Turandot (Carlo Gozzi)/Atto secondo

Atto secondo

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ATTO SECONDO

Gran Sala del Divano con due portoni l’uno in faccia all’altro. Supponesi, che l’uno apra il passaggio al Serraglio della Principessa Turandot, e che l’altro apra il passaggio agli appartamenti dell'Imperatore, suo padre.



SCENA PRIMA.

Truffaldino, Brighella, Eunuchi, tutti alla Chinese.


Truff. Comanda ai suoi Eunuchi, che spazzino la Sala. Fa erigere due troni alla Chinese l’uno dall’una, l’altro dall’altra parte del Teatro. Fa porre otto sedili per gli otto Dottori del Divano; è allegro, e canta. Brig. Sopraggiunge, chiede la ragione dell’apparecchio. Truff. Che devesi radunare in fretta il Divano coi Dottori, l'Imperatore, e la sua cara Principessa. Per grazia del Cielo le faccende vanno felicemente. È comparso un altro Principe a farsi tagliar la testa. Brig. Esserne perito uno tre ore prima. Rimprovera Truffaldino, che sia allegro per un [p. 240 modifica]macello così barbaro. Truff. Nessuno chiama Principi a farsi mozzare il capo; se sono pazzi volontari, il danno sia di loro ec. Che la sua adorabile Principessa, ogni volta, che confonde un Principe co’ suoi enigmi, e lo manda al suo destino, per l'allegrezza d'esser vittoriosa lo regala, ec. Brig. Abborisce sentimenti tali nel patriota. Detesta la crudeltà della Principessa. Dovrebbe maritarsi e troncar quella miseria ec. Truff. Che a non volersi maritare ha ragione ec. Sono seccature indiscrete ec. Brig. Che parla da Eunuco inutile ec. Tutti gli eunuchi odiano i matrimoni ec. Truff. Collerico, che odia i matrimoni, temendo, che producano dei Brighelli. Brig. Irritato; ch'è un galantuomo ec. Che le sue massime sono perniziose, che, se sua madre non si fosse maritata non sarebbe nato. Truff. Che mente per la gola. Sua madre non fu mai maritata, ed egli è nato felicemente. Brig. Si vede, ch'egli è un partorito contro le buone regole. Truff. Ch'egli è capo degli Eunuchi; non venga ad impedir gli affari suoi, e vada, giacch'è maestro dei Paggi, a fare il suo dovere; ma ch'egli sa, che insegna delle belle cose ai Paggi a proposito dei matrimoni ec. Mentre il contrasto dura tra questi due personaggi, gli Eunuchi avranno assettata la sala. Odesi una marcia di strumenti. E l'Imperatore, che giugne nel Divano colla Corte, e coi Dottori. Brighella parte per rispetto; Truffaldino coi suoi Eunuchi per andar a levare la sua cara Principessa. [p. 241 modifica]

SCENA SECONDA.


Al suono d’una marcia escono le guardie alla Chinese; indi gli otto Dottori, poscia Pantalone, Tartaglia, e dopo Altoum Can. Tutti sono alla Chinese. Altoum è un vecchione venerando, riccamente vestito anch’egli alla Chinese. Al suo comparire tutti si gettano colla fronte per terra. Altoum sale, e siede sul trono, posto alla parte da dove è uscito. Pantalone e Tartaglia si mettono uno per parte del trono. I Dottori siedono sopr’ai loro sedili. Termina la marcia.


Alt. E sino a quando, miei fedeli, deggio
     Sofferir tali angoscie? Appena... appena
     Le dovute funebri opre hanno fine
     D’un infelice Principe sull’ossa,
     E sull’ossa di lui mi struggo in lagrime;
     Nuovo oggetto s’espone, nuove angosce
     Destando in questo sen. Barbara figlia,
     Nata per mio tormento! Che mi vale
     Il punto maledir, che sull’editto
     Al tremendo Confuzio il giuramento
     Feci solennemente di eseguirlo?
     Spergiuro esser non posso. Non si spoglia
     Di crudeltà mia figlia. Mai non mancano
     Stolti amanti ostinati, e non ritrovo
     Mai chi doni consiglio in tanta doglia.
Pant. Cara Maestà, no saveria che consegio darghe.
     In tei nostri paesi no se zura de sta sorte
     de legge. No se fa de sta qualità de editti. No
     ghe esempio, che i Prencipi se innamora de un
     retrattin, a segno de perder la testa per l’original,

