (Dio sa com’era), il quale chiese che gli dessero un posticino. Come mai non dar da mangiare a un affamato? Gli danno, anche a lui, un’asticciola; ma l’ospite inghiottiva le galuski, come una vacca il fieno. Prima che gli altri mandassero giù una galuska e si disponessero a prenderne un’altra, il fondo della scodella era netto come lastra da chiesa. La suocera la riempì di nuovo. Pensava che, saziata la fame, lo sconosciuto andrebbe men lesto. Nient’affatto; lui si dette a divorar peggio di prima e vuotò la scodella. «Affogati, con queste galuski!» pensò la suocera affamata. Quando, d’un tratto, glie ne va uno nel respiro, e cade. Gli accorsero attorno; la vita non c’era più... era strozzata.

— La pagò a dovere il maledetto scroccone! — disse il Capo.

— Pagato o no, da quella sera mia suocera non ebbe più pace. Appena annottava, ecco levarsi il morto; si sedeva a cavalcioni sul camino, e teneva il gnocco fra i denti. Durante il giorno, tutto andava bene; manco un fiato; ma appena imbruniva... guarda il tetto: lui già vi inforca il camino, figlio d’un cane! [p. 41 modifica]

— E col gnocco fra i denti?

— Col gnocco fra i denti.

— Strano, compare; ho anch’io sentito qualcosa di simile a proposito della defunta....

Ma il capo si fermò; si udiva venir dalla finestra uno strepito e uno scalpiccio di ballo. Sulle prime, lievi arpeggi di bandura; poi, ecco accompagnarsi una voce.

La bandura alza il tono, suona più forte; le si accordano molte voci; e la canzone irrompe come uragano:

                    Amici, udiste le novelle or giunte?

               O non avete più cervello in testa?

               Tutte le doghe omai si son disgiunte
               E il testone del Capo si dissesta.

                    Orsù, bottaio, acconciagli la boccia
               Con forti cerchi di brunito acciaio!

               Rimettigli, bottaio, la capoccia,
               E frustalo a piacer, frusta, bottaio!

                    Il nostro Capo è spennacchiato, è quercio,
               Vecchio come il demonio e imbecillito,
               Tiranno, crapulone, e pur, sì lercio,
               Corteggia le ragazze, il rimbambito.

                    Si dà l’aria di un fresco giovincello,
               mentre la bara ad aspettarlo è stucca;
               Mano ai mustacchi, e a suono di randello
               Peliamo dei capelli quella zucca. 17

— Bella canzone, compare! — disse il distillatore, chinando la testa di lato e volgendosi al Capo rimasto di sasso per tanta audacia. — Bellissima! Peccato che parli del Sindaco in termini quasi sconvenienti. — E posò di nuovo le mani sulla mensa, cogli occhi pieni di dolce tenerezza, adagiandosi meglio ad ascoltare ancora, giacchè, sotto la finestra, echeggiavano grida e risate:

— Bis! bis!

Tuttavia un occhio scrutatore avrebbe scoperto non esser lo stupore che tratteneva lì, fermo, a lungo, il Capo: così, un vecchio gatto esperto si lascia saltellare intorno alla coda un topolino ingenuo, mentre prepara il piano per impedirgli la fuga. Il solitario occhio di lui sta [p. 42 modifica]va ancor fiso alla finestra, e già con la mano, dopo aver accennato al decurione, aveva afferrato la barra della porta... Poi, d’improvviso, s’intese in istrada un fracasso.

Il distillatore, che a cento altre prerogative aggiungeva la curiosità, caricando in fretta e furia la pipa, accorse a sua volta fuori; ma i furfantelli si eran già dispersi.

— No, tu non mi uscirai di mano! — gridava il Capo, trascinando con la destra una persona avvolta in un gabbano nero alla rovescia.

Profittando del Capo, il distillatore si affrettò a tentar di scoprire la faccia del guastafeste: ma indietreggiò spaventato nel vedere una lunga barba e un muso tutto tinto.

— No; tu non mi scapperai! — seguitava a gridare il Capo, trascinando sempre nel vestibolo il malcapitato, il quale, senza opporre la minima resistenza, lo seguiva docilmente come fosse nella propria casa.

