Sull'Oceano/Rancori e amori

Rancori e amori

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Signori e signore Sul tropico del Cancro
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RANCORI E AMORI


Uno spruzzo d’acqua ricevuto in pieno viso la mattina all’alba, nel punto che aprivo il finestrino per respirare, mi fece stare in cuccetta tutto il giorno dopo, con un turbante bagnato intorno al capo, a meditare sulla brutalità del gran padre Oceano: lo schiaffo era stato così violento e appoggiato bene, che m’aveva mandato a battere della contraccassa del cervello nella parete opposta del camerino, e fatto ricadere stordito, in un lago d’acqua, con la bocca piena di sale.

Per quest’accidente non potei fare che la mattina del nono giorno la mia prima visita agli emigranti. Ruy Blas, porgendomi dignitosamente il caffè, m'annunziò che il tempo era [p. 81 modifica] bello; ma più che il suo decotto, mi svegliò il solito concerto mattutino dei gorgheggi del tenore e del gnaulio del bimbo brasiliano, accompagnati dalle note del pianoforte, che doveva esser sonato da quel bel tometto della signorina della lettera. Fra questi rumori, mi ferì l’orecchio una discussione concitata che veniva dal camerino accanto, occupato dalla signora della spazzola e da suo marito. Oh miseria! Non capivo che qualche parola qua e là; ma lo stridore e l’accento di quelle due voci, ferme nella loro concitazione, e animate da un sentimento meno caldo e più tristo dell’ira, rivelavano la consuetudine della disputa nata di nulla, involontaria quasi, come uno straripamento improvviso di pensieri e di sensi maligni, ch’ei lasciassero andare per non morir soffocati. Il dialogo era rotto da risa sardoniche e da parole tronche, ripetute parecchie volte or dall’uno or dall’altro, sullo stesso tuono, come un ritornello ingiurioso, e da certi: — Taci! Taci! — piuttosto che detti, fischiati, in cui non si distingueva più la voce dell’uomo da quella della donna, o parevan lacerati dai denti. Era come una lotta sommessa di soffi avvelenati, cento volte più penosa a sentirsi che le percosse e lo grida. Che tremenda cosa quell’odio coniugale [p. 82 modifica] dentro a quella segreta, nel mezzo dell’oceano, quelle due creature avviticchiate per mordersi, che portavano da un mondo all’altro l’inferno che le straziava! Tutt’a un tratto tacquero, e pochi minuti dopo, mentre io uscivo, uscivano essi pure, vestiti di tutto punto, e apparentemente impassibili; ma, arrivati alle due scalette che conducevano in coperta, voltarono l’uno a destra l’altro a sinistra, senza guardarsi. Pel corridoio m’imbattei nel giovine toscano, attillato, che stava in sentinella, e passando davanti all’uscio della signora svizzera, mi parve di veder scintillare al fessolino un occhio azzurro. Poi m’urtai nell’agente, il quale mi disse ex-abrupto: — Ma sa che quegli sposi mi seccano! — Aveva sentito che la sposa, la sera, diceva le orazioni. E poi... mille noie. Fra le altre cose, a tempo perso, studiavano la grammatica spagnuola: coniugavano dei verbi a mezza voce, interrompendosi a ogni tempo per darsi dei baci. Giusto la sera avanti aveva inteso un passato remoto insopportabile. Voleva farsi cambiar di camerino. E aveva notizie nuove da darmi intorno a nuovi personaggi; ma lo pregai di serbarle a più tardi, e andai difilato a prua, col proposito di mescolarmi cogli emigranti, e di entrare in discorso con loro. [p. 83 modifica] Era l’ora della pulizia, la prua affollata, il cielo chiaro: tutto pareva propizio. Ma non tardai ad accorgermi che l’impresa era meno facile di quello che credevo. Mentre passavo in mezzo alla gente seduta, badando a non pestare i piedi a nessuno, m’intesi dire alle spalle: — Largo ai signori! — e voltandomi, incontrai lo sguardo d’un contadino, il quale mi fissò sogghignando con un’aria che confermava arditamente il senso sarcastico dell’esclamazione. Un poco più in là, avendo steso la mano per carezzare un bambino, sua madre lo tirò a sè con cattivo garbo, senza guardarmi. Non posso dire la pena che ne provai. Io non avevo pensato allo stato d’animo in cui era naturale che si trovasse molta di quella gente, mentre erano ancora tumultuanti in essa le memorie della vita intollerabile, per troncar la quale avevan deciso di lasciar la patria, e acceso tuttavia il risentimento contro quella svariata falange di proprietari, esattori, fattori, avvocati, agenti, autorità, designati da loro col nome generico di signori, e creduti congiurati tutti insieme ai loro danni, e autori primi della loro miseria. Per essi io ero un rappresentante di quella classe. E neppure avevo pensato che dovesse riuscir loro particolarmente odioso, in quello stato d’animo, un abitante di [p. 84 modifica]quel piccolo mondo privilegiato di poppa, immagine dell’altro a cui s’eran sottratti; il quale li accompagnava anche sul mare, come un vampiro, che li volesse andare a dissanguare fino in America. Ciò posto, era impossibile che comprendessero il sentimento rispettoso e benevolo che mi animava, e imprudente l’attaccar discorso così di punto in bianco con alcuno di loro. Se l’avessi fatto, m’avrebbero creduto mosso da una curiosità crudele di sentir racconti di guai, o preso per un intrigante, per qualche impresario mestatore, imbarcatosi sul Galileo per accaparrar lavoratori di sottomano, senza l’incomodo della concorrenza. Queste riflessioni fecero cadere improvvisamente tutto le mie speranze.