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     e no nasce putte, che odia i omeni, come
     la Prencipessa Turandot, so fia. Oibò, no ghe
     xe idea da nu de sta sorte de creature, gnanca
     per sogno. Prima che le mie desgrazie me facesse
     abbandonar el mio paese, e che la mia
     fortuna me innalzasse senza merito all’onor de
     secretario de vostra Maestà, no aveva altra cognizion
     della China, se no che la fusse una
     polvere bonissima per la freve terzana, e son
     sempre, come un omo incocalio de aver trovà
     quà de sta sorte de costumi, de sta sorte de
     zuramenti, e de sta sorte de putti, e de putte.
     Se contasse sta istoria a Venezia, i me diria:
     Via, sier bomba, sier slappa, sier panchiana,
     andè a contar ste fiabe ai puttelli; i me rideria
     in tel muso, e i me volteria tanto de bero.
Alt. Tartaglia, foste a visitar il nuovo
     Temerario infelice?
Tart. Maestà sì; è quì nelle solite stanze del palagio,
     che s’assegnano a’ Principi forestieri. Sono
     rimasto stupefatto della sua bella presenza, della
     sua dolce fisonomia, della sua maniera nobile
     di favellare. In vita mia non ho veduta la più
     degna persona. Ne sono innamorato, e mi sento
     strappare il cuore, che venga ad esporsi al macello,
     come un becco, un Principe così bello,
     così buono, così giovane... (piange)
Alt. Oh indicibil miseria! Già eseguiti
     Saranno i sacrifizi, onde dal Cielo
     Sia soccorso il meschin di tanto lume

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     Da penetrare, da discior gli oscuri
     Enigmi della barbara mia figlia?
     Ah invan lo spero!
Pant. La pol star certa, Maestà, che non s’ha mancà
     de sacrifizi. Cento manzi xe stai sacrificai al
     Cielo, cento cavalli al Sol, e cento porchi alla
     Luna. (a parte) Mi po no so cossa se possa
     sperar da sta generosa beccaria imperial.
Tart. (a parte) Sarebbe stato meglio sacrificare
     quella porchetta della Principessa. Ogni disgrazia
     sarebbe finita.
Alt. Or ben, quì si conduca il nuovo Prence. (parte una guardia)
     Si procuri distorlo dal cimento;
     E voi, saggi Dottori del Divano,
     Ministri fidi m’assistete, dove
     Il dolor mi troncasse la favella.
Pant. Gavemo tante esperienze, che basta, Maestà.
     Se sfiataremo de bando, e po l’anderà a farse
     sgargatar, come un dindio.
Tart. Senti, Pantalone. Ho conosciuto in lui della
     virtù, e dell’acume; non sono senza speranza.
Pant. Che! che el spiega le indovinelle de quella
     cagna? oh fallada la xe!


SCENA TERZA.

Calaf accompagnato da una guardia, e detti.


Cal. (s’inginocchierà con una mano alla fronte)
Alt. Sorgi, incauto garzon. (Calaf s’alza, e fatto

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     un inchino, si pianta con nobiltà nel mezzo
     al Divano tra i due troni verso all'Uditorio.
     Altoum segue a parte dopo aver contemplato
     fissamente Calaf
) Che bella idea!
     Quanta compassion mi desta in seno!
     Dimmi, infelice, donde sei? Di quale
     Principe sei figliuolo?
Cal. (sorpreso alquanto, indi con inchino nobile) Signor, per grazia
     Il mio nome stia occulto.
Alt. E come ardisci,
     Senza dirmi la nascita, d’esporti
     A pretender le nozze di mia figlia?
Cal. (con grandezza) Principe son. Se ’l Ciel vorrà, ch’io mora,
     Prima del fatal punto fia palese
     Il mio nome, la nascita, lo stato,
     Perchè si sappia allor, che all’alto nodo.
     Senza sangue reale in queste vene,
     D’aspirar non avrei temeritade.
     (con inchino) Grazia è per or, che ’l nome mio stia occulto.
Alt. (a parte) Che nobiltà di favellare! Oh quanta
     Compassion mi desta! (alto) Ma, se sciogli
     Gli oscurissimi enigmi, e di non degna
     Nascita sei, come potrò la legge?...
Cal. (interrompendolo arditamente) Per i Principi sol scritta è la legge.
     Signor... oh ’l Ciel lo voglia... allor, s’io sono
     D’ignobil stirpe, il capo mio la pena