— Karpo, apri la segreta, — disse il Capo al decurione: — lo chiuderemo là al buio; poi, sveglieremo lo scrivano; riuniremo gli assessori; faremo una retata dei complici, di tutti i suoi complici, e oggi stesso, regoleremo i conti.

Il decurione fe’ cigolare un catenaccio e aperse la segreta.

In quel punto il prigioniero, profittando del buio nell’atrio, liberò le mani con uno sforzo singolare.

— Piano, piano! — gridò il Capo, agguantandolo più forte al collo.

— Lasciami! Son io! — si udì una vocina stridente.

— È inutile, è inutile!... Fratel mio, tu hai un bel gnaulare, non solo come un diavolo, ma anche come una megera, tu non mi gabbi; — e spinse il prigioniero con tanto impeto nell’oscura segreta, che il poveretto diè in un gemito e andò a ruzzoloni.

Il Capo, accompagnato dal decurione, uscì di casa, e andò dallo scrivano: dietro, seguiva, fumando come un battello a vapore, il distillatore. Camminavan così, tutti e tre, assorti nei loro pensieri, a testa bassa, quando, a un tratto, nello scantonar di una viottola oscura, gettarono un grido unanime, per un colpo violento che li percosse in fronte. Un altro grido del pari rispose a quello. Il Capo, battendo l’occhio, si vide con sorpresa davanti lo scrivano e due decurioni. [p. 43 modifica]

— Venivo proprio da te, mastro scriba.

— Ed io mi recavo appunto da Tuo Onore, mastro Capo.

— Accadono cose strane, mastro scriba!

— Cose strane, mastro Capo!

— Sì; ma cosa?

— La gioventù si è sfrenata e corre a bande per le vie, mettendo tutto a soqquadro e celebrando Tuo Onore con tali epiteti... ch’è vergogna riferirli. Anche un moscovita si tratterrebbe dal proferirli con la sua linguaccia turpe. — Tutto ciò era detto dallo scrivano allampanato, dai pantaloni a scacchiera e corpetto color feccia di vino, allungando e ritirando il collo, a vicenda. — Avevo fatto appena un sonnellino, quando mi han fatto balzar di letto con l’impudente canzone e il gran baccano; ebbi l’idea di castigarli; ma prima volli pur mettermi calzoni e cappotto; frattanto erano scappati via. Scappato, però, non mi è il caporione. Lui canta adesso nella cella dei malfattori, ben chiuso. Tentai di riconoscer l’uccellaccio; ma aveva la grinta così impiastricciata di sego e nerofumo, da parer un diavolo occupato a fucinar chiodi pei dannati.

— Oh com’è vestito, mastro scriba?

— D’una pelliccia nera rivoltata quel figlio di cane, mastro Capo.

— Non avresti le traveggole per caso, mastro scriba? Colui che tu dici di aver arrestato, è, in questo momento, chiuso nella mia segreta.

— No, mastro Capo; se’ tu, scusami tanto, senza agitarti, che ti inganni.

Via discorrendo, le due brigate insieme se ne andarono alla casa del Capo.

— Qua il lume! Ora vedremo.

Fu portato il lume, aprirono la porta, e il Capo gettò un ah! di stupefazione, nel vedersi davanti la cognata.

— Or dimmi un po’, — fece lei; — non hai perduto quel fil di senno che ti restava? Avevi un tantin di cervello ancora in codesta testaccia guercia quando m’hai spinta nella segreta? Fortuna che non ho dato del capo contro il banco di ferro! Non ti ho gridato: «Son io»? E perchè allora, maledetto orso, mi afferrasti con codeste zampe d’acciaio e mi spingesti? Così ti spinga il demonio all’altro mondo!... [p. 44 modifica]

Queste ultime parole le disse dietro l’uscio, sulla via, ove era chiamata per qualcosa da fare.

— Sì... Mi accorgo che sei proprio tu, — disse il Capo riavendosi. — Ora, che ne pensi tu, mastro scriba: non è un vero ribaldo quel maledetto briccone?

— Un vero ribaldo, mastro Capo.

— Non sarebbe omai tempo di dare una lezione a quei vagabondi e insegnar loro il mestiere che devono fare?

— Sarebbe omai tempo, mastro Capo.