Allora buttai via il sigaro, e cominciai a girare guardando gli alberi e i cordami, come se non m’occupassi che del piroscafo; ma tendendo l’orecchio. Molti gruppi fissi s’eran già formati, come accade sempre, fra emigranti della stessa provincia o della stessa professione. La maggior parte eran di contadini. E non mi fu difficile di cogliere l’argomento predominante dello conversazioni: il triste stato della classe agricola in Italia; — troppa concorrenza di [p. 85 modifica] lavoratori, tutta a vantaggio dei proprietari e dei fittavoli; — salari scarsi, — viveri cari, — tasse eccessive, — stagioni senza lavoro, — cattive annate, — padroni Ingordi, — nessuna speranza di migliorare il proprio stato. I discorsi, per lo più; avevan forma di racconti: racconti di miserie, di birbonate e d’ingiustizie. In un crocchio, in cui pareva che dominasse come una nota d’allegria amara, ridevan della rabbia che avrebbero divorata i signori quando si fossero ritrovati senza braccia, costretti a raddoppiare i salari, o a dar le loro terre per un boccone di pane. — Quando saremo andati via tutti, — diceva uno, — creperanno di fame anche loro. — E un altro: — Non passa dieci anni, dà fuori la rivoluzione. — Ma quelli che lanciavan le frasi più arrischiate, parlavan più basso, e dopo aver data intorno un’occhiata, perchè temevano molti, come poi seppi, che a bordo ci fosse un servizio segreto di polizia, per conto del Governo. Cerano dei crocchi di contadini calabresi, con le loro mantelline a cappuccio, e i loro sandali, legati con le zampine; ma pochi di essi parlavano. In altri gruppi si discorreva del mare e dell’America: e si riconoscevan facilmente quelli che v’erari già stati, all’attenzione con cui gli altri li stavano [p. 86 modifica] a sentire, e alla voce alta, al tono di sicurezza col quale sdottoravano; perché è incredibile quanto possa in molti la vanità anche in quelle angustie, quanto sia forte il prurito di farsi conoscere, di fabbricarsi un piedestallo anche tra quella povera folla, per mostrarsi superiori alla miseria in cui son ridotti e da cui son circondati.

Quelli che udivo parlare più spesso erano i liguri, e quasi si sarebbero riconosciuti, senza sentirli, all’aspetto sicuro, e quasi baldanzoso, derivante dalla coscienza dello spirito commerciale e marinaresco e dei cinquantanni d’emigrazione fortunata della loro razza: avevan l’aria o se la davano, di trovarsi sul piroscafo a loro agio, come in casa propria. I montanari, per contro, quasi tutti immobili e taciturni, e come istupiditi dallo spettacolo di quell’immenso piano uniforme, tanto diverso da quello angusto, rotto, intimo delle loro montagne. Si vedevano poi, tra i moltissimi ritti impalati come automi, o accovacciati come fiere, parecchi di quegli spiriti allegri e leggieri, che le novità e il contatto della folla eccitano come il vino: e questi gironzavano di crocchio in crocchio e rivolgevano la parola da tutte le parti, ridendo alla gente e al mare, come se avessero saputo di [p. 87 modifica] trovar dei mucchi d’oro allo sbarco. E già dalle molte coppie d’uomini e anche di donne che chiacchieravano tranquillamente, seduti l’uno di fronte all’altro, come sull’uscio di casa, fumando o lavorando, si capiva che s’erano strette molte di quelle amicizie di viaggio, alcune delle quali perdurano, o si riappiccano, dopo molti anni, in America, e rimangono le predilette, improntate per tutta la vita di quel primo bisogno, che le fece nascere, di espandersi e di farsi coraggio a vicenda dinanzi all’avvenire misterioso. Delle donne facevan cerchio, coi bimbi in braccio, come ai crocicchi delle strade. Vicino alla cambusa, — l’osteria delle terze, — vidi le coriste lombarde, ridenti con disinvoltura teatrale, in mezzo a un gruppo di giovanotti svizzeri; i quali, forse con intenzione politica, portavano tutti un berretto di panno rosso, e supplivano con una mimica troppo eloquente alla scarsa conoscenza della grammatica meneghina. Incontrai la grossa bolognese, col suo inseparabile borsone a tracolla, saettato da molti sguardi curiosi, la quale passeggiava sola, a passi di prima donna, guardandosi ogni momento ai piedi, con una smorfia di nausea, per scansare le lordure. Il tavolato, infatti, sparso di pezzetti di carta, di bucce di mela, di briciole di [p. 88 modifica] gallette, d’un po’ d’ogni cosa, aveva l’apparenza d’un campo dove avesse bivaccato un reggimento. E, in generale, le facce e i panni dei soldati non discordavano dall’aspetto del terreno. Molti visi, anzi, pareva che serbassero ancora intatte le scaglie del di della partenza. Ma trattenni dentro, osservandoli, ogni parola di rimprovero, poiché pensai agli emigranti tedeschi che trovano a Brema, prima d’imbarcarsi, vitto, ricovero e bagni, per rimettersi dal viaggio di terra; mentre i nostri dormono sui marciapiedi.

Mi diressi dalla parte dei cernieri dell’acqua dolce. La bella genovese era sempre là, col suo giubbino bianco e con la gonnella azzurra, tra il piccolo fratello e il padre, occupata a cucire: pulita e fresca come un fiore. Ma gli ammiratori si erano raffittiti: aveva ora intorno, a varie distanze, una dozzina di passeggieri che la covavan con gli occhi, e scherzavano tra loro, parlandosi negli orecchi, con certi ghigni e baleni nello sguardo, che non lasciavano incertezza sull’indole della loro ammirazione. Altri s’avvicinavano, s’alzavano in punta dei piedi per vederla, e poi se n’andavano. Era già famosa, dunque, e sarebbe stata lei, senza dubbio, il [p. 89 modifica]“grande successo„ del viaggio nella società di prua. Ma la celebrità non l’aveva mutata di un’ombra. Ogni tanto essa alzava gli occhi azzurri, tranquillissimi, come se invece d’uomini, avesse avuto intorno degli alberi, e sempre con la stessa placidità graziosa riabbassava il capo sul lavoro, ripresentando come inconsapevolmente a tutti quegli sguardi il suo bellissimo collo bianco e il viluppo magnifico delle suo trecce dorate. Ah! povera cucina della terza classe! Voltandomi verso il finestrino, vidi la faccia vermiglia del cuoco, con la fronte corrugata e gli occhi fissi. Fuor d’ogni dubbio, divampava una passione tra le cazzaruole. La salute pubblica era in pericolo. Mentre l’osservavo, vidi che il suo sguardo, deviando dalla ragazza, pigliava un’espressione più truce, ed io, seguendolo, riuscii con gli occhi sopra un viso del cerchio degli ammiratori, che mi distrasse da lui. Era un giovine di forse meno di vent’anni, spersonito e imberbe, con due spallucce misere che parevano un attaccapanni, un che di mezzo, all’aspetto, tra il maestro di villaggio e lo scrivano, di quelli che vanno in America a cercare un impieguccio: seduto sopra un barile ritto, egli teneva lo sguardo confitto nella ragazza con un’espressione d’amore [p. 90 modifica] così ardente, d’adorazione così umile, che avrebbe strappato un’occhiata di compassione a una donna di marmo. Aveva l’aria d’esser solo a bordo: portava una cintura di cuoio giallo ai fianchi, che doveva contenere tutto il suo peculio. L’osservai per un pezzo, e sempre lo vidi con quegli occhi fissi, umidi, animati di un leggerissimo sorriso triste, come di pietà per sé stesso, e con tutta la persona immobile, nell’atteggiamento di chi si contenta d’ammirare, e non aspetta nè spera nulla, e starebbe lì per la vita. In tutto quel tempo, la ragazza non mostrò d’accorgersi di lui. Egli languiva là, solitario, come uno stilita sulla colonna, e il calore della sua povera fiamma ignorata andava disperso nello spazio come il fumo del Galileo.

