Turandot (Carlo Gozzi)/Atto primo
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ATTO PRIMO
Veduta d’una porta della Città di Pechino, sopra la quale ci sieno molte aste di ferro piantate; sopra queste si vedranno alcuni teschi fitti, rasi, col ciuffo alla Turca.
SCENA PRIMA.
Calaf uscendo da una parte, indi Barach.
Cal. Anche in Pechin qualch’animo cortese
Pur dovea ritrovar
Bar. (uscendo dalla città) Oimè! che vedo!
Il Principe Calaf! come! ed è vivo?
Cal. (sorpreso) Barach.
Bar. Signor...
Cal. Tu qui!
Bar. Voi quì! voi vivo!
Cal. Taci; non palesarmi per pietade.
Dimmi, come sei qui?
Bar. Dopo la rotta
Dell’esercito vostro sfortunato
Sotto Astracan, veggendo i Nogaesi
Fuggir sconfitti, e ’l barbaro Sultano
Di Carizmo feroce, usurpatore
Del regno vostro, già vittorioso
Scorrer per tutto, in Astracan ferito
Mi ritrassi dolente. Quivi intesi,
Che ’l Re Timur, genitor vostro, e voi
Morti eravate nel conflitto. Io piansi.
Corro alla Reggia per salvar Elmaze,
Vostra madre infelice; e invan la cerco.
Già ’l Soldan di Carizmo furioso,
Senza trovar chi s’opponesse, entrava
In Astracan coi suoi. Io disperato
Fuggii dalla Città. Peregrinando
Più mesi andai. Quì in Pechin giunsi, e quivi
Sotto nome di Assan, in Persia nato,
A una vedova donna m’abbattei
D’oppression colma, sfortunata; ed io
Coi miei consigli, e con alcune gemme,
Che avea, vendendo in suo favor, lo stato
Dell’infelice raddrizzai. Mi piacque;
Ella ebbe gratitudine; mia sposa
Divenne alfin, e la mia sposa istessa
Persian mi crede ancora, Assan mi chiama,
E non Barach. Qui vivo coi suoi beni.
Povero a quel, che fui, ma fortunato
In questo punto son, dappoichè in vita
Il Principe Calaf, quasi mio figlio
Da me allevato, io miro, e morto il piansi.
Ma come vivo, e come quì in Pechino?
Cal. Barach, non nominarmi. Il dì funesto,
Dopo il conflitto, in Astracan col Padre
Corsi alla Reggia, e delle miglior gemme
Fatto fardello, con Timur, e Elmaze,
Miei genitor, di panni villerecci
Travestiti, fuggimmo prontamente.
Per i deserti, e per l’alpestri roccie
N’andavamo celati. Oh Dio! Barach,
Quante miserie, e quanti patimenti!
Sotto ’l monte Caucaseo i malandrini
Ci spogliaron di tutto; e i nostri pianti
Sol dono della vita hanno ottenuto.
Con la fame, la sete, ogni disagio
Era compagno nostro. Il vecchio padre
Or sugli omeri miei per alcun tempo,
Or la tenera Madre via portando,
Seguivamo il viaggio. Cento volte
Trattenni il genitor, che disperalo
Uccidersi volea. Ben altrettante
Cercai la madre ritornar in vita,
Per languidezza, e per dolor svenuta.
Alla Città d’Jaich giugnemmo un giorno.
Quivi, piangendo, io stesso, in sulle porte
Delle Moschee, chiedea pien di vergogna.
Nelle botteghe, e per le vie cercando
Tozzi di pane, e picciole monete,
Miseramente i genitor sostenni.
Odi sventura. Il barbaro Sultano
Di Carizmo crudel, non ancor pago
Della fama, che morti ci faceva,
Non ritrovando i nostri corpi estinti,
Ricche taglie promise a chi recasse
I capi nostri. Lettere ai Monarchi
Con lumi, e contrassegni ebbe spedite,
Con le quali chiedea di noi le teste.