— Quegl’imbecilli si son messi... Che c’è? Mi par di sentir dalla via la voce di mia cognata... Quegl’imbecilli si son messo in testa ch’io son loro pari; mi scambian per un altro, un semplice cosacco... — Un colpetto di tosse e una sbirciatina di sottecchi intorno intorno, dettero a supporre ch’egli stesse per dire qualcosa di serio. — Nel mille... Queste maledette date, se pur mi ammazzino, m’è impossibile raccontarle... Insomma, l’anno importa poco, fu dato ordine al commissario del tempo, Ledacij, di sceglier fra i cosacchi quello che gli fosse parso più intelligente degli altri. Oh! — (Quest’oh il Capo lo profferse alzando il dito) — il più intelligente a scortare la zariza. Ora confessa che il vero lo dicevo io: tu invece ti mettevi un peccatuccio sulla coscienza dicendo di avere arrestato quel briccone dalla pelliccia rivoltata.

— Quanto al briccone dalla pelliccia rivoltata, bisogna caricarlo di catene e castigarlo per pubblico esempio. Occorre che si sappia cosa è l’autorità. Da chi mai il Capo riceve il potere se non dallo stesso zar? Ci occuperemo poi degli altri... Io non ho scordato che quei manigoldi mi cacciaron nell’orto un branco di porci, i quali mi divoraron cavoli e cetrioli. Non ho dimenticato che quei figli di Satana si rifiutarono a trebbiarmi il grano; non ho dimenticato... ma vadano alle forche, costoro! Adesso, prima di ogni cosa, m’importa sapere chi è quel mascalzone dalla pelliccia rovesciata... Basta adesso andare a riconoscere il prigioniero...

E la brigatella usci di nuovo dalla casa.

— Certo è un furbo di tre cotte, — disse il distillatore, le cui guance, durante quel discorrere, si gonfiavan sempre di fumo come pezzo d’assedio, e le cui labbra, lasciando la pipata, gettavan torrente infocato. — Non sarebbe male tenere un uomo sì fatto, in ogni caso, a [p. 45 modifica]portata della distilleria; o di agganciarlo in cima a una quercia, come un incensiere.

Questo motteggio non parve poi tanto insulso al distillatore, il quale, senza aspettar l’approvazione altrui, deliberò di premiarsi lì per lì da sè stesso con una rauca risata.

Si avvicinavano intanto a una casetta quasi diruta; crebbe la curiosità della brigatella, che si accalcò contro la porta. Lo scrivano prese la chiave e la spinse contro la toppa; ma quella era invece la chiave della sua cassa.

Raddoppiò l’impazienza, ficcandosi le mani nelle tasche; lo scrivano si messe a frugar di nuovo e a bestemmiare, senza poter trovare niente.

— Ecco, eccola la chiave! — disse alla fine chinandosi e traendo la vera chiave dalla profondità dell’ampia scarsella, ond’era munito il suo pantalone a scacchiera.

A queste parole, i cuori de’ nostri eroi parvero fondersi in un solo, e quell’enorme cuore prese a battere sì forte che i suoi battiti ineguali non eran neppure attenuati dal cigolar del catenaccio. La porta si aperse... e il Capo divenne pallidissimo come cencio, il distillatore rabbrividì, mentre gli sembrava volersi i capelli volar via pel cielo. La faccia dello scrivano fu invasa dal terrore. I decurioni restavan là, inchiodati, e non potevan chiudere le bocche spalancate pel comune spavento...

Essi si vedevan dinanzi la cognata!

Non men di loro stupefatta, lei si riebbe tuttavia alquanto, e si mosse per avvicinarsi ad essi...

— Ferma! — urlò con voce selvaggia il Capo, e le chiuse l’uscio sul viso. — Amici, è Satana! — soggiunse. — Fuoco, presto, fuoco! Non importa sia fabbrica del Tesoro. Bruciatela! Bruciatela!

La cognata, udendo la terribile sentenza, gridava, terrificata, dietro la porta.

— Che fate, fratelli? — chiese il distillatore. — Ma come? Avete già i capelli quasi color di neve, e ancor non v’entra in mente che le streghe non possono essere bruciate col semplice fuoco? Solo il fuoco della pipa può rosolare il Maligno. Aspettate, che concio io per bene la faccenda, e subito.