Di là andai sul castello di prua, che era pieno di gente. Salendo, intesi dire accanto a me: — Già, vegnen, chi al teater. Quel vegnen era per me, naturalmente. Qui fui accolto peggio che altrove, con occhiataccie e con voltate di spalle, e non con questo soltanto: sub terris tonuisse putes. Mi venne in mente, e non in’ingannavo, che fosse quella una specie di montagna, dove si accogliessero gli emigranti di idee più rivoluzionarie, quelli che avevan bisogno [p. 91 modifica] d’appartarsi per tener dei discorsi arrischiati, e che di là, come da un focolare di malcontento, dovessero muovere le proteste contro il vitto e le congiure contro il regolamento. Si vedevan delle facce ardite e scure, e degli atteggiamenti di bravi in riposo. Dovevan essere tutti celibi, o di quegli emigranti che lasciano a casa la moglie, dopo due o tre anni di matrimonio: categoria molto numerosa, o perchè sian spinti a emigrare dai bisogni nascenti della famiglia, o perchè, fatto il primo esperimento della vita coniugale, e seccatisi, ne vogliano uscire per quella via. In un crocchio, riconobbi il vecchio lungo che aveva mostrato il pugno alla patria la sera della partenza: un tipo di avventuriere scarno, con gli occhi accesi, con certe corde del collo che gli volean crepare la pelle, vestito d’un logoro gabbano verde, che pareva uno spoglio di commediante: scoperto il capo, con le ciocche grigie al vento. E parlava forte, con accento toscano, gesticolando con l’indice in alto. Intesi, girando alla larga, la parola pagnottisti, e ricevetti tra capo e collo una guardataccia a fendente, che mi fece allungare il passo. Vicino alla boccaporta del molinello, sonava un piccolo pifferaro; ma il vento si portava via le note, e nessuno gli badava. Alcuni, [p. 92 modifica] seduti in cerchio sul tavolato, giocavano alle carte. E all’estrema punta del piroscafo, sopra il tagliamare, stava in piedi una strana figura di saltimbanco, con una lunga faccia ossuta e olivastra illuminata da due grand’occhi verdi, coi capelli neri cadenti sulle spalle, e le braccia seminude incrociate sul petto, sur una delle quali eran tatuate le iniziali AS e una croce: e così ritto e tetro in quella solitudine, ora levato su ora portato giù dal movimento forte della prua, come se danzasse per aria, pareva l’immagine personificata di tutte le tristezze e di tutte le miserie accumulate su quelle tavole, il simbolo vivente della esistenza errabonda e del destino incerto di tutti. V’era una sola donna lassù, una vecchia, seduta sopra una bitta, accanto a suo marito, pure vecchio; tutti e due con le braccia incrociate sulle ginocchia, e la fronte chinata sulle braccia, in modo che non si vedevano i visi, ma solo i capelli grigi e radi, e i due colli rugosi, che mostravan passata la settantina, allungati in un atteggiamento di abbandono e di stanchezza mortale. Che andavano a fare in America? A raggiunger dei figliuoli, forse. Nulla avevo ancor visto a bordo di più compassionevole di quelle due vecchiaie disfatte, e quasi già afferrate dalla morte, che [p. 93 modifica] emigravano alla terra della lotta e dell’avvenire. Mi chinai a guardarli: dormivano. A pochi passi da loro, ritto contro il parapetto, incappucciato e solitario, c’era il frate che andava alla Terra del Fuoco; una faccia di cera, con due occhi vuoti, impassibile.

Scendendo dal castello di prua, mi trovai faccia a faccia col medico: un napoletano, Giovanni Nicotera pretto sputato, ma con gli occhi e i modi d’un altro, distratti e flemmatici: caso non raro di rassomiglianza fisica fra persone di natura opposta. Scesi con lui nell’infermeria, una specie di stanzone oblungo, rischiarato dall’alto, con due ordini di cuccette all’intorno. C’era un bambino malato di rosolia, un amore di bambino, coi capelli biondi arricciolati, rosso dalla febbre, e accanto a lui, in piedi, una campagnuola dei dintorni di Napoli, un pezzo di donna, che appena visto il medico, si mise a piangere, soffocando i singhiozzi nelle mani. Il medico esaminò il bambino, poi le disse in tuono di rimprovero: — La malattia fa il suo corso. Non v’avete a inquietare. Levatevi quell’ideaccia dal capo. — E mi spiegò che certe donnaccole le avevano sconvolto l’anima dicendole che, se fosse seguita una disgrazia, le avrebbero [p. 94 modifica] buttato il bambino in mare: a quest’idea essa si disperava. Poi domandò forte, voltandosi da un’altra parte: — E voi, come va? — Allora vidi spuntare di dentro a una cuccetta bassa la testa d’un vecchio macilento; il quale, malgrado che il medico vi si opponesse, volle cacciar fuori le gambe, e mettersi a sedere sull’orlo della sua buca. Era vestito. Rispose con un filo di voce: — Non c’è tanto male. — Il medico lo esaminò, e crollò il capo. Aveva una polmonite grave, s’era dovuto coricare il dì dopo della partenza. Era un contadino pinerolese, solo, che andava all’Argentina a raggiungere un suo figliuolo. Io gli domandai in che parte dell’Argentina si trovasse. Non lo sapeva. Il suo figliuolo minore era andato all’Argentina tre anni prima, lasciandolo a casa con l’altro, che gli era morto. Allora quello gli aveva fatto scrivere che andasse con lui, mandandogli un buono per il viaggio, ma senza dargli l’indirizzo preciso perchè lavorava alle strade e mutava sede. Gli aveva però indicato il modo di ritrovarlo. E dicendo questo il povero vecchio ficcò la mano scarna in una tasca del petto, e ne cavò una manata di carte logore o unte, che incominciò a far scorrere con le dita tremanti. In quel punto un [p. 95 modifica] movimento brusco del piroscafo lo fece urtar forte col capo calvo contro il tetto della cuccetta: egli vi passò la mano su, per sentir se c’era sangue, e riprese a far passare i fogli: buste lacere, carte con cifre — forse gli ultimi conti del padrone — una ricevuta, un piccolo calendario. Trovò finalmente un mezzo foglio sgualcito, dove era scritto a caratteri grossi, ma schiccherati d’inchiostro o quasi illeggibili, il nome d’un villaggio della provincia di Buenos Ayres, nel quale, al tal numero della tal via, egli avrebbe trovato ospitalità in una famiglia piemontese, presso di cui, dentro il mese, sarebbe venuto a prenderlo un patriotta, suo compagno di lavoro, che l’avrebbe condotto dov’era il figliolo: ’l me Carlo. Con quelle indicazioni, vecchio, malato, ignaro di tutto, era partito per l’America! — Ho gran paura — , disse il medico uscendo — , che sia partito troppo tardi.

