Sull'Oceano/Sul tropico del Cancro
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SUL TROPICO DEL CANCRO
Il giorno dopo si doveva passare il tropico del Cancro. Me ne diede l’annunzio la mattina presto il solito cameriere, abbassando gli occhi: poiché aveva fra l’altre anche questa civetteria, d’abbassare gli occhi, mentre parlava, come per non lasciarsi leggere nell’anima la gioia del suo ultimo trionfo amoroso. Il tropico del Cancro! Era l’annunzio sgradito di quasi tremila miglia di zona torrida che s’avevano a percorrere prima di risentire la carezza fresca degli alisei dell’altro emisfero, e al solo pensarvi mi pareva di sentirmi filare due gocciole tepide giù dalle tempie. Misi il viso al finestrino: una maraviglia! L’oceano placidissimo, tutto argento e rosa, coperto d’un velo diafano di vapori a
cui il sole nascente dava l'aspetto d’un leggerissimo polverio luminoso, e a poche miglia lontano, in mezzo a quella bellezza immensa e virginea dell’acqua e dell’aria, un bastimento grande, che pareva immobile, con tutte le vele aperte e candide, come un gigantesco cigno dall’ali tese, che ci guardasse. Apro, e mi vien nella fronte e nel petto un soffio delizioso d’aria marina, che mi ricorre per le vene, e mi riscote tutto, come l’alito d’un mondo ringiovanito. Il bastimento era un veliere svedese che veniva probabilmente dal Capo di Buona Speranza, il primo che incontravamo dopo Gibilterra. Per pochi minuti mi biancheggiò agli occhi nella chiarezza di quell’aurora incantevole, simpatico come il saluto d’un amico: poi si nascose; e allora l’oceano mi parve più solitario e più silenzioso di prima; ma benigno sempre, come non l’avevo visto ancora, e d’una bellezza gentile, che faceva immaginare all’orizzonte le rive d’un giardino infinito. Era una di quelle mattine in cui i passeggieri si vanno incontro sul cassero col viso ridente e con le mani tese, come se il primo soffio d’aria avesse portato a ciascun di loro una buona notizia.
Ma quel bel tempo a capo di poche ore s’intorbidò, il cielo si coperse di nuvole, e l’aria divenne greve e calda, come se avessimo fatto un salto dalla primavera nell’estate. Eravamo entrati in quella grande massa di vapori, antico terrore dei naviganti, che il caldo dell’equatore solleva dall’oceano e ammonta su tutta la zona intertropicale: e che le creature fortunate di Giulio Verne, quando viaggiano per il cielo, vedono come una fascia oscura tesa attorno al nostro pianeta, simile alle strisce della faccia di Giove. Il bel mare della mattina era stato l’ultimo sorriso della zona temperata, blandita dall’ultimo soffio degli alisei. Ora navigavamo nella regione della nebbia, degli acquazzoni e dell’uggia. E se ne mostrarono subito gli effetti nelle terze classi. L’agente mi venne a cercare nel salone. — Venga a vedere, — mi disse, — le baruffe chiozzotte. Lo spettacolo comincia.