Detto ciò, versò la cenere accesa della sua pipa sulla paglia e vi soffiò su per suscitare la fiamma. Allora, la [p. 46 modifica]disperazione diè animo alla povera cognata, che prese, con quanto fiato aveva, a scongiurarli e a persuaderli.

— Aspettate, fratelli! Perchè addossarvi inutilmente un peccato?

— Può darsi che non sia Satana, — disse lo scrivano; — se lei, o quel ch’è chiuso là dentro, consentirà a farsi il segno della croce, sarà la prova certa che non è il Maligno.

L’idea fu bene accolta.

— Indietro, Satana!18 — seguitò lo scrivano poggiando la bocca sullo spiraglio della porta. — Se non ti muovi di costì, apriremo l’uscio.

L’uscio si aperse.

— Fatti il segno della croce! — disse il Capo, guardandosi attorno, come a cercar uno scampo in caso di pericolo.

La cognata si segnò.

— Che diavolo! È proprio la cognata, invece!

— Qual potenza infernale ti ha trascinata, comare, in codesto stambugio?

E la cognata, fra i singulti, narrò come i giovinastri l’avevano afferrata sulla via, e a malgrado della resistenza, l’avevan fatta passar traverso la larga finestra del bugigattolo, chiudendole dietro le imposte.

Lo scrivano esaminò la finestra, e trovò davvero che i gangheri n’erano svelti, e le imposte chiuse di fuori con una sbarra di legno.

— Orsù, guercio del demonio! — esclamò lei avventandosi contro il Capo, che indietreggiò, pur seguitando a osservarla con l’unico occhio. — Io so bene come la pensi. Tu eri contento di coglier la palla al balzo per sbarazzarti di me, per essere più libero di corteggiar le ragazze e non aver più alcuno che veda un vecchione dai capelli grigi far l’asino galante! So tutto, vai! Io non son di quelle cui si dà a bere, massime da una zucca come la tua. Ho sopportato bensì finora, ho sopportato a lungo... ma bàdati alla fine...

E così dicendo, gli mostrò il pugno, e si allontanò di fretta, lasciando il Capo come di stucco.

— No, in verità! Il diavolo deve averci messa la coda! — pensò lui, grattandosi rabbiosamente la nuca. [p. 47 modifica]

— L’abbiamo acchiappato! — gridarono su quel punto i decurioni, accorrendo.

— Chi avete acchiappato? — chiese il Capo.

— Il diavolo nella pelliccia rovesciata.

— Menalo qua, — gridò il Capo, afferrando il prigioniero per la mano. — Ma, siete pazzi? Se è Kalenik, il briaco!

— Non è possibile! L’abbiamo agguantato noi, mastro Capo! — risposero i decurioni. — I giovinastri ci attorniarono in una viottola; si dettero a ballare, tirandoci per le vesti, facendoci le linguacce, picchiandoci sulle mani... Se li porti il diavolo!... Or come, in luogo e vece d’un di loro, han surrogato codesto corbaccio?

— In nome mio e in nome di tutta la comune, ch’io rappresento, — disse il Capo, — ordiniamo di arrestare immediatamente il manigoldo e così pure quelli che saran trovati per via. E siano condotti al mio cospetto per la punizione.

— Per carità, mastro Capo! — esclamarono alcuni, inchinandosi fino a terra. — Se tu vedessi che ceffi! Dio ne uccida, se da quando siam nati e fummo battezzati, ci siamo imbattuti mai in musacci tanto spaventevoli.

Talvolta uno può aver la paura sì forte che non uomo nè donna da bene ne possan guarire.

— Vi guarirò ben io di codeste paure! O come? Non volete più obbedire? Siete forse d’accordo con loro? Vorreste ribellarvi?... incoraggiare i disordini?... Voi... Se no, vi denuncio al commissario, qui, su due piedi, capite?... su due piedi... subito... Via, coraggio; volate via come frecce... Perchè voi mi... Perchè io vi...

Tutti fuggirono.


V.

L’ANNEGATA.