E volle che andassi con lui a vedere il “presepio.„ In un cantuccio di prua, formato da una stia di tacchini e da una grossa botte addossata all’opera morta, — largo appena da vuotarvi un sacco di carbone — , s’era fatto il covo una famiglia di cinque persone, che vi [p. 96 modifica] passavan la giornata, pigiate e appiccicate in modo fra sè e alle pareti, da far pensare che non si fossero ficcati là che per gioco. Era una famiglia di contadini, dei dintorni di Mestre: marito e moglie ancor giovani: lei incinta avanzata; due gemelli maschi di sei anni, e una ragazzina sui nove, che aveva il capo fasciato. Questa faceva la calza, sul davanti, e i marmocchi biondi erano imprigionati fra le gambe del padre, che fumava la pipa, con le spalle al parapetto, porgendo un braccio alla moglie, che gli rimendava la manica. Poveri, ma puliti: sei visi che spiravano una cert’aria di bontà e di rassegnazione serena. All’avvicinarsi del medico, l’uomo s’alzò sorridendo, e gli disse che la putela stava meglio: s’era ferita due giorni innanzi ruzzolando per la scala del dormitorio. — E come va questa cucina? — gli domandò il medico. Il contadino andava ogni giorno in cucina, con altri emigranti, a sbucciar patate e a sgranar fagiuoli sotto la direzione dei sottocuochi, che davan loro in compenso qualche bicchier di vino. — La va ben — , rispose — ; almanco se beve. — Ma quel capo-cogo era d’un umore! Poi, interrogato, raccontò la sua storia. Uno zio gli aveva lasciato un po’ di terreno, tanto da poterci campare, o quasi, lavorando [p. 97 modifica] per due. Ma co’ no ghe xè fortuna, ogni cosa va alla diavola. Sul podere c’era qualche ipoteca, e poi... cento e dieci lire d’imposta, due annate cattive da principio: insomma, eglj s’era rotto la schiena per cinque anni senza riuscire a cavarsela. E sì che la muger sfondava al lavoro quanto un uomo; ma eran cinque bocche, e tre non aiutavano. Stroncarsi l’anima, esser sempre indebitato, e polenta e sempre polenta, e veder i figliuoli che deperivano di giorno in giorno, non era una cosa che potesse durare. Poi una lunga malattia della ragazza. Da ultimo il fulmine gli aveva ammazzato una vacca. E allora, buona notte. Aveva venduto tutto, voleva un po’ vedere se in America ci fosse modo di strappar la vita. Buona volontà e coraggio non gli mancavano... Ma co’ no ghe xè fortuna! — Poi disse con premura: — Saludè, putei, che pien la paronçina. — E fui molto stupito di veder venire innanzi, in mezzo alla folla di prua, la signorina dalla croce nera, col suo vestito color verdemare, appoggiata al braccio della sua compagna, più pallida, più esile che non l’avessi mai vista. S’avvicinò alla famiglia, domandò notizie alla ragazza, in veneziano, e passò la mano sulle teste dei gemelli: poi cavò di tasca un piccolo pacco, che doveva esser di [p. 98 modifica] frutta o confetti, e lo porse loro con una certa grazia stanca di malata, e col suo sorriso malinconico, d’una grande dolcezza. Frattanto il medico, tiratomi indietro, mi diceva che era essa pure di Mestre, e che aveva riconosciuto quella famiglia di contadini il giorno della partenza, mentre s’imbarcavano: era figliuola d’un ingegnere, vedovo, il quale dirigeva i lavori d’una strada ferrata nell’interno dell’Uruguay, da due anni; e andava con la zia, che aveva un anno solo più di lei, per vederlo “ancora una volta.„ Io chiedevo spiegazione di queste ultime parole, quando la signorina tossi, e non ebbi più bisogno di finir la frase. E occorreva ancora che il medico mi accennasse una donna seduta là vicino, sola, la quale guardava quella famiglia con due occhi vitrei, e come atterriti, in cui appariva il barlume d’un sentimento d’invidia, e il pensiero immobile d’un affetto perduto. Era una veneta, quella pure, che andava a raggiungere un suo fratello a Rosario, poiché due mesi innanzi, in una rissa, le avevano pugnalato il marito.

E tutta questa miseria è italiana! — pensavo ritornando a poppa. E ogni piroscafo che parte da Genova n’è pieno, e ne parton da Napoli, [p. 99 modifica] da Messina, da Venezia, da Marsiglia, ogni settimana, tutto l’anno, da decine d’anni! E àncora si potevan chiamare fortunati, per il viaggio almeno, quegli emigranti del Galileo, in confronto ai tanti altri che, negli anni andati, per mancanza di posti in stiva, erano stati accampati come bestiame sopra coperta, dove avevan vissuto per settimane inzuppati d’acqua e patito un freddo di morte: e agli altri moltissimi che avevan rischiato di crepar di farne e di sete in bastimenti sprovvisti di tutto, o di morir avvelenati dal merluzzo avariato o dall’acqua corrotta. E n’erano morti. E pensavo ai molti altri che, imbarcati per l’America da agenzie infami, erano stati sbarcati a tradimento in un porto d’Europa, dove avevan dovuto tender la mano per le vie; o avendo pagato per viaggiare in un piroscafo, erano stati cacciati in un legno a vela, e tenuti in mare sei mesi; o credendo di esser condotti al Plata, dove li aspettavano i parenti e il clima del loro paese, erano stati gittati sulla costa del Brasile, dove li avevan decimati il clima torrido e la febbre gialla. E pensando a tutte queste infamie, e alle migliaia di miei concittadini che, in grandi città straniere, campai) la vita coi più degradanti mestieri, e ai branchi d’istrioni affamati [p. 100 modifica] che spargiamo alle quattro plaghe dei venti, e alla tratta miseranda dei fanciulli, e ad altre cose, provavo un senso d’invidia amara per tutti coloro che possono girare il mondo senza trovare in ogni parte miserie e dolori del proprio sangue.