Tu sai, quanto è quel fier da ognun temuto,
Se un caduto Monarca è più infelice
Per i sospetti, di qualunque uom vile,
E quanto val politica di stato.
Un provvido accidente mi fè noto,
Che ’l Re d’Jaich per tutta la Cittade
Cercar facea di noi secretamente.
Ai genitori miei corsi veloce;
Gli animai per la fuga. Il padre mio
Pianse, e la madre pianse, e in braccia a morte
Voleano darsi. Amico, oh qual fatica
L’anime disperate è a porre in calma,
Del Ciel gli arcani, ed i decreti suoi
Ricordando, e pregando! Alfin fuggimmo,
E nuove angosce, e nuove inedie, e nuovi
Patimenti soffrendo...
Bar. (piangendo) Deh, Signore,
Non dite più; sento, che ’l cor mi scoppia.
Timur, il mio Monarca a tal ridotto
Con la sposa, e col figlio! Una famiglia
Real, la più clemente e prode, e saggia,
In tal mendicità! Deh dite: Vive
Il mio Re, la sua sposa?
Cal. Sì, Barach,
Vivono tuttidue. Lascia, ch’io narri
A qual triboiazion soggetto è l’uomo,
Benchè nato in grandezza. Un’alma forte
Tutto de’ sofferir. De’ ricordarsi,
Che, a petto a’ Numi, ogni Monarca è nulla,
E che costanza, e obbedienza solo
Ai decreti del Ciel fa l’uom di pregio.
De’ Carazani al Re fummo, ed in Corte
Nei più bassi servigi m’adattai
Per sostenere i genitori. Adelma,
Del Re Cheicobad de’ Carazani,
Avea di me qualche pietade, e parmi
Poter assicurar, ch’ella sentisse
Più, che pietà per me. Co’ sguardi suoi
Parea, che penetrasse, ch’io non era
Nato, quale apparia. Ma non so, quale
Puntiglio il padre suo mosse a far guerra
Ad Altoum, Gran Can qui di Pechino.
Stolti furo i racconti, che dal volgo
Venieno fatti per tal guerra, e solo
So, che fu ver, che ’l Re Cheicobad
Fu vinto, e desolato, e che fu estinta
Tutta la stirpe sua, che Adelma stessa
Morì in un fiume. Così fama sparse.
Anche da’ Carazani via fuggimmo
Per fuggir strage, ed il furor di guerra.
Dopo lungo patir giugnemmo a Berlas
Laceri, e scalzi. Ma che più dir deggio?
Non istupir. La madre, e ’l padre mio
Alimentai quattr’anni al prezzo vile
Di portar sopr’agli omeri le casse,
Le sacca, ed altri insofferibil pesi.
Bar. Non più, Signor, non più... Poichè vi miro
In arnese reale, ogni miseria
Lasciam da parte, e finalmente dite.
Come fortuna un dì vi fu cortese.
Cal. Cortese! Attendi. Uno sparvier perduto
Fu da Alinguer, Imperator di Berlas,
Che molto caro avea. Fu preda mia.
Ad Alinguer lo presentai. Mi chiese,
Chi fossi; io tenni l’esser mio celato.
Dissi, ch’ero un meschin, che i genitori
Sostenea, via portando a prezzo i pesi.
L’Imperator nell’ospital fè porre
La madre, e ’l padre mio. Diè commessione,
Che ben serviti, e mantenuti in vita
Fossero in quell’asilo di meschini.
(piangendo) Barach, ivi è ’l tuo Re... la tua Regina...
Sono i miei genitor sempre in spavento
D’esser scoperti, e di lasciar il capo.
Bar. (piangendo) Oh Dio! che sento mai!
Cal. L’Imperatore.
A me diè questa borsa, (trae dal seno una
borsa) un bel destriere,
E questa ricca veste. Disperato
Abbraccio i genitor. Lor dico: Io vado
A ricercar fortuna. O questa vita
Infelice vo’ perdere, o gran cose
V’attendete da me; che ’l cor non soffre
In sì misero stato di vedervi.