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     Paghi sotto una scure, ed insepolte
     Sien queste membra pascolo alle fere,
     A’ cani, alle cornacchie. Ho già in Pechino
     Chi mi conosce, e l’esser mio può dirvi.
     (con inchino) Grazia è per or, che ’l nome mio stia occulto.
     Alla vostra clemenza in grazia il chiedo.
Alt. Abbi tal grazia in dono. Io non potrei
     A quella voce, alle tue belle forme
     Nulla negar. Così disposto fossi
     Grazia tu a fare ad un Imperatore,
     Che dall’alto suo seggio a te la chiede.
     Desisti, deh desisti dal cimento,
     A cui t’esponi. Tanta simpatia
     Di te mi prende, che del mio potere
     A te tutto esibisco. Sii compagno
     Di me nel Regno, ed al serrar quest’occhi
     Ogni possibil mia beneficenza
     Da quest’animo attendi. Non volere,
     Ch’io sia tiranno a forza. Io son l’obbrobrio,
     Per l’incautela mia, di tutti i sudditi.
     Anima audace, se pietà può nulla
     Sopra di te, non obbligarmi a piangere
     Sul cadavere tuo. Non far, che accresca
     L’odio a mia figlia, l’odio a me medesmo
     D’aver prodotta una perversa figlia,
     Orgogliosa, crudel, vana, ostinata,
     Cagion d’ogni mia angoscia, e della morte. (piange)
Cal. Sire, datevi pace. Al Cielo è nota

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     La pietade, ch’io sento. D’un tal padre,
     Qual siete voi, da educazion non ebbe
     D’esser tiranna esempio vostra figlia.
     Non ricerchiam di più. Colpa è in voi solo,
     Se colpa dir si può, tenero affetto
     Verso un’unica figlia, e d’aver data
     Al mondo una bellezza sì possente,
     Che trae l’uom di se stesso. Io vi ringrazio
     De’ generosi sentimenti vostri.
     Mal vi sarei compagno. O ’l Ciel felice
     Mi vuol, di Turandot a me diletta
     Donandomi ’l possesso, o vuol, che questa
     Misera vita, insofferibil peso
     Senza di Turandot, abbia il suo fine.
     Morte pretendo, o Turandotte in sposa.
Pant. Ma, cara Altezza, cara vita mia, averè za
     visto sora la porta della Città tutte quelle
     crepe de morto impirae, no vo digo de più.
     No so che gusto, che abbiè a vegnirve a far
     scannar, come un cavron, con sicurezza, per
     farne pianzer, come desperai tutti quanti. Sappiè,
     che la Principessa ve farà un impianto de
     tre indovinelle, che no le spiegheria el strolego
     Cingarello. Nu, che semo da tanto tempo deputai
     con sti Eccellentissimi Dottori del Divan
     a dar sentenza de chi spiega ben, e de chi
     spiega mal, per far eseguir la legge, pratici,
     consumai sui libri, stentemo all’improvviso a
     arrivar all’acutezza dei enigmi de sta Principessa
     crudcl, perchè no i xe minga: panza