Ma a raddolcire ogni amarezza, il buon Dio aveva messo a bordo due commessi viaggiatori francesi. Uno era parigino, un buon giovane, benché un poco lezioso; ma una faccia, poveretto, che mi pareva d’averla vista per la prima volta in un’opera illustrata del Darwin, al capitolo delle catarrine. L’altro l’ho già accennato: era un marsigliese di cinquant’anni, con un busto di Patagone e le gambe corte, di cui una arcata, che strascicava; e aveva una faccia di Napoleone I gonfiato, d’una gravità che faceva parere doppiamente buffe le continue e grosse corbellerie che gli uscivan di bocca. Si spacciava per corrispondente commerciale del Journal des Débats; ma non ci credeva nessuno; e si piccava di letteratura, citando a ogni proposito un libro solo, che era il suo vangelo, e di cui certo non aveva mai letto che il titolo; il dizionario del Littré, un ouvrage qui restera dans les siècles. Oltre di ciò [p. 101 modifica] si vantava di conoscere a fondo l’Italia, e parlava un italiano da far scappare i pescicani. Ma il più lepido era questo, che non avendo mai avuto in Italia, come si capiva dai suoi discorsi, altro che avventure da canti di strada, parlava in cattedra del bel sesso italiano, facendo mille sottili distinzioni fisiologiche e psicologiche, alla Stendhal, fra le signore delle nostre città grandi, come se avesse fatto i suoi studi sul fiore di tutte le aristocrazie, in qualità di Ambasciatore di Francia. Del resto, un modo di ragionare in tutte le cose, assai comune fra i francesi della piccola borghesia, a scappatoie e frasi fatte, delle quali si potrebbe considerare come tipo la seguente, opposta da lui a un argentino, che diceva la birra nociva: — J’ai assistè à l’enterrement de bien des gens qui n’en buvaient pas. Ma il suo forte erano le avventure galanti, ch’egli raccontava così tra la burla e la vanteria, con dei gesti da attore, stando in piedi, e che terminava sempre facendo un frullo con le dita e una piroetta sopra un tallone, per ripiantarsi in faccia all’uditore con un: — Et voilà! — come un giocoliere che vuol l’applauso.

Quella mattina appunto egli e il suo collega, che gli sedeva di fronte a tavola, ci rallegrarono tutti con una discussione, non so come [p. 102 modifica] nata, intorno a quanto si spendesse a Parigi da uno dei così detti Marchands de vin per mangiare da galantuomo. Dopo non molte parole, avendo l’attenzione dei commensali acceso l'amor proprio di tutti e due, il parigino, stizzito, si lasciò scappare di bocca con un tuono di compatimento, che il suo contraddittore non conosceva Parigi.

Il marsigliese scattò come una molla. — J’ai fait vingt-cinq voyages à Paris, monsieur!

Et moi, — rispose l’altro, alzandosi, in mezzo al silenzio generale; — je l’habite!

Ma il viso, l’accento, il gesto furono così solenni, che provocarono una risata fragorosa, la quale soffocò quasi la risposta del marsigliese inviperito: — ... Vous prenez la chose sur un ton... Nous nous moquons pas mal de Paris... Thiers qui a sauvé deux fois la France...

Ma l’altro era così felice del trionfo del suo moi je l’habite, che non rispose più, contentandosi di rivolgere ai suoi vicini poche parole; fra cui intesi queste: — ... Thiers, une vilaine figure de polichinelle...