Un gruppo di donne s’era levato a rumore per la distribuzione dell’acqua dolce; della quale, oltre al numero dei litri fissati per ciascun rancio, un marinaio doveva fornire una certa quantità a ogni donna che ne domandasse per suo uso particolare. Ora alcune si lagnavano che a loro fosse stata negata, mentre ad altre era stata concessa. Ma la quistione era intricata, era uno scoppio di risentimenti che covavano da un pezzo contro un’ingiustizia creduta interessata e abituale: le vecchie dicevano che s’usava preferenza alle giovani, che facevan le civette; queste affermavano il contrario: le preferite eran le vecchie, che avevan dei soldi, e ungevano il distributore; altre poi si lagnavano che le meglio trattate fossero le signore, per servilità: le signore! certe povere diavole che di signorile non avevan più che il vestito usato e le memorie. Le protestanti più inviperite s’erano affollate vicino alla cucina, in un angolo dove pendeva da un gancio un grosso vitello sparato. Quando io arrivai, c’era già il Commissario, circondato da quindici o venti ciabattone, rosse come gallinacci, che parlavano tutte insieme in tre o quattro dialetti, segnando con l’indice accusatore il marinaio, un barbone di frate cappuccino, impassibile tra quel ciarlio, come una statua in mezzo a un girone di vento. — Ma se non ci capisco nulla! — rispondeva con la sua placidità solita il Commissario. — Fatemi il santo piacere di parlare una alla volta. — E lo sguardo di qualcuna delle più giovani si raddolciva un momento sulle guance rosee e sulle mani bianche di quel bel giovanotto; ma balenava negli occhi delle altre quell’ira livida, che divampa nelle donne del popolo ogni volta che leticano, anche per una cosa di nulla, con gente delle classi superiori, e che vien da un cumulo di rancori antichi e confusi, estranei alla cagion del momento. — Inn balossad! — si sentiva dire. — Pure nui avimmo pagato, signurì. — A l’è ora d’finila! — E le querele femminili eran sostenute dal brontolio sordo d’una schiera d’uomini, i quali, spassandosela in cuor loro come a uno spettacolo, istigavano però il malcontento per ispirito di classe e anche un poco per una certa coscienza baldanzosa di futuri cittadini repubblicani. Finalmente il Commissario ottenne un po’ di silenzio, e una donna sola parlò. Io non vedevo altro che una capigliatura scarduffata e un indice minaccioso che tagliava l’aria, battendo il tempo a una parlantina di raganella; quando uno scoppio d’esclamazioni coperse quella voce: — Non è vero! — Tazé vu! — Busiarda! — Che 'l me senta mi! — A l’è n’onta! — E già nel serra serra qualche bambino piangeva, ed eran lì lì per menar le unghie....
All’improvviso s’udì da un’altra parte uno strillo acuto di donna, si vide accorrer gente vicino all’albero di trinchetto, e in pochi momenti formarsi una folla, di mezzo a cui si alzò uno scroscio di risa e parve che partisse una notizia; la quale rapidamente propagandosi, propagò la risata fino agli ultimi accorsi, e fece accorrer altri da ogni banda; tanto che in breve fu tutto un rimescolio e un ridere dalle cucine al castello di prua. Ma un ridere grasso e sguaiato, accompagnato da uno strizzar d’occhi e da un ricambiarsi di colpi di gomito e di spalla, che diceva aperto la natura della sorgente comica da cui derivava. E tale fu la curiosità destata da quel ridere, che le stesse litiganti, dimenticando a un tratto il loro piato, si dispersero qua e là, per domandare che cosa fosse accaduto. Era accaduto che due pesci volanti, spiccando il volo ad arco sopra il piroscafo e urtando tutti e due quasi ad un punto nelle sartie, erano cascati sopra coperta, e l’uno aveva battuto tra le ruote del verricello, l’altro s’era andato a cacciare a capo fitto nell’incrociatura del fazzoletto da collo d’una ragazza, ma proprio tra i due rialti fioriti, come se avesse avuto l’intenzione di proseguire il cammino. Quando la folla s’aperse, la ragazza scappò a nascondersi dietro al macello, e un emigrante burlone portò in giro il pesce inverecondo, vociando non so che cosa, a modo degli spiegatori dei serragli, fin che il Commissario lo fece tacere con un cenno. Ma le buffonate e le risa continuarono per un altro pezzo, e le due belle rondini marine, scintillanti come l’argento, passando di mano in mano, ammirate e commentate con discorsi infiniti, servirono a quietare un poco l’irritazione nascente delle “classi lavoratrici.„