Senza badare a niente, senza curarsi della gente mandata a inseguirlo, l’autore responsabile di tutto quel diavolerio si avviava adagio adagio verso la vecchia casa dello stagno. È inutile dir, non è vero? ch’era Levko. Aveva la pelliccia nera sbottonata, portava in mano il berretto; stillava sudore dalla fronte. [p. 48 modifica]

Maestosa e tetra, la foresta di aceri offriva alla luna le sue macchie nere. Immobile, lo stagno alitava frescura sul passeggiero stanco e lo costringeva a sedersi sulla riva. Tutto era calmo; nel profondo fitto non si udivano che i gorgheggi dell’usignolo. A poco a poco, invincibile, il sonno prese a chiudergli le palpebre. Le membra lasse già si abbandonavano all’assopimento, già gli si chinava la testa. «No, potrebbe cogliermi il sonno», disse rizzandosi sulle gambe e stropicciandosi gli occhi.

Si guardò intorno. La notte gli parve più incantevole ancora. Un bagliore strano e delizioso si fondeva al fulgore della luna. Egli non aveva assistito mai a una simile scena. Gli scendeva attorno, per tutto, una nebbiolina argentea. Il profumo dei meli fioriti e dei fiori notturni inondava la terra. Attonito, contemplava le acque immobili dello stagno. La vecchia casa signorile, rovesciata in quel limpido specchio, ivi sembrava serena, in una nitida maestà. Invece delle tetre imposte, erano aperte, come occhi, le liete vetrate delle finestre e delle porte: traspariva dalla loro limpidezza la doratura.

Ed ecco gli pare aprirsi una finestra.

Trattenendo il respiro, ma senza tremare e senza perder d’occhio lo stagno, egli sentesi trasportato nella profondità e vede:

Prima appare sulla finestra un braccio bianco, seguìto subito da una leggiadra testolina dagli occhi chiari soavemente scintillanti traverso onde di capelli d’un biondo scuro. Ella poggia il gomito, ed egli scorge... lei scuoter lievemente la testa, agitar le mani, sorridere... Il cuore gli sussulta a un tratto; l’acqua tremola e la finestra si chiude.

Egli si allontanò pian piano dallo stagno; e guardò la casa: le tetre imposte erano aperte; i vetri scintillavano ai raggi della luna. «Or ve’ come occorre dar peso alle ciarle della gente», pensò. «La casa è bella e nuova; i colori son freschi, vivi, come se essa fosse stata dipinta ieri. È abitata.»

E tacitamente si avvicinò.

Ma nella casa tutto era quiete.

I canti squillanti degli usignoli si rispondevano agili e sonori; e quando sembravano spirare nel languore e nell’abbandono, si udiva il fruscio, lo zirlare de’ grilli e lo stridere dell’uccello di palude che picchiava col luci[p. 49 modifica]do becco il vasto specchio delle acque. Il cuore di Levko era invaso da dolcissima pace, da una gioia inebriante. Accordò la bandura, e cantò accompagnandosi:

                              «Luna, lunetta;
                              Alba candidetta,
                              Versate luce giù
                              Dov’è la giovinetta».

La finestra si riaperse, e la stessa testolina graziosa, che aveva veduta riflessa nello stagno, guardò, ascoltando attentamente la canzone. Lunghe ciglia le velavano a mezzo lo sguardo: ella era pallidissima, come lino, come il bagliore della luna; ma quanto meravigliosa, quanto bella!

Scoppiò a ridere.

Levko abbrividì.

— Cantami, orsù, qualche cosa, giovine cosacco! — disse lei, chinando la testa da un lato, e chiudendo del tutto le lunghe ciglia.

— Quale canzone devo cantarti, mia serena fanciulla?

Sul viso della fanciulla scesero lente lente le lacrime.

— Giovine, — rispose lei, e qualcosa di commovente, ineffabile, sonava nelle sue parole, — giovine, trovami la mia madrigna. Io non ti negherò niente; ti compenserò; ti compenserò largamente, splendidamente. Io ho manichetti di seta trapunti; ho coralli, collane: ti donerò una cintura adorna di brillanti; ho anche tant’oro... Giovine, trovami la mia madrigna. È una terribile strega; per lei non ebbi pace sulla terra. Lei mi torturava; mi costringeva a lavorar peggio di una fantesca. Guardami in viso; lei mi scolorì le guance con le impure malie. Guardami il collo bianco; le lividure lasciatevi dalle sue unghie di ferro non si cancellano più, non si cancelleranno mai. Guardami i bianchi piedi: essi han camminato tanto, ma non sui tappeti; sulla sabbia ardente, la terra bagnata, sui sassi han camminato. E questi occhi? Guardami gli occhi: sono spenti per le lacrime. Trovala, giovine! Trova la madrigna!