Dopo di che tutti si alzaron da tavola, ridendo ancora. [p. 103 modifica] E quel giorno, essendo il tempo bellissimo, due ore prima di desinare tutto il “bel mondo„ era in coperta; eccettuati gli argentini, che a quell’ora solevano fare una specie di lunch nazionale con le loro squisite carni conservate, di cui s’erano portati a bordo un magazzino. Il cassero aveva l’aspetto d’una vasta terrazza di casa di bagni. Dei passeggieri si dondolavano sulle lunghe seggiole di paglia, sfogliando dei volumi gialli del Charpentier; molti passeggiavano, a due a due. Il vecchio chileno andava in su e in giù col prete napoletano, che scoteva per aria le sue lunghe mestole come per afferrare a volo dei biglietti di banca; e ogni volta che mi passava accanto, coglievo una delle sue frasi. Yo creo que con un capital de docientos mil patacones... Vea Usted, la véndida de las cédulas hipotecarias provinciales... In fondo, dalla parte del timone a mano, biancheggiava la signora bionda, con un nastro azzurro nei capelli, ritta contro il parapetto, verso il mare, accanto allo sbarbatello toscano; e si capiva che parlavano di cose indifferenti, del mare, dell’America; ma, benché non si guardassero, si capiva pure, da un leggero sorriso continuo che tremolava sul viso di tutti e due, che il discorso indifferente non doveva essere che l’ [p. 104 modifica] accompagnamento esteriore d’un duetto intimo molto bene intonato. Avendo cercato con gli occhii il marito, lo vidi sotto, sulla piazzetta, profondamente attento al discorso d’un ufficiale di bordo che gli spiegava il meccanismo del sestante a canocchiale. Sur uno dei due lunghi sedili del mezzo c’era la signorina di Mestre e sua zia. Osservai questa bene per la prima volta: era un esempio, non raro a vedersi, d’uno sbaglio della natura, la quale aveva imprigionato un’anima femminile in un corpo di maschio, dal viso largo e ossuto, dalle mani grosse, dalla voce rude. Tutta la femminilità di quella povera ragazza pareva ridotta nei suoi piccoli occhi grigi, che erari pieni di bontà e di gentilezza, e da cui traspariva chiaramente ch’ella aveva coscienza di quella discordanza sgradevole tra la sua persona e il suo spirito, e che da un pezzo era rassegnata a non piacere, e a starsene in disparte, quasi fuori dei due sessi, cercando in ogni modo di passare inosservata. Ma quella timida rassegnazione, appunto, e quell’ombra come di vergogna che velava i suoi occhi, ispiravano un sentimento così tra la pietà e la simpatia, che in qualche momento la faceva parer diversa affatto da quella che era. A un tratto, con molta maraviglia, vidi il [p. 105 modifica] garibaldino avvicinarsi e sedere accanto alla nipote, salutando rispettosamente, ma con un atto che rivelava una conoscenza di vari giorni. Era la prima volta che lo vedevo in colloquio con un’anima nata. In che maniera potevano aver fatto relazione? La signorina diceva qualche parola ogni tanto, girando gli occhi chiari e lenti sull’orizzonte, ed egli l’ascoltava, in un atteggiamento di accondiscendenza e di rispetto, fissando il tavolato. M’immaginai fin da quel primo momento che il soffio leggero che usciva da quella bocca pallida dovesse risuscitare a poco a poco nell’anima di quell’uomo gli affetti morti e sepolti; ma, per allora, non ne appariva alcun indizio sul viso di lui, acre, malgrado l’espressione rispettosa, e immobile. Stava leggendo, dall’altra parte del sedile, la mia vicina di camerino, vestita con troppo sfoggio per un piroscafo; ma il movimento irrequieto dei suoi piccoli piedi senza collo, dava a vedere che non seguiva la lettura col pensiero. La battaglia della mattina, peraltro, non aveva cacciato dalla sua bocca il solito sorriso nervoso, il quale tradiva una forza indomabile nella lotta domestica, la capacità di sforacchiare a colpi di spillo il cuore o il cervello d’un marito per trent’anni filati. Che ci poteva mai esser fra loro? Un “ [p. 106 modifica] malinteso della carne„ come fra quella coppia coniugale del Germinal? Nessuna colpa dell’uno o dell’altro, ch’io potessi immaginare, era una causa sufficiente a spiegar l’avversione che li separava, poiché il marito, che non aveva aspetto di un tristo, avrebbe perdonato, ed essa non pareva un’anima così delicata, da portar aperta per tutta resistenza la ferita d’un tradimento. Eppure, avrei giurato che quelle due creature non si sarebbero riconciliate mai più, e che la via che percorrevano insieme li avrebbe condotti a un delitto. Ma chi più attirava l’attenzione, fra tutta quella gente, era la famiglia brasiliana, marito e moglie, con tre fanciulli grandicelli, e uno lattante, tenuto in collo da una piccola negra popputa come un’ottentotta; tutti stretti in un gruppo sul sedile vicino all’albero di mezzana, silenziosi, che parevano statue: e giravano tutti insieme i loro grandi occhi neri sopra le persone che passavano, come se un meccanismo solo li movesse. Il padre e la madre stavano appiccicati, come se fossero gelosi l’un dell’altro, e avevano l’aria di gente ricca; ma inselvatichita forse nella solitudine d’una di quelle fazendas dell’interno del Brasile, formicolanti di schiavi negri, e circondate di campi sterminati di zuccaro e di caffè; alle [p. 107 modifica] quali non si giunge che in lunghi giorni di cammino a traverso a fitte foreste. Stava sul sedile di fronte al loro, ricamando, con le spalle rivolte al mare, la signorina pianista: e osservai il garbo con cui maneggiava le piccole forbici, e l’arte fina con la quale guardava lungamente tutti, senza che alcuno potesse incontrare il suo sguardo, e senza che nei suoi occhi freddi scintillasse la più leggera espressione di curiosità. Sua madre, intanto, discorreva con l’agente di cambio che le stava davanti in piedi, e dal sorriso di questo, si capiva che essa doveva fare a pezzi con delicata ferocia qualcuno o parecchi della compagnia. Un vivo lampo d'invidia che le passò sugli occhi mi annunziò l’apparizione della signora argentina, non più veduta da due giorni; la quale veniva innanzi, vestita elegante e semplice, appoggiandosi al braccio di suo marito, con un passo e un sorriso di convalescente, che non nascondeva la compiacenza d’esser guardata da tutti. Era davvero un bell’esemplare della bellezza opulenta del sangue creolo: i capelli e gli occhi nerissimi, velati dai lunghi peli delle palpebre; la carnagione bruna e calda, d’una maravigliosa freschezza, e un’ondulazione graziosissima nell’andatura, che assottigliava e alleggeriva all’occhio la [p. 108 modifica] pienezza formosa della persona. E in quell’andatura, e nello sguardo, e nei modi, visibilissima l’alterezza lieta della porteña, a cui si consente il primato sul bel sesso dell’America latina, la sicurezza ardita della donna nata in una società di lotta e d’avventure, la quale rispetta lei sola e l’educa fin da bambina a sopportare coraggiosamente i rovesci della fortuna. A passo lento, con una disinvoltura sorridente di padrona di casa, fece il giro del cassero, come di una sala da ballo, e s’andò a sedere vicino alla bussola; alla vera, quella che ella non avrebbe potuto far perdere, per fortuna di tutti. Intanto s’andavano formando e sciogliendo vari crocchi di passeggieri, e così io mi trovai un momento in compagnia del genovese monocolo, che aveva sul viso l’espressione solita d’una noia infinita, su cui il solo pensiero del cibo sornuotava, come un guizzo di luce sopra un’acqua morta. Io gli domandai che cosa gli paresse della cucina del Galileo. Egli scrollò il capo e stette un po’ pensieroso; poi, con lo stesso accento con cui avrebbe detto: Mi pare che la Russia abusi della tolleranza europea, rispose: — Ecco... io son franco: mi pare che si abusi dei piatti in umido... È la mia opinione, almeno. — Aveva però stima del cuoco, che era stato all’Hôtel Feder: forte nei piatti [p. 109 modifica] dolci, duecento cinquanta lire al mese, un bell’uomo. E si offerse di presentarmelo. Io rimandai la presentazione a un altro giorno. — Giusto! — disse allora, guardando l’orologio; — vado a dare un’occhiata. Oggi ci dovrebb’essere del pasticcio di fegato. — E lasciò il posto all’avvocato marofobo, che passava in quel momento, stravolto, come sempre. Costui si soffermò a sentire il commesso marsigliese che decantava il mare con le consuete espressioni di fabbrica: — Mais, regardez-done! Est-ce beau! Est-ce imposant! Est-ce grand! J’adore la mer, moi. L’avvocato scrollò le spalle, Indispettito. Il mare bello! Quella era un’idea strana! L’uomo, in casa sua, trova tutto bello, come un cretino. Belle le montagne, bella la pianura; il cielo sereno, bello, il cielo in tempesta, bello; bello dove c’è vegetazione, bello dove non ce n’è. È stupido! Per me il mare non è che un immenso pantano.... E adesso che cosa succede? — S’era inteso un colpo dell’elica più forte degli altri. Egli si guardò intorno con diffidenza. Ma il buffo era che, parlando del mare, egli non vi fissava mai gli occhi: girava tutt’al più un’occhiata rapidissima rasente gli orli del bastimento, come un soldato atterrito getta uno sguardo sul nemico che s’avanza contro la fortezza. — Si consoli, però — [p. 110 modifica] gli dissi — che abbiamo un buon mare. — Ah! mi faccia il favore — , rispose andandosene — ; un buon mare! In mano d’un’ora potremmo esser tutti inginocchiati a raccomandarci l’anima! — In quel punto sopraggiunse l’agente di cambio a darmi parte d’una scoperta. Quella signora grassa, col viso rosso, seduta lì vicino, che la mattina era sempre di cattivo umore, e la sera tutta espansiva? Era svelato il mistero. Beveva come un tegolo. Si diceva che fosse una domatrice, e che avesse il serraglio al Chili. Positivamente: aveva nella cabina una vera bottega di liquori dolci, d’ogni paese e colore, che sorseggiava dal mezzogiorno in poi, senza interruzione, in una collezione di piccolissimi bicchierini, fattisi fabbricare apposta, veri uccelli mosca della cristalleria, con cui cercava di dissimulare a sè medesima il suo vizio. Lo aveva saputo dalla madre della pianista. Lei e la sua cameriera pigliavano una mezza cotta insieme ogni sera, regolarmente, e quando erano a punto, attaccavano discorso col primo venuto, dicendo delle stramberie dell’altro mondo. Sotto i calori, se ne sarebbero intese. In quel momento essa stava discorrendo con un passeggiero di alta statura, a cui non avevo mai fatto molta attenzione: una figura di vecchio [p. 111 modifica] giramondo, che mostrava sulla collottola una lunga striscia rossa. Anche su quello lì correva una voce: si diceva ch’egli fosse un antico capitano marittimo, un cane, e quel segno rosso, la traccia d’un tentativo d’impiccagione l’atto dai suoi marinai, molti anni addietro, in alto mare. Il crocchio diede in una risata, per cui l’“impiccato„ si voltò. E oramai quel soprannome gli sarebbe rimasto. Già ce n’erano altri in corso. A un passeggiere che non parlava con nessuno, perchè aveva il naso a becco e le orecchie ad ansa di una certa testa dell’Uomo delinquente del Lombroso, era stato posto il nomignolo di “incendiario.„ Il francese sospetto del Figaro si chiamava addirittura il ladro. E un altro, non so perchè, era designato comunemente col titolo di Direttore della società di spurgo inodoro. Alla prima occasione, peraltro, facendo conoscenza, gli uni stringevano la mano agli altri da buoni amici. — To’ — disse a un tratto l’agente.— La svizzera e il toscano sono scomparsi! Scappo sotto a dare un’occhiata. — Gli osservai che quello che sospettava era impossibile, perchè sotto c’eran le cameriere. — Al contrario! — rispose. — Sentinelle avanzate per annunciar l’arrivo del nemico: con uno sbruffo! — E scappò. Io cercai [p. 112 modifica] di nuovo il professore, e lo vidi a pochi passi da me, che meditava profondamente sull’ago calamitato. Se ne staccò appunto nel momento che l’agente ritornava, con la faccia d’un cacciatore che ha fatto presa. — Abbiamo un po’ di movimento, — gli disse quegli, placidamente. — Già,— rispose l’agente; — di beccheggio. — Con questi scherzi amorevoli si passava il tempo.