Trattenermi volean, volean seguirmi;
E ’l Ciel non voglia, che di là partiti
Sieno per caldo amor dietro al lor figlio.
Lungi dal mio Tiranno di Carizmo,
Qui in Pechin giunsi, e del gran Can intendo
Sotto mentito nome esser soldato.
Se m’innalzo, Barach, se la fortuna
Mi favorisce, ancor farò vendetta.
Per non so qual funzione è la cittade
Piena di forestier, nè da alloggiarvi
Potei trovar. Qui una pietosa donna
Di quell’albergo m’accettò, ripose
Il mio destrier...
Bar. Signor, quella è mia moglie.
Cal. Tua moglie! Va, che fortunato sei
Possedendo una donna sì gentile.
(in atto di partire) Barach, ritornerò. Dentro a Pechino
Questa solennità bramo vedere,
Che tante genti aduna. Ad Altoum,
Gran Can, poi mi presento, e grazia chiedo
Di militar per lui. (va verso la porta della Città)
Bar. Calaf, fermatevi.
Non vi prenda disio d’esser presente
A un atroce spettacolo. Voi siete
In un teatro abbominevol giunto
Di crudeltà inaudite.
Cal. Che! Mi narra.
Bar. Noto non v'è, che Turandot, la figlia
Unica d'Altoum Imperatore,
Bella, quanto crudel, quì nella China
È cagion di barbarie, e lutti, e lagrime?
Cal. Io ben tra Carazani alcune fole
Udia narrar. Diceasi anzi, che ’l figlio
Del Re Cheicobad in strana forma
Perito era in Pechino, e che la guerra
Con Altoum per questo si facea.
Ma ’l volgo ignaro inventa, e negli arcani
Volendo entrar de’ gabinetti, narra
Facete cose, e chi ha buon senno, ride.
Dì pur, Barach.
Bar. D'Altoum Can la figlia,
Turandot, in bellezza inimitabile
Da pennello il più industre, di profonda
Perspicacia di mente, di cui vanno
Molti ritratti per le Corti in giro,
È d’animo sì truce, ed è sì avversa
Al sesso mascolin, che invan fu chiesta
Da gran Monarchi in sposa.
Cal. Ecco l’antica
Fiaba, che udii tra Carazani, e risi.
Dì pur, Barach.
Bar. Fiabe non sono. Il Padre
Volle più volte maritarla, ch’ella
Erede è dell'Impero, e volle darle
Sposo di real stirpe, atto al governo.
Ricusò quell’indomita superba;
E ’l padre suo, ch’estremamente l’ama,
Non ebbe cor di maritarla a forza.
Spesso avea guerre per cagion di lei.
E, quantunqu’ è possente, e superasse
Tutti gli assalitori, egli è pur vecchio,
E un giorno con parole risolute,
E con riflessi alfin disse alla figlia:
O pensa a prender sposo, o suggerisci,
Com’io possa troncar le guerre al Regno,
Ch’io son già vecchio, e troppi Re ho affrontati
Te promettendo, e poi per amor tuo
Mancando alla promessa ingiustamente.
Vedi, che giusta è la richiesta mia,
Che d’amor non ti manco. O ti marita,
O di troncar le guerre un mezzo addita,
E vivi poi, come t’aggrada, e mori.
Si scosse la superba, ed ogni sforzo
Fè’ per disobbligarsi. Assai preghiere
Porse al tenero padre; ma fur vane.
S’infermò quella vipera di rabbia,
Fu per morir. Al padre adolorato.
Ma forte in ciò, questa dimanda fece.
Della terribil donna udite in grazia
Diabolica richiesta.
Cal. Odo la fola.
Che udita ho ancora, e che rider mi fece.
Odi, s’io la so bene. Ella un editto
Volle dal padre, che qualunque Principe
Per sua consorte chiederla potesse.