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     de ferro, bacile de bombaso, e va descorrendo;
     i xe novi de trinca e maledetti; e, se no la li
     consegnasse proposti, spiegai, e sigillai in tante
     cartoline a sti Eccellentissimi Dottori, forsi
     gnanca elli saveria, dove i avesse la testa. Andè
     in pase, caro fio. Se’ là, che parè un fior; me
     fè’ peccà. Varenta al ben, che ve vogio, che se
     ve ostine, fazzo più conto d’un ravanello del
     gobbo ortolan, che della vostra testa.
Cal. Vecchio, invan t’affatichi, invan ragioni.
     Morte pretendo, o Turandotte in sposa.
Tart. Turandotte... Turandotte. Ma che diavolo
     di ostinazione, caro figlio mio. Intendi bene.
     Qui non si giuoca a indovinare colla scommessa
     d’un caffè col pandolo, o di mezza cioccolata
     colla vaniglia. Capisci, capisci una volta; quì
     ci va la testa. Io non uso altri argomenti per
     persuaderti a desistere. Questo è grande. La
     testa, la testa ci va; la testa. Sua Maestà ti
     prega, ha fatto sacrificare cento cavalli al Sole,
     cento buoi al Cielo, cento porci alla Luna,
     cento vacche alle Stelle in tuo favore, e tu,
     ingrato, vuoi resistere per dargli questo rammarico.
     Se non vi fossero altre femmine al
     mondo, che la Principessa Turandotte, la tua
     risoluzione sarebbe ancora una gran bestialità.
     Scusa, caro Principe mio. In coscienza è l’amore,
     che mi fa parlare con libertà. Hai tu ben capito,
     che cosa sia il perdere la testa? mi par
     impossibile.

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Cal. Troppo dicesti. È vana ogni fatica.
     Morte pretendo, o Turandotte in sposa.
Alt. Crudel, ti sazia; abbi la morte, ed abbi
     La mia disperazion. (alle guardie) La Principessa
     Entri al cimento nel Divan; s’appaghi
     D’una vittima nuova. (parte una guardia)
Cal. (da se con fervore) Eterni Numi,
     M’ispirate talento. Non m’opprima
     La vista di costei. Io vi confesso,
     Che vacilla la mente, e che tremore
     Ho nel sen, dentro al core, e sulle labbra.
     (all’assemblea) Sacro Divan, saggi Dottori, giudici
     Nelle risposte mie della mia vita.
     Scusate tanto ardir; clemenza abbiate
     Per un cieco d’amor, che non conosce
     Dove sia, quanto vaglia, e s’abbandona
     Tratto da occulta forza al suo destino.


SCENA QUARTA.


Udrassi il suono d’una marcia, intrecciato con tamburelli. Uscirà Truffaldino con la scimitarra alla spalla, i suoi Eunuchi lo seguiranno. Dietro a questi usciran varie Schiave di accompagnamento con tamburelli suonando. Dopo usciranno due schiave velate, una vestita riccamente e maestosamente alla Tartara, che sarà Adelma, l’altra passabilmente alla Chinese, che sarà Zelima. Questa avrà un picciolo bacile con fogli suggellati. Truffaldino e gli Eunuchi nel passar difilati si getteranno colla faccia a terra innanzi ad Altoum, poi sorgeranno. Le schiave s’inginocchieranno colla mano alla fronte. Uscirà Turandotte [p. 249 modifica]velata, vestita riccamente alla Chinese, con aria grave, e baldanzosa. I Dottori, e i Ministri, si getteranno colla faccia a terra. Altoum si leverà in piedi. Turandotte si porrà una mano alla fronte, e farà un’inchino grave al padre, indi salirà il suo trono, e siederà. Zelima si porrà al suo fianco sulla sinistra, Adelma alla destra. Calaf, che si sarà inginocchiato alla comparsa di Turandot, si rizzerà, e rimarrà incantato in essa. Tutti torneranno a’ lor posti. Truffaldino, eseguite alcune cerimonie facete a suo modo, prenderà il bacile di Zelima coi fogli suggellati: li dispenserà ai Dottori, e si ritirerà dopo altre cerimonie e riverenze Chinesi. Durante tutte queste solennità mute, si sarà suonata la marcia. Al partire di Truffaldino rimarrà la gran Sala del Divano in silenzio.


SCENA QUINTA.

Altoum, Torandot, Calaf, Zelima, Adelma, Pantalone, Tartaglia, Dottori e guardie.