Il mare non si godeva che sul far della notte, dopo che i passeggieri l’avevano sgombrato, tranne due o tre solitari. A quell’ora, quando sul cielo ancora un po’ chiaro a occidente, il mare intagliava una linea nera purissima, ed essendo tutto nero, come un mare di pece, non attirava gli occhi in alcun punto determinato, era piacevole abbandonarsi a quel va e vieni di pensieri slegati e laceri, che somiglia al movimento delle immagini nel sogno; a cui battevano la misura i colpi cadenzati dell’elica. Ma i pensieri, a quell’ora, pigliano il color del mare. Davanti a quella faccia sconfinata delle acque che non mostra alcuna traccia nè dell’uomo nè del tempo, lo scopo del nostro viaggio, i nostri interessi, il nostro paese, tutto ci appare così lontano, confuso, piccolo, misero! E pensare che tre giorni prima di partire siamo stati feriti [p. 113 modifica] nell’anima dal saluto freddo d’un conoscente incontrato in via Barbaroux.... Che pietà! Ora quelli paion ricordi d’un’altra esistenza, che risorgono un momento appena, e precipitano, s’affogano in quell’abisso smisurato che ci si apre sotto ed intorno. E ci abbandoniamo al mare sopra una nave immaginaria che vada e vada senza posa, di là dalle ultime terre, per quell’immenso oceano australe, da cui tutti i continenti apparirebbero a un Micromega come raggruppati, rattratti nell’altro emisfero per la paura della sua solitudine. Ma in quella solitudine si perde e si sgomenta la fantasia, e rivola con desiderio impetuoso fra la razza umana, in mezzo alle creature più amate, in quella stanza, dove sono raccolti quei visi, al chiarore d’un lume, che brilla ora alla nostra mente come un sole. Ma quei visi non sorridono, e su tutti è dipinta un’inquietudine pensierosa, e l’idea che ogni giro dell’elica accresce la distanza enorme che ci separa da loro, ci rattrista. Distanza enorme? Per scemarla nel nostro concetto, ci proviamo a rimpicciolire il pianeta col paragone dell’universo: una goccia d’acqua sopra una molecola di mota: quale distanza possono interporre gl’infusori fra loro? Ma il pensiero è forzatamente ricondotto alla [p. 114 modifica] comparazione del mondo con noi medesimi, e il sentimento consueto della maraviglia rinasce. Sì, un’enorme distanza ci divide. Scacciamo dunque l’immagine di quei visi. Ripensiamo al mare, addormentiamo la mente sopra queste acque infinite. Che bel mare! E che pace! Eppure anche questa solitudine solenne quanti orrori ha veduti! Ha veduto passare gli avventurieri ingordi d’oro, che affilavano le armi per i macelli infami del nuovo mondo, rivolte di schiavi schiacciate nel sangue dentro alle stive dei negrieri, lunghi martirii di equipaggi famelici, naufragi orrendi nelle tenebre, agonie forsennate di famiglie avviticchiate alle sommità degli alberi, e urlanti col viso al cielo il nome di Dio, soffocato dall’onda. E questo potrebbe seguire a noi. per lo scoppio d’una caldaia, questa notte, fra un’ora, fra un minuto. Rabbrividendo, ci raffiguriamo allora la discesa lenta del nostro cadavere, giù di zona in zona, a traverso ad altrettanti mondi diversi di piante, di pesci, di crostacei, di molluschi, lungo una verticale di otto mila metri, fino all’oscurità fredda di quella distesa sterminata di fango vivente e di scheletri microscopici che forma il fondo del mare... [p. 115 modifica]

L’enigma della vita
Là sotto ondeggia e mormora...