Ma con tal patto: ch’ella nel Divano
Solennemente in mezzo de’ Dottori
Esporrebbe tre enigmi al concorrente;
Che, s’egli li sciogliesse, era contenta
D’averlo sposo, e del suo Impero erede;
Ma che, se i suoi tre enigmi non sciogliesse,
Altoum Can, per sacro giuramento
A’ Numi suoi, troncar farebbe il capo
Al Prence incauto, e mal capace a sciorre
Gli enigmi della figlia. Dì, Barach,
Non è questa la fola? Or dì tu ’l resto,
Ch’io m’annoio nel dirla.
Bar. Fola! Fola!
Oh lo volesse il Cielo. Si riscosse
L'Imperatore a ciò, ma quella tigre
Con alterigia, ed or con vezzi, ed ora
Moribonda apparendo, vacillare
Fè’ la mente al buon vecchio, e alla fin trasse
Al padre troppo tenero la legge.
Ell’adducea: Nessuno avrà coraggio
D’esporsi al gran periglio; io vivrò in pace.
Se alcuno s’esporrà, non avrà taccia
Il padre mio, s’eseguir fa un editto
Pubblicato, e giurato. Questa legge
Fu giurata, e andò intorno, ed io vorrei
Fole narrarvi, e poter dir, che sogni
Sono gli effetti della cruda legge.
Cal. Credo, poichè tu ’l narri, quest’editto;
Ma certamente nessun Prence stolto
Si sarà cimentato.
Bar. Che! Mirate.
(mostra i teschi infilati sulla mura)
Que’ capi tutti son di giovanetti
Principi, esposti per discior gli oscuri
Enigmi della cruda, e esposti invano
Vi lasciaron la vita.
Cal. (sorpreso) Oh atroce vista!
Come può darsi tal sciocchezza in uomo
D’espor la testa per aver consorte
Sì barbara fanciulla?
Bar. Ma, non dite
Questo, Calaf. Chiunque il suo ritratto,
Che gira intorno, vede, una tal forza
Sente nel cor, che per l’originale
Cieco alla morte corre.
Cal. Un qualche folle.
Bar. No, no, qualunque saggio. Oggi ’l concorso
In Pechino è, perchè si tronca il capo
Di Samarcanda al Principe, il più bello,
Il più saggio, e gentile giovinetto,
Che la città vedesse. Altoum piange
Della giurata legge, e l’inumana
Si pavoneggia, e gode, (si mette in ascolto.
Odesi un suono lugubre d’un tamburo scordato)
Udite! udite!
Questo suono lugubre è ’l mesto segno,
Che ’l colpo segue. Io di Pechino uscito
Sono per non vederlo.
Cal. Tu mi narri
Strane cose, Barach. Ed è possibile.
Che da natura uscita una tal donna
Sia, com'è Turandotte? Sì incapace
D’innamorarsi, e di pietà sì ignuda?
Bar. Ha mia consorte una sua figlia, serva
Della crudele nel Serraglio, e narra
Di quando in quando a mia consorte cose,
Che sembrano menzogne. Turandot
È una tigre, Signor; ma la superbia,
L’ambizione è in lei più, ch’altro vizio.
Cal. Vadano tra i dimoni questi mostri,
Abbominevol mostri di natura.
Che umanità non han. S’io fossi ’l padre,
Morrebbe tra le fiamme.
Bar. (guarda verso la Città) Ecco Ismaele,
L'Aio infelice del già morto Prence,
Amico mio, che vien piangendo.
SCENA SECONDA.
Ismaele e detti.
Ism. (esce piangendo dalla Città) Amico,
Morto è ’l Principe mio. Colpo fatale!
Deh perchè sul mio capo non cadesti? (piange dirottamente)
Bar. Ma perchè mai lasciarlo esporre, amico,
Nel Divano al cimento?
Ism. E aggiungi ancora
All’angoscia rimproveri? Barach,
Non mancai di dover. Se tempo aveva,
Il suo padre avvertia. Tempo non ebbi,
Ragion non valse, e l'Aio alfine è servo,
Nè al Principe comanda. (piange)
Bar. Datti pace.
Filosofia t’assista.
Ism. Pace! pace!