Intanto io notai tra la folla parecchi passeggieri di prima, il marsigliese, il toscano, il tenore; i quali dovevano aver l’abitudine di far delle corse d’esploratori nelle terze classi. Quella che dava più nell’occhio era la faccia di Napoleone idropico del marsigliese, il quale gironzava intorno alla boccaporta del dormitorio femminile, dondolando sulle gambe arcate il suo lungo busto di Patagoue. Mi disse poi l’agente di cambio che fin dal primo giorno del viaggio egli aveva iniziato una serie di visite regolari al bel sesso emigrante, con delle intenzioni di seduttore, alle quali alludeva socchiudendo un occhio: — Il y a quelque chose à faire par là, savez vous? — E aveva cercato di agevolarsi la via ostentando con gli uomini una certa simpatia nazionale, riscalducciata di socialismo; ma pare che oltre al trovar poca corrispondenza nei più, fosse stato salutato da alcuni con certe apostrofi da levare il pelo. Le persone gentili d’animo e di coltura, nelle quali è innato e fortificato dall’educazione il sentimento dell’eguaglianza, non immaginano quanto sia àncora comune nella nostra borghesia democratica il disprezzo quasi inconscio del popolo, e come sian pochi quelli che gli sanno parlare senza umiliarlo, anche quando se lo vogliono ingraziare, fingendo di trattarlo da pari a pari. Vista dunque la mala riuscita dei primi tentativi, il marsigliese aveva diradato le visite, e ridotto il suo scopo a una semplice “ricerca artistica „ della bellezza; e scopriva ogni tanto una bellezza, infatti, della quale faceva la descrizione a tavola, vantandosi di distinguere i vari tipi d’Italia, sentenziando sul naso toscano, sulla bocca veneta, sulle “attaccature„ lombarde, con una sicumera impossibile a immaginarsi, e benché più d’uno gli avesse già provato che pigliava la Calabria per la Val d’Aosta, e altri granchi colossali, egli tirava via imperterrito a dar lezioni a tutti quanti. La bouche de la femme toscane... Le type genois, messieurs... J’ai remarqué que l’angle facial napolitain.... Il y a là une nuance, je vous assure... Era uno spasso. Ma alla colazione di quella mattina non riuscì neppur lui a rallegrare i commensali, che sentivano i primi influssi del tropico, e la cui musoneria stonava lepidamente con le vesti chiare e coi panciotti bianchi che quell’estate improvvisa aveva fatti apparire. Solo per qualche minuto egli ci ricreò con una discussione sulle teorie malthusiane, nella quale lo tirarono per celia gli argentini, e principalmente intorno al vecchio quesito, se l’emigrazione sia un rimedio sufficiente al troppo rapido accrescersi della popolazione d’un paese. Digiuno affatto del Malthus, ma cocciuto a mostrarsi al fatto di tutto, egli sosteneva avventatamente che l’emigrazione spopolava gli Stati, che l’Europa, fra cent’anni, sarebbe stata mezza deserta, con gli orsi e i lupi alle porte delle capitali. Gli altri affermavano di no: locuras! (pazzie): in tutti i paesi le nascite superando le morti, non solo, ma nei paesi abbandonati moltiplicandosi più facilmente la specie per effetto dell’agevolazione dei matrimoni, prodotta da una più favorevole proporzione tra i mezzi di sussistenza e il numero degli abitanti, ne seguiva che i vuoti fossero sempre colmati, ad esuberanza. La prova era che nei paesi donde più si emigra non si esperimenta, alla lunga, una diminuzione sensibile di miseria. — Pas possible! — rispondeva il marsigliese arditamente. — Prouvez-moi cela! — Ma quelli, con la prontezza e la memoria mirabile che li distingue, citavano: anche negli anni dello maggiori emigrazioni, dice il Malthus, il