de ferro, bacile de bombaso, e va descorrendo;
i xe novi de trinca e maledetti; e, se no la li
consegnasse proposti, spiegai, e sigillai in tante
cartoline a sti Eccellentissimi Dottori, forsi
gnanca elli saveria, dove i avesse la testa. Andè
in pase, caro fio. Se’ là, che parè un fior; me
fè’ peccà. Varenta al ben, che ve vogio, che se
ve ostine, fazzo più conto d’un ravanello del
gobbo ortolan, che della vostra testa.
Cal. Vecchio, invan t’affatichi, invan ragioni.
Morte pretendo, o Turandotte in sposa.
Tart. Turandotte... Turandotte. Ma che diavolo
di ostinazione, caro figlio mio. Intendi bene.
Qui non si giuoca a indovinare colla scommessa
d’un caffè col pandolo, o di mezza cioccolata
colla vaniglia. Capisci, capisci una volta; quì
ci va la testa. Io non uso altri argomenti per
persuaderti a desistere. Questo è grande. La
testa, la testa ci va; la testa. Sua Maestà ti
prega, ha fatto sacrificare cento cavalli al Sole,
cento buoi al Cielo, cento porci alla Luna,
cento vacche alle Stelle in tuo favore, e tu,
ingrato, vuoi resistere per dargli questo rammarico.
Se non vi fossero altre femmine al
mondo, che la Principessa Turandotte, la tua
risoluzione sarebbe ancora una gran bestialità.
Scusa, caro Principe mio. In coscienza è l’amore,
che mi fa parlare con libertà. Hai tu ben capito,
che cosa sia il perdere la testa? mi par
impossibile.