La sua voce, levatasi a un tratto, si tacque. Torrenti di lacrime le scesero sul pallido volto. Un senso penoso, pieno di pietà e di tristezza, gravò sul cuore del giovine. [p. 50 modifica]

— Io son pronto a tutto per te, bellezza mia, — disse egli, commosso; — ma come, dove trovarla?

— Guarda, guarda! — esortò lei d’un subito: — ella è qui; passa sulla rive confusa tra le mie fanciulle; si scalda ai raggi della luna, ma è maligna, astuta; si è trasformata in annegata; ma io so, io sento che è qui. Lei mi opprime, mi soffoca. Per lei, io non posso nuotare liberamente, lievemente come un uccello. Mi tuffo e cado al fondo come sasso. Trovala, giovine!

Levko guardò verso la riva. Nella nebbia argentea ondulavan le fanciulle, leggiere come ombre, in càmici bianchi, come prateria disseminata di mughetti. Al loro collo luccicavan monili di monete d’oro; ma esse erano pallide; il loro corpo era contesto di nubi diafane ed eran come traversate dai raggi argentei della luna. La loro cerchia, giocando giocando, gli si avvicinava; egli ne udiva la voce.

— Or via, giochiamo al corvo! giochiamo al corvo! — sussurrarono come le canne baciate, nell’ora blanda del crepuscolo, dalle aeree labbra del vento.

— O chi sarà il corvo?

Gittaron le sorti, e una fanciulla uscì dalla brigata. Levko prese a osservarla. Il viso, le vestimenta non la distinguevan dalle altre; si notava soltanto che compiva di mal animo quella parte. In folla si eran disperse per isfuggire agli attacchi del nemico rapace.

— No; non voglio essere io il corvo! — disse la fanciulla stanca; — mi fa pena il rapire i piccini alle povere madri.

— Tu non sei la strega, — pensò Levko.

— Chi sarà il corvo, allora?

Le fanciulle si raccolsero di nuovo per gittar le sorti.

— Sarò io il corvo, — disse una di loro. Rapida, animosa, ella inseguiva lo stuolo delle fanciulle, correndo ora a dritta, ora a manca per afferrar la vittima. Levko allora osservò che il corpo di lei non era trasparente come quel delle altre. Vi scorgeva entro qualcosa di nero. A un tratto, suona un grido: il corvo si avventa su di una delle annegate, l’agguata, e Levko crede scoprirne gli artigli, mentre sul viso le balenava una gioia malvagia.

— La strega! — esclamò additandola d’improvviso e volgendosi alla casa. [p. 51 modifica]

La giovinetta diè in un riso giocondo, e le annegate trascinaron via colei che rappresentava il corvo.

— Come compensarti, giovine? So che l’oro non ti occorre. Tu ami Anna; ma il barbaro tuo padre ti vieta di sposarla. Oramai egli non potrà più impedirtelo. Prendi questo biglietto e consegnaglielo.

La manina bianca si sporse; il viso le si rassereno, s’irradiò di luce meravigliosa. Con indicibile fremito e con ansioso battito del cuore, Levko afferrò il biglietto e... si destò.


VI.

IL RISVEGLIO.


«Ma, dormivo?» disse fra sè Levko, alzandosi. — Eppure, tutto era così vero, così vivo!... Strano, strano! — ripeteva guardandosi attorno.

La luna, che gli splendeva proprio sul capo, indicava mezzanotte. Silenzio ovunque. Saliva freddo dallo stagno, sulla cui sponda alzavasi tristemente la vecchia casa dalle imposte chiuse. Il musco, le erbe selvatiche attestavano il lungo abbandono. Distese allora la mano, che nel sonno gli si era aggranchita, e gettò un grido di stupore nello scorgervi il biglietto.

— Oh, se sapessi leggere! — pensò rivolgendolo per ogni verso. In quel momento intese dietro uno strepito.

— Coraggio, acchiappatelo! Perchè aver paura? Noi siamo in dieci, e lui, in fin delle fini, è un uomo, non un diavolo! — Così gridava il Capo ai suoi compagni. E Levko si sentì afferrare da parecchie mani, alcune delle quali tremavan dalla paura.