Tur. (alteramente) Chi è, che si lusinga audacemente
     Di penetrar gli acuti enigmi ancora
     Dopo sì lunga esperienza; e brama
     Miseramente di lasciar la vita?
Alt. Figlia, egli è quello; (addita Calaf, che
     sarà attonito nel mezzo del Divano in piedi)
     E ben degno sarebbe,
     Che tuo sposo il scegliessi, e che finissi
     D’esporlo al gran cimento, lacerando
     Di chi ti diè la vita il core afflitto.
Tur. (dopo aver mirato alquanto Calaf basso a Zelima)
     Zelima, oh Cielo! alcun oggetto, credi,
     Nel Divan non s’espose, che destasse

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     Compassione in questo sen. Costui
     Mi fa pietà.
Zel. (basso) Di tre facili enigmi
     Lo caricate, e terminate ornai
     D’esser crudel.
Tur. (con sussiego, basso) Che dici! La mia gloria!
     Temeraria, tant’osi?
Adel. (che avrà osservato Calaf attentamente, da se)
     Oh Ciel! che miro!
     Non è costui quel, ch’alla Corte mia
     De Carazani un dì vil servo io vidi,
     Quando vivea Cheicobad, mio padre?
     Principe è dunque! Ah ben mel disse il core,
     Quel cor, ch'è suo.
Tur. Principe, desistete
     Dall’impresa fatale. Al Cielo è noto,
     Che quelle voci, che crudel mi fanno,
     Son menzognere. Abborrimento estremo
     Ch’ho al sesso vostro, fa, ch’io mi difenda,
     Com’io so, com’io posso, a viver lunge
     Da un sesso, che abborrisco. Perchè mai
     Di quella libertà, di che disporre
     Dovria poter ognun, dispor non posso?
     Chi vi conduce a far, ch’io sia crudele
     Contro mia volontà? Se vaglion prieghi,
     Io m’umilio a pregarvi. Desistete,
     Principe, dal cimento. Non tentate
     Il mio talento mai. Superba sono
     Di questo solo. Il Ciel mi diè in favore

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     Acutezza e talento. Io cadrei morta,
     Se nel Divan con pubblica vergogna
     Fossi vinta d’acume. Ite, scioglietemi
     Dal proporvi gli enigmi; ancora è tempo;
     O piangerete invan la morte vostra.
Cal. Sì bella voce, e sì bella presenza,
     Sì raro spirto, e insuperabil mente
     In una donna! Ah qual’error è mai
     Nell’uom, che mette la sua vita a rischio
     Per possederla? E di sì raro acume
     Turandotte si vanta? E non iscopre.
     Che quanto i merti suoi sono maggiori,
     Che quant’avversa è più d’esser d’uom moglie,
     Arder l’uomo più deve? Mille vite,
     Turandotte crudele, in questa salma
     Fossero pur. Io core avrei d’esporle
     Mille volte a un patibolo per voi.
Zel. (bassa a Turandot) Ah facili gli enigmi per pietade.
     Egli è degno di voi.
Adel. (a parte) Quanta dolcezza!
     Oh potess’esser mio! Perchè non seppi,
     Ch’era Prence costui, prima che schiava
     Mi volesse fortuna, e in basso stato!
     Oh quanto amor m’accende or che m'è noto,
     Ch’egli è d’alto lignaggio! Ah che non manca
     Mai coraggio ad amor. (basso a Turandot) La gloria vostra
     Vi stia a cor, Turandot.
Tur. (perplessa da se) E questo solo

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     Ha forza dì destar compassione
     In questo sen? (risoluta) No, superarmi io deggio.
     (a Calaf con impeto) Temerario, al cimento t’apparecchia.
Alt. Principe, insisti ancor?
Cal. Signor, già ’l dissi.
     Morte pretendo, o Turandotte in sposa.
Alt. Il decreto fatal dunque si legga
     Pubblicamente; egli l’ascolti e tremi. (Pantalone caverà dal seno il libro della legge, lo bacierà, se lo porrà sul petto, poi alla fronte, indi lo presenterà a Tartaglia, il quale gettandosi prima colla fronte a terra, lo riceverà, poscia leggerà ad alta voce)
     Ogni Principe possa Turandotte
     Pretender per consorte; ma disciolga
     Prima tre enigmi della Principessa
     Tra i Dottor nel Divano. Se gli spiega
     L’abbia per moglie. Se non è capace,
     Sia condannato in mano del carnefice,
     Che gli tronchi la testa, sicchè muoia.
     Al tremendo Confuzio Altoum Can
     D’eseguire il decreto afferma e giura.
     (Terminata la lettura, Tartaglia bacierà il libro, se lo porrà sul petto, e sulla fronte, e lo riconsegnerà a Pantalone, il quale ricevutolo colla fronte per terra, si rizzerà,