Amor mi tenne, e sino all’ultim’ora
Presso mi volle. I detti suoi mi sono
Fitti nell’alma, e tante acute spine
Saranno a questo seno eternamente.
Non pianger, mi dicea, volontier muoio,
Che la crudele posseder non posso.
Scusami al Re, mio padre, che partito
Son dalla Corte sua senza un addio.
Dì, che ’l timor, ch’ei s’opponesse allora
Al mio desir, mi fe’ disubbidiente.
Questo ritratto mostragli, (trae dal seno un ritratto) Veggendo
Tanta bellezza dell’altera donna,
Mi scuserà, piangerà teco il mio
Caso crudel. Ciò detto, cento baci
Impresse in questa maledetta effigie,
Poscia il suo collo espose, e vidi a un tratto
(Orribil vista, che natura oppresse!)
Sangue spruzzar, busto cadere, in mano
Del ministro crudele il caro capo
Del mio Signor. Fuggii, d’orror, di doglia
Desolato, acciecato. (getta in terra, e calpesta il ritratto) O maladetto,
Diabolico ritratto, quì rimanti
Calpestato nel fango. Almen potessi
Calpestar teco Turandotte iniqua.
Ch’io ti rechi al mio Re? No, Samarcanda
Più non mi rivedrà. Piangendo sempre
In un diserto lascierò la vita. (parte furioso)
SCENA TERZA.
Barach e Calaf.
Bar. Signor, udiste?
Cal. Sì, tutto commosso
Sono per quanto udii. Ma come mai
Aver può tanta forza non intesa
Questo ritratto? (va per raccogliere il ritratto: Barach lo trattiene)
Bar. Oh Dio! Signor, che fate?
Cal. (sorrid.) Quel ritratto raccolgo. Io vo’ vedere
Queste sì formidabili bellezze. (vuol raccogliere il ritratto: Barach lo trattiene con forza)
Bar. Meglio saria per voi fissar lo sguardo
Nella faccia tremenda di Medusa.
Non vel permetterò.
Cal. Sei pazzo! Eh via (lo rispinge, raccoglie il ritratto).
Se tu sei folle, io tal non son. Bellezza
Di donna non fu mai, che un sol momento
Fermasse gl’occhi miei, non che nel core
Potesse penetrar. Di donna viva
Parlo, Barach; vedi se pochi segni
Da pittor coloriti hanno a far colpo,
E ’l colpo, che tu narri, in questo seno.
Baie son queste. (sospirando) I casi miei, Barach,
Chiaman altro, che amori. (è in atto di guardare
il ritratto. Barach impetuoso gli mette
sopra una mano, gl’impedisce il vederlo)
Bar. Per pietade, Chiudete gli occhi...
Cal. (respingendolo) Eh via, stolto, m’offendi.
(guarda il ritratto, riman sorpreso, indi
grado grado con lazzi sostenuti s’incanta
in esso)
Bar. (addolorato) Misero me! qual infortunio è questo!
Cal. (attonito) Barach, che miro! in questa dolce effigie,
In questi occhi benigni, in questo petto
L’alpestre cor tiranno, che narrasti,
Albergar non può mai.
Bar. Lasso! che sento?
Signor, più bella è Turandot, nè mai
Giunse pittore a colorir le intere
Bellezze di colei. Non celo il vero.
Ma non potria degli uomini eloquenti
La più faconda lingua dispiegarvi
L’ambizion, la boria, i sentimenti
Crudi, e perversi del suo core iniquo.
Deh scagliate, Signor, da voi lontana
La velenosa effigie; più non beva
La mortifera peste il guardo vostro
Delle crude bellezze, io vi scongiuro.
Cal. (che sarà sempre stato contemplando il ritratto)
Invano tenti spaventarmi. Care
Rosate guance, amabili pupille,
Ridenti labbra! oh fortunato in terra
Chi di sì bel complesso l’armonia
Animata, e parlante possedesse! (sospeso alquanto,
poi risoluto)
Barach, non palesarmi. È questo il punto
Di tentar la fortuna. O la più bella
Donna, che viva, e in un possente Impero,
Disciogliendo gli enigmi, a un tratto acquisto,
O una misera vita, divenuta
Insofferibil peso, a un tratto lascio. (guarda il ritratto)
Dolce speranza mia, già m’apparecchio
Vittima nuova a dispiegar gli enigmi.