— Su, togli amico, codesta maschera paurosa; basta oramai il prendere in giro la gente! — disse il Capo, prendendolo invece pel collo, e fermandosi stupito dopo aver sbarrato su di lui l’unico occhio. — Levko? Mio figlio? — soggiunse, dando all’indietro per l’attonitaggine e lasciandosi cadere le braccia. — Sei tu, figlio di cane! Or ve’ che bell’arnese! E io che pensava: «Chi sarà quel birbante, quel demonio in pelliccia arrovesciata che gioca simili tiri?» Ed ecco, si scopre che sei tu (che possa [p. 52 modifica]tuo padre affogarsi con un boccone); tu ardisci di mettere a soqquadro le vie, di comporre canzoni!... Eh eh, Levko! Che ti piglia? Ti pare? Si vede che ti prude la schiena. Legatelo!

— Aspetta, babbo; mi hanno ordinato di darti questo biglietto, — disse Levko.

— Non c’è biglietto che valga, piccino mio. Legatelo!

— Aspetta, mastro Capo, — disse lo scrivano, spiegando la carta: — è scrittura del commissario.

— Del commissario?

— Del commissario? — ripetevan macchinalmente i decurioni.

«Del commissario? Strano! Non ci capisco addirittura più niente!» pensò Levko.

— Leggi, leggi pure! — disse il Capo. — Vediamo che può scrivere il commissario.

— Ascoltiamo quel che scrive il commissario, — disse il distillatore, tenendo la pipa fra i denti e battendo l’acciarino sulla silice.

Lo scrivano tossì un poco, e lesse:

«Ordine al Capo Evtuk Makohonenko.

«È giunto a nostra conoscenza che tu, vecchio imbecille, invece di riscuotere le imposte arretrate, e di mantener l’ordine nel villaggio, perdi il senno e commetti ogni sorta di scioccherie...»

— Ma scusa, non ci capisco punto!

Lo scrivano ricominciò:

«Ordine al Capo Evtuk Makohonenko.

«È giunto a nostra conoscenza che tu, vecchio imbe...»

— Basta, basta! È inutile! — esclamò il Capo. — Sebbene non abbia inteso punto, so tuttavia che codesto è un semplice preambolo. Leggi più giù.

«In conseguenza, ti comando di sposar senza indugio alcuno tuo figlio Levko con la cosacca di codesto villaggio Anna Petriicenko, ed anche di far riparare il ponte sulla strada maestra e di non consegnare i cavalli da requisire, senza avermene prima avvertito, a quei signori della giustizia, anche se venissero direttamente di palazzo. E se, al mio arrivo, non trovo eseguito questo ordine, te solo io terrò responsabile. [p. 53 modifica]

«Firmato: Il Commissario, Luogotenente in ritiro Cosimo Derkac — Drispanovskij.»

— Ecco, — disse il Capo a bocca spalancata: — avete inteso? avete inteso? Di tutti questi ordini risponde il Capo. Obbeditemi dunque! Obbeditemi senza fiatare!... Se noi, guai!... In quanto a te, — proseguì, volgendosi a Levko, — sebbene mi paia strano che la cosa sia giunta sino a lui, pure, ti sposo. Però, prima assaggerai la sferza, sai? Quella che è sospesa da noi alla parete vicina alle icone. Te la regalerò domani... Dove hai preso questo biglietto?

Levko, pure sorpreso della piega che prendeva il suo affare, ebbe il buon senso di vòlgere in mente ben altra risposta e di nascondere onde davvero il biglietto era venuto.

— Uscito ieri sera, mi ero recato in città, quando incontrai il Commissario che scendeva di carrozza. Avendo saputo ch’io son di questo villaggio, mi consegnò quel biglietto e mi comandò di dirti a voce, babbo, che al ritorno, lui verrà a desinare da noi.

— Ti ha detto così?

— Mi ha detto così.

— Sentite? — disse il Capo con aria d’importanza, volgendosi ai compagni. — Il commissario in petto ed in persona, verrà da noi, cioè da me, a desinare. Oh!... — E il Capo alzò l’indice e abbassò la testa, come chi ascolti. — Il commissario, sentite? Il commissario verrà da me, in casa mia. Che ne pensi, mastro scrivano? E tu, compare? Non è piccolo onore, non è vero?