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     e lo presenterà ad Altoum, il quale, levata una mano, gliela porrà sopra)
Alt. (con sospiro) O legge! O mio tormento! D’eseguirti
     Al tremendo Confuzio affermo e giuro.
     (Pantalone si porrà di nuovo il libro in seno. Il Divano sarà in un gran silenzio, Turandotte si leverà in piedi)
Tur. (in tuono accademico)
     Dimmi, stranier: chi è la creatura
     D’ogni città, d’ogni castello, e terra,
     Per ogni loco, ed è sempre sicura.
     Tra gli sconfitti, e tra i vincenti in guerra?
     Notissima ad ogn’uomo è sua figura,
     Ch’ella è amica di tutti in sulla terra.
     Chi eguagliarla volesse è in gran follia.
     Tu l’hai presente, e non saprai chi sia. (siede)
Cal. (dopo aver guardato il Cielo in atto di pensare, fatto un inchino colla mano alla fronte verso Turandot)
     Felice me, se di più oscuri enigmi
     Il peso non mi deste! Principessa,
     Chi non saprà, che quella creatura
     D’ogni città, d’ogni castello, e terra,
     Che sta con tutti, ed è sicura sempre
     Tra gli sconfitti, e tra i vittoriosi,
     Palese al mondo, che non soffre eguali,
     E ch’ho presente (il sofferite) è il Sole?

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Pant. (allegro) Tartagia, el l’ha imbroccada.
Tart. Di pianta nel mezzo.
     (tutti i Dottori aprono la prima carta suggellata, indi in coro)
     Ottimamente. È ’l Sole, è ’l Sole, è ’l Sole.
Alt. (allegro) Figlio, al Ciel t’accomando a’ nuovi enigmi.
Zel. (a parte) Soccorretelo, o Numi.
Adel. (agitata a parte) O Ciel, t’opponi;
     Fa, che non sia di Turandotte sposo.
     Io mi sento morir.
Tur. (sdegnosa da se) Che costui vinca!
     Che superi ’l mio ingegno! Eh non fia vero.
     (alto) Folle, m’ascolta pur; spiega i miei sensi.
     (si leva in piedi, e segue in tuono accademico)
     L’albero, in cui la vita
     D’ogni mortai si perde,
     Di vecchiezza infinita,
     Sempre novello, e verde,
     Che bianche ha le sue foglie
     Dall’una parte, e allegre;
     Bianchezza si discioglie;
     Son nel rovescio negre.
     Stranier, dì in cortesia
     Quest’albero qual sia. (siede)
Cal. (dopo qualche raccoglimento, e fatto il solito inchino)
     Non isdegnate, altera Donna, ch’io
     Disciolga i vostri enigmi. Questa pianta

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     Antichissima, e nuova, in cui si perde
     La vita de’ mortali: e c’ha le foglie
     Bianche al di sopra, e dal rovescio negre.
     Co’ giorni suoi, colle sue notti è l’anno.
Pant. (allegro) Tartagia, el ga dà drento.
Tart. Sì in coscienza, di brocca, di brocca.
     (tutti i Dottori in coro, dopo aver aperta l’altra carta suggellata)
     Ottimamente: è l’anno, è l’anno, è l’anno.
Alt. (lieto) Quanta allegrezza! O Numi, al fin pervenga.
Zel. (a parte) Fosse l’ultimo questo!
Adel. (smaniosa a parte) Oimè! Lo perdo.
     (basso a Turandot) Signora, ogni trionfo in un sol punto
     Perdete nel Divan. Costui vi supera.
Tur. (sdegnosa basso) Taci. Pria cada il mondo,
     e l’uman genere
     Tutto perisca. (alto) Sappi, audace, stolto,
     Ch’io t’abborisco più, quanto più speri
     Di superarmi. Dal Divan te n’esci;
     Fuggi l’ultimo enigma; il capo salva.
Cal. L’odio vostro, adorata Principessa,
     Sol mi rincresce. Il capo mio sia tronco.
     Se della pietà vostra non è degno.
Alt. Desisti, caro figlio, o tu, mia figlia.
     Desisti di propor novelli enigmi.
     Sia tuo Sposo costui, che tutto merta.
Tur. (collerica) Mio sposo! ch’io desista! Quella legge
     Si de’ eseguir.