Abbi di me pietà. Dimmi, Barach;
Là nel Divano almen, pria di morire,
Vedranno gli occhi miei l’immagin viva
Di si rara bellezza? (udirassi un suono lugubre
di tamburo scordato dentro le mura
della Città, e più vicino della prima volta.
Calaf si porrà in attenzione. Vedrassi innalzarsi
per di dentro sulle mura un orrido
carnefice Chinese con le braccia ignude, e
sanguinose, che pianterà il capo del Principe
di Samarcanda, indi si ritirerà)
Bar. Deh mirate
Prima, e v’inorridite. È quello il teschio
Del Principe infelice ancor fumante,
Di sangue intriso, e quel, ch’ivi lo fisse
E ’l carnefice vostro. Vi trattenga
Sicurezza di morte. È già impossibile
Discior gli enigmi della crudel donna.
Il caro capo vostro orrido in vista
Di spettacolo agli altri invano arditi
Presso a quello diman sarà confitto. (piange)
Cal. (verso al teschio) Sventurato garzon, qual forza estrema
Vuol, ch’io ti sia compagno? Odi, Barach;
Morto già mi piangesti, a che più piangere?
Vado ad espormi. Tu non palesare
Il nome mio a nessun. Fors'è il Ciel sazio
Di mie sventure, e vuol farmi felice,
Perch’io sollevi i genitor meschini.
S’io disciolgo gli enigmi, a tanto amore
Ti sarò grato. Addio. (vuol partire, Barach lo trattiene)
Bar. No certamente...
Per pietà... caro figlio... oh Dio...! Consorte,
Vieni... m’assisti... questa a me diletta
Persona espor si vuole a scior gli enigmi
Di Turandot crudele.
SCENA QUARTA
Schirina e detti.
Sch. Oimè! che sento!
Non siete voi l’ospite mio? Chi guida
Questo affabile oggetto in braccio a morte?
Cal. Pietosa donna, al mio destin mi tragge
Questa bella presenza. (mostra il ritratto)
Sch. Ah, chi gli ha data
L’immagin infernal! (piange)
Bar. (piangendo) Puro accidente.
Cal. (liberandosi) Assan, donna gentile, il mio destriere
Rimanga a voi con questa borsa in dono.
(trae la borsa dal seno, e la dà a Schirina)
Altro non ho nella miseria mia
Da spiegarvi il mio cor. Se non v’incresce,
Qualche parte del dono in mio soccorso
Spendete in sacrifizi a’ Dei celesti,
A’ poverelli dispensate. Ognuno
Preghi per questo sventurato. Addio.
(entra nella Città)
Bar. Signor... Signor...
Sch. Figlio... fermate... figlio...
Ah vane son le voci. Dimmi, Assan,
Chi è quel generoso sfortunato,
Che alla morte sen corre?
Bar. Non ti prenda
Tal curiositade. E tal d’ingegno,
Ch’io non dispero in tutto. Andiam, Consorte.
A’ poverelli tutto, e ai Sacerdoti
Vada quell’oro, onde si chieda al Cielo
Grazia per lui... Ah morto il piangeremo!
(entra in casa disperato)
Sch. Non sol qucst’oro, ma di quanto mai
Spogliar mi posso, tutto in pietose opre
Dato fia pel meschin. Certo esser deve
Qualche grand’alma alle maniere nobili,
All’aspetto sublime. Egli è sì caro
Al mio sposo fedel? Tutto si faccia.
Ben trecento pollastri, ed altrettanti
Pesci di fiume al gran Berginguzino
Saranno offerti, e ai Geni sacrifizio
Di legumi abbondanti, e riso in coppia
Certo fatto sarà. Confuzio voglia
De’ Bonces alle preci condiscendere.