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N O V E L L E | 43 |
— Venivo proprio da te, mastro scriba.
— Ed io mi recavo appunto da Tuo Onore, mastro Capo.
— Accadono cose strane, mastro scriba!
— Cose strane, mastro Capo!
— Sì; ma cosa?
— La gioventù si è sfrenata e corre a bande per le vie, mettendo tutto a soqquadro e celebrando Tuo Onore con tali epiteti... ch’è vergogna riferirli. Anche un moscovita si tratterrebbe dal proferirli con la sua linguaccia turpe. — Tutto ciò era detto dallo scrivano allampanato, dai pantaloni a scacchiera e corpetto color feccia di vino, allungando e ritirando il collo, a vicenda. — Avevo fatto appena un sonnellino, quando mi han fatto balzar di letto con l’impudente canzone e il gran baccano; ebbi l’idea di castigarli; ma prima volli pur mettermi calzoni e cappotto; frattanto erano scappati via. Scappato, però, non mi è il caporione. Lui canta adesso nella cella dei malfattori, ben chiuso. Tentai di riconoscer l’uccellaccio; ma aveva la grinta così impiastricciata di sego e nerofumo, da parer un diavolo occupato a fucinar chiodi pei dannati.
— Oh com’è vestito, mastro scriba?
— D’una pelliccia nera rivoltata quel figlio di cane, mastro Capo.
— Non avresti le traveggole per caso, mastro scriba? Colui che tu dici di aver arrestato, è, in questo momento, chiuso nella mia segreta.
— No, mastro Capo; se’ tu, scusami tanto, senza agitarti, che ti inganni.
Via discorrendo, le due brigate insieme se ne andarono alla casa del Capo.
— Qua il lume! Ora vedremo.
Fu portato il lume, aprirono la porta, e il Capo gettò un ah! di stupefazione, nel vedersi davanti la cognata.
— Or dimmi un po’, — fece lei; — non hai perduto quel fil di senno che ti restava? Avevi un tantin di cervello ancora in codesta testaccia guercia quando m’hai spinta nella segreta? Fortuna che non ho dato del capo contro il banco di ferro! Non ti ho gridato: «Son io»? E perchè allora, maledetto orso, mi afferrasti con codeste zampe d’acciaio e mi spingesti? Così ti spinga il demonio all’altro mondo!...