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Cal. Signor, non v’affannate.
     Morte pretendo, o Turandotte in sposa.
Tur. (sdegnosissima) Sposa tua fia la morte. Or lo vedrai.
     (si leva in piedi, e segue in tuono accademico)
     Dimmi, qual sia quella terribil fera
     Quadrupede, ed alata, che pietosa
     Ama chi l’ama, e co’ nimici è altera,
     Che tremar fece il mondo, e che orgogliosa
     Vive, e trionfa ancor. Le robuste anche
     Sopra l’istabil mar ferme riposa;
     Indi col petto, e le feroci branche
     Preme immenso terren. D’esser felice
     Ombra, in terra ed in mar, mai non son stanche
     L’ali di questa nuova altra fenice.
     (recitato l’enigma, Turandotte furiosa si lacera dal viso il velo per sorprender Calaf)
     Guardami ’n volto, e non tremar. Se puoi,
     Spiega, chi sia la fera, o a morte corri.
Cal. (sbalordito) Oh bellezza! Oh splendor!
     (resta sospeso colle mani agl’occhi)
Alt. (agitato) Oimè, si perde!
     Figlio, non sbigottirti; in te ritorna.
Zel. (a parte affannosa) Io mi sento mancar.
Adel. (a parte) Stranier, sei mio.
     Mi sarà guida amor per involarti.
Pant. (smanioso) Anemo, anemo, fio. Oh se podesse aiutarlo! me trema le tavernelle, che el se perda.

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Tart. Se non fosse per il decoro del posto, anderei
     a prendere il vaso dell’aceto in cucina.
Tur. Misero, morto sei. Della tua sorte
     Te medesmo condanna.
Cal. (rientrando in sè stesso) Turandotte,
     Fu la bellezza vostra, che mi colse
     Improvviso, e confuse. Io non son vinto.
     (volgendosi all’uditorio)
     Tu, quadrupede Fera, e in uno alata,
     Terror dell’universo, che trionfi,
     E vivi in terra, e in mare, ombra facendo
     Colle immense ali tue grata, e felice
     All’elemento instabile, e alla terra,
     Agl’illustri tuoi figli, e cari sudditi,
     Nuova fenice, è ver. Fera beata,
     Sei dell'Adria il Leon feroce, e giusto.
Pant. (con trasporto) Oh siestu benedetto. No me posso più tegnir. (corre ad abbracciarlo)
Tart. (ad Altoum) Maestà consolatevi.
     (i dottori aprono il terzo foglio sigillato, indi in coro)
     È dell'Adria il Leone; è vero, è vero.
     (odonsi degli evviva allegri del popolo, e uno strepito grande di strumenti. Turandot cade in isfinimento sul trono. Zelima e Adelma l’assistono)
Zel. Datevi pace, Principessa. Ha vinto.
Adel. (a parte) Ahi perduto amor mio... No, non sei perso.
     (Altoum allegro discende dal trono,

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     assistito da Pantalone e da Tartaglia. I Dottori si ritirano in fila nel fondo del teatro)
Alt. Finisci, figlia, d’essermi tiranna
     Colle tue stravaganze. Amato Prence,
     Vieni al mio sen. (abbraccia Calaf. Turandot rinvenuta precipita furente dal trono)
Tur. (invasata) Fermatevi. Non speri
     Costui d’esser mio sposo. Io nuovamente
     Pretendo di propor tre nuovi enigmi
     Al nuovo giorno. Troppo breve tempo
     Mi fu dato al cimento. Io non potei
     Quanto dovea riflettere. Fermate...
Alt. (interrompendola) Indiscreta, crudel! Non è più tempo;
     Più facil non m’avrai. La dura legge
     E già eseguita, ed a Ministri miei
     La sentenza rimetto.
Pant. La perdoni. No gh'è bisogno de altre
     indovinelle, ne de tagiar altre teste, come se
     le fusse zucche baruche. Sto putto ha indovinà.
     La legge xe esequìda, e avemo da magnar sti
     confetti, (a Tartaglia) Cossa diseu vu, Cancellier?
Tart. Eseguitissima. Non v'è bisogno d’interpretazioni.
     Che dicono gli Eccellentissimi Signori Dottori?
     (Tutti i Dottori) È consumata, è consumata, è sciolta.
Alt. Dunque al Tempio si vada. Quest’ignoto
     Riconoscer si faccia, e i Sacerdoti...