— Per quanto io ricordi, — consentiva rincarando lo scrivano, — non c’è stato mai Capo che abbia dato un pranzo al commissario.

— C’è Capo e Capo, — osservò appunto il Capo, pavoneggiandosi: gli si contrasse la bocca, e sulle labbra gli brontolò qualcosa come stentato rauco riso, più somigliante al mugolare d’un tuono lontano.

— Che ne pensi, mastro scriba? Per un ospite come quello bisognerebbe dar ordine che da ogni casa si porti un pollastro, biancheria e altro... almeno. No?

— Bisognerebbe, sicuro, bisognerebbe, mastro Capo.

— E a quando le nozze, babbo? — chiese Levko.

— Le nozze? Te le darò io le nozze!... Basta: in omag[p. 54 modifica]gio a un ospite di tanta importanza, il pope19 vi sposerà domani... Andate al diavolo... Così il commissario vedrà che sia l’esattezza!... Ed ora, figliuoli, andiamo a dormire... Tornate a casa... Il fatto di stanotte mi ricorda il tempo che io...

In questo, il Capo sogguardò come soleva, in aria grave e significativa.

— Andiamo, via; chè ora il Capo vi racconterà come scortò la zariza, — disse Levko, e di buon passo, tutto allegro, si affrettò verso la casa dei ciliegi nani, che conosciamo.

— Dio ti doni il regno dei Cieli, buona e bella signorina! — pensò. — Tutto ti sorrida eternamente nell’altro mondo fra gli angeli santi! Io non confiderò ad alcuno il miracoloso intervento avvenuto stanotte. A te sola, Alias, io dirò. Tu sola vi presterai fede e pregherai per l’anima della infelice annegata.

Si avvicinò alla casetta. La finestra era aperta. I raggi della luna la inondavano; e illuminavano Anna addormentata. Aveva la testa poggiata alla mano; le guance soffuse d’un dolce rossore, le labbra mosse dal mormorar del nome di Levko. «Dormi, bellezza mia! Sogna quanto è di meglio nel mondo; ma non è cosa che vale il nostro risveglio!»

E dopo aver tracciato in aria un segno di croce, chiuse la finestra, e si allontanò senza far rumore.

Pochi minuti dopo, tutto nel villaggio dormiva. Solo la luna ondulava ancora lucente e meravigliosa sul deserto immenso dello splendido cielo di Ukraina. La stessa solennità libravasi sulle alture, e la notte, la notte divina, andavasi maestosamente spegnendo. La terra non era men bella nello splendore della luce argentea; ma nessuno era là ad ammirarla! Tutto era immerso nel sonno. Solo, di tanto in tanto, il silenzio era rotto dall’abbaiare dei cani; e per un pezzo ancora il briaco Kalenik girò per le vie cercando la propria casa.

Note

  1. Letteralmente la testa, vale sindaco, balì, borgomastro. Capo è più rispondente al testo. In russo golova (v. pag. 31).
  2. Strumento a corda, specie di lira.
  3. Khata: capanna, casetta di villaggio, l’isbà russa.
  4. Diminutivo di Anna.
  5. Sorta di caffettano o gabbanello.
  6. Alia: altro diminutivo di Anna, come Anuska.
  7. Giovane ameno, chiassone, un po’ scapestrato, allegro. Vedi appresso il capitolo IV, col titolo I parobkij si divertono.
  8. Sotnik: comandante di una sotnia, compagnia di cento cosacchi.
  9. Contadina, moglie del muzik.
  10. Ballo nazionale di Ukraina.
  11. Assemblea dei capi di famiglia del comune.
  12. In Ukraina usa portar le camicie a guisa di giubbe.
  13. Proprietario rurale, possidente, signore.
  14. Immagini sacre, dal greco.
  15. Festa della Chiesa russa (Intercessione della Vergine), che si celebra il primo ottobre; importante pei contadini quanto il San Giovanni e l’Ognissanti.
  16. Tulup: pelliccia di pecora o di agnello, la cui lana è nell’interno.
  17. Questi versi nel testo sono in due strofette di otto versi, difficili a rendere pel loro gusto popolare e satirico.
  18. Forma di esorcismo: vade retro, Satana!
  19. Prete o curato ortodosso.