Di chi son questi versi? Ah! il mio buon Panzacchi! Che farà ora? E qui ci si presenta la visione d’una serata festosa del Circolo degli artisti di Torino, come un gran cerchio luminoso che corra sul mare col piroscafo, e in cui girano, brillano cento visi conosciuti, e par di sentire le risa e le voci. Poi, a un tratto, si spegne. Lampi, sogni, tutte le amicizie, tutte le gioie, tutte le opere umane: la realtà eterna non è che questa formidabile massa d’acqua che fascia quattro quinti della terra, e questa terra, questa testa spaventosa, col cocuzzolo di ghiaccio e il cervello di fuoco, che fugge urlando e piangendo nell’infinito. Oh mistero! Prodigio! Se si potesse restar qui, in un’isola, per secoli e secoli, con la fronte nelle mani, a pensare, pensare, pur di riuscire a comprendere una volta, anche per la durata d’un lampo!

Duu! Cinqu! Vott! Tucc! — Mi riscossero queste grida d’un gruppo d’emigranti lombardi che giocavano ogni sera alla mora sul castello centrale. A quell’ora, nel salone di sotto, si [p. 116 modifica] giocava agli scacchi e al domino; i passeggieri che dormivano in coperta ricevevan gli amici nei camerini illuminati, dove bevevano il Bordeaux o la birra; e a prua, intorno all’osteria, c’era ressa di passeggieri, che si presentavano col loro buono, debitamente firmato dal Commissario, per una tazza di caffè, per un bicchierino di rum, per un mezzo litro di vino, tanto per festeggiare la giornata finita. Andai a prua, a zonzare un poco, come un malvivente, sotto la protezione dell’oscurità, nella quale apparivano come ombre dei gruppi di donne coi bimbi addormentati sul seno, degli uomini che trincavano soli, in disparte, dei giovanotti che andavano in volta, tra la folla, con dei musi di cani da caccia, ficcando gli occhi in tutti i canti. E quella sera, per la prima volta, assistetti alla separazione dei due sessi, che si faceva sotto la sorveglianza del piccolo marinaio gobbo, incaricato di mandar le donne a dormire. Erano corsi, dalla partenza, nove giorni di vita claustrale all’aria aperta: gli affetti matrimoniali s’erano riattizzati un poco, e oltre alle legittime, s’eran formate delle coppie nuove, in cui quella maniera di vita produceva lo stesso effetto che nelle altre. Ma il gobbetto grigio doveva spartirle tutte egualmente, senza [p. 117 modifica] considerazione di alcun diritto legale, e ogni sera alle dieci, puntuale e inesorabile come il vecchio Silva, compariva con la lanterna alla mano, e cominciava a girare per tutti gli angoli, a sciogliere amplessi e a troncar colloqui amorosi, dicendo ogni cinque passi: — A letto! A letto, donne! A letto, ragazze! — Era una scena delle più comiche. Le coppie resistevano; separate qui, s’andavano a riattaccare più in là, tra il macello e il lavatoio, all’ombra della cambusa, dietro ai gabbioni, nei passaggi coperti, in tutti i luoghi dove non battesse il lume d’un fanale. E il povero gobbo ritornava sui suoi passi, ripetendo pazientemente; — Andemmo, donne! Andemmo, figgie, che l’è ôôa! — Qualche volta, per ingraziarsi le renitenti, diceva: — Andemmo, scignóe! — A capo d’un quarto d’ora, le donne sfilavano in processione, in mezzo a due ali d’uomini, come a una passeggiata di gala, e sparivano l’una dopo l’altra, per le porticine dei dormitori, giù nel ventre del bastimento. Alcune tornavano indietro a porgere ancora una volta i bimbi al bacio del marito, o a stringere e ristringere la mano ai nuovi amici; altre si soffermavano a chiamare i ragazzetti rimasti indietro; — Gioanniiin! — Baccicciiin! — Putela! — Picciriddu! — Piccinitt! — Gennariello! — e [p. 118 modifica] la lanterna tenuta in alto dal gobbetto rischiarava degli sguardi languidi di belle ragazze, degli occhi lustri di giovanotti, delle facce di mariti scontenti, a cui il regolamento pesava. — Andemmo! Andemmo! — continuava a gridare il gobbetto. — Un po’ ciù presto, scignóe! — Finalmente, anche la coda della processione fu sotto. Ma il gobbo, che conosceva i suoi polli, tornò a fare un giro a prua, sicuro di trovarci ancora qualche amoretto rintanato, qualche peccato mortale racchiocciolato al buio; e ce lo trovò in fatti, come ce lo trovava ogni sera. Seguitandolo a pochi passi, sentii le sue esclamazioni di padre guardiano scandalizzato, e le sue minacce, a cui rispondevano delle voci maschili, che lo mandavano al diavolo, ed altre, più dolci, che parea che negassero o domandassero grazia. Ma egli non fece grazia, e vidi passare di corsa delle donne col capo basso, coi capelli in disordine, che cercavan di nascondersi agli sguardi dei curiosi, e sparivano, inseguite da una scarica di colpi di tosse. Spazzato che ebbe gli ultimi rimasugli d’amore, il vecchio gobbo si fermò con la sua lanterna davanti a me, e asciugandosi la fronte con la mano: — Anche questa giornataccia è finita! — esclamò. — Ah! che mestè! — Ma sul suo viso rozzo di [p. 119 modifica] buon diavolaccio, mentre guardava giù per la scala del dormitorio, si leggeva un sentimento di pietà per tutta quella miseria, e fors’anche per tutti quei desideri che aveva cacciati là sotto “d’ordine superiore„. — È un duro dovere, eh? — gli dissi, per attaccare discorso, e sentire una delle sue sentenze filosofiche. Egli mi guardò in viso, alzando un po’ la lanterna, e, dopo un momento di riflessione, disse sentenziosamente: — Quando un ommo si trova nella posizione che mi trovo mi, di giudicare il mondo com’è che si presenta a bordo, poveri e scignori, e le cose che succedono in mare, da ridere e da piangere, tanto donne che uomini, ma ancora più le donne che gli uomini, mi creda, scignore, quello lì si forma un’idea, che non si stupisce più di niente, e compatisce tutto. — Detto questo s’allontanò; e scomparsi a poco a poco anche gli uomini, il piroscafo rimase queto e in silenzio, come uno smisurato animale che scorresse sulle acque assopito, non facendo sentir altro che le pulsazioni regolari del suo cuore mostruoso.