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Tur. (disperata) Ah, padre mio, deh per pietà sospendasi...
Alt. (sdegnoso) Non si sospenda; io risoluto sono.
Tur. (precipitando ginocchioni) Padre, per quanto
     amor, per quanto cara
     V'è questa vita, al nuovo dì concedasi
     Nuovo cimento ancora. Io non potrei
     Sofferir tal vergogna. Io morrò, prima
     D’assoggettarmi a quest’uomo superbo,
     Pria d’esser moglie. Ahi questo nome solo
     D’esser consorte ad uom, solo il pensiero
     D’esser soggetta ad uom, lassa, m’uccide. (piange)
Alt. (collerico) Ostinata, fanatica, brutale;
     Più non t’ascolto. Olà, ministri, andate.
Cal. Sorgi, di questo cor bella tiranna.
     Signor, deh per pietade sospendete
     Gli ordini vostri. Io non sarò felice,
     S’ella m’abborre, ed odia. L’amor mio
     Non potria sofferir d’esser cagione
     Del suo tormento. Che mi val l’affetto,
     Se d’odio solo la mia fiamma è degna?
     Barbara tigre, s’io non ammollisco
     Quell’anima crudel, sta lieta, e godi;
     Io non sarò tuo sposo. Ah, se vedessi
     Questo cor lacerato, io certo sono,
     Che n’avresti pietà. Della mia morte
     Ingorda sei? Signor, le si conceda
     Nuovo cimento; io questa vita ho a sdegno.
Alt. No; risoluto son. Vadasi al Tempio:
     Non si conceda altro cimento... incauto...

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Tur. (impetuosa) Vadasi al Tempio pur; ma sopra l'Ara
     Spirerà vostra figlia.
Cal. Spirerà!
     Mio Signor... Principessa, d’una grazia
     Ambi fatemi degno. Al nuovo giorno
     Quì nel Divano io proporrò un enigma
     All’indomito spirto, e questo fia:
     Di chi figlio è quel Principe, e qual nome
     Porta lo stesso Principe, ridotto
     A mendicar il pane, a portar pesi
     A prezzo vil, per sostener la vita;
     Che giunto al colmo di felicitade
     È sventurato ancor più, che mai fosse?
     Diman quì nel Divano, alma crudele.
     Del padre il nome, e ’l nome del dolente
     Indovinate. Se non v'è possibile,
     Traete fuor d’angoscia un infelice;
     Non mi negate quell’amata destra;
     S’ammollisca quel cor. Se indovinate.
     Sazia della mia morte, e del mio sangue
     Sia quell’alma feroce, insuperabile.
Tur. Straniero, il patto accetto, e mi contento.
Zel. (a parte) Nuovo periglio ancor.
Adel. (a parte) Nuova speranza.
Alt. Contento non son io. Nulla concedo.
     S’eseguisca la legge.
Cal. (inginocchiandosi) Alto Signore,
     S’io nulla merto, se pietà in voi regna,
     Appagate la figlia, e me appagate.

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     Deh non manchi da me, ch’ella sia sazia,
     Quello spirto si sfoghi. S’ella ha acume,
     Quanto ho proposto nel Divan dispieghi.
Tur. (a parte) Io m’affogo di sdegno. Ei mi dileggia.
Alt. Imprudente, che chiedi! Tu non sai.
     Quanto ingegno è in costei... Ben: vi concedo
     Questo cimento nuovo. Sciolta sia
     D’esser tua sposa, s’ella i nomi espone.
     Ma non concedo già nuove tragedie.
     Salvo te n’anderai, s’ella indovina.
     Più non pianga Altoum le altrui miserie.
     (basso a Calaf) Seguimi... incauto, che facesti mai!
(Ripigliasi un suono di marcia. Altoum con le guardie, i Dottori, Pantalone e Tartaglia con gravità entrerà per il portone, dal quale è uscito. Turandotte, Adelma, Zelima, Truffaldino, Eunuchi e schiave con tamburelli entreranno per l’altro portone.)