popolo d’Inghilterra non cessò d’essere in preda al bisogno. — Malthus n’a pas dit cela! — Come? Come? — Ma quegli senza insistere nè disdirsi, batteva la campagna. — Stuart Mill, — continuavano gli altri, — ha detto che l’emigrazione non dispensa dalla necessità di combattere l’aumento della popolazione. Convenite che ha detto questo? — E l’altro, francamente: — Pas précisément, messieurs. — E non conosceva Stuart Mill più del Malthus, e s’incaponiva, fra le risate dei suoi contradittori, che capivano il gioco. Fu quella l’unica nota gaia della colazione. L’orizzonte nebbioso, il mare grigio, il caldo che cominciava a far luccicare le fronti tennero chiuse tutte le altre bocche dal principio alla fine. Non c’era che la signora bionda che serbasse la faccia fresca come una mela rosa, gittando un doppio zampillo continuo di parole negli orecchi del marito che aveva a sinistra e del tenore che aveva a destra, ed esortando tratto tratto, con uno sguardo pietoso, il toscanello che le sedeva davanti, a non ingelosirsi del suo nuovo amico. E si dovette ancora a lei un soffio d’ilarità che passò per i crocchi sbadiglianti sul cassero, durante l’ora grave della chilificazione. Correva di bocca in bocca fin dalla mattina un ingenuo sproposito che rivelava quanto fossero incomplete e confuse le idee geografiche sotto quella capricciosa capigliatura d’oro. L’agente, incontrandola, le aveva detto: — Signora, quest’oggi passeremo il tropico del Cancro. — Ed essa aveva risposto con allegrezza: — Oh finalmente! almeno si vedrà qualche cosa.
Io però non capivo ancora come a bordo fosse possibile d’annoiarsi: anzi mi rallegrava la vista degli annoiati per la stessa ragione che si prova più piacevole il sentimento della salute in mezzo a gente che soffra il mal di mare. E quel giorno non mi poteva mancare lo spettacolo: tra il tocco e le quattro specialmente, che è sempre l’ora più terribile, incominciai a veder delle facce da far dire: — A momenti costui si decompone, e bisognerà spazzarlo fuor di coperta. — Non era la noia che il Leopardi chiama il più grande dei sentimenti umani; ma un imbecillimento compassionevole, che si manifestava in una cascaggine generale di palpebre, di guance, di labbra, come se le facce fossero fatte di carne lessa. Fra i più martoriati, trovai il genovese, che stava affacciato all’osteriggio della macchina, con un viso su cui non appariva più nemmeno un riflesso moribondo d’intelligenza. — Che cosa fa qui? — gli domandai; — come non è in cucina? — N’erà uscito allora; nessuna novità. I tagliatelli! domani...forse; ma non era accertato. E mi spiegò perchè stesse là a guardare per lungo tempo il movimento monotono di un’asta di stantuffo; una teoria sulla noia, sua personale. — Ho osservou, diceva, che la noia deriva dal non poter fare a meno che pensare a cose spiacevoli. Dunque, per scacciar la noia, non c’è altro rimedio che di non pensare, come le bestie. Ebbene, io mi metto qui, immobile, a guardare il saliscendi di quello stantuffo. A poco a poco, in meno di venti minuti, mi riduco in uno stato di completo istupidimento, un vero asino; allora non penso più a niente e non mi annoio più. No gh’è atro.— Io diedi in una risata; ma egli rimase serio, e tornò a guardar lo stantuffo con l’occhio dilatato e fisso d’un morto. Stavo per dirgli che, per cacciar la noia, sarebbe stato meglio discendere addirittura a veder la macchina; ma parendomi che si trovasse già quasi nello stato desiderato, me ne astenni. E discesi io. Un’osservazione appunto mi veniva fatta ogni giorno, passando di là: quella macchina meravigliosa, non dieci forse dei mille e settecento passeggieri del Galileo sarebbero stati in grado di dire che cosa fosse, e neppure avevan curiosità di saperlo. Così di cento altri miracoli meccanici dell’ingegno umano, dei quali ci serviamo o andiamo alteri, noi siamo poco meno ignoranti dei selvaggi che disprezziamo perchè li ignorano. Eppure non solamente per l’ignorante che non n’ha altra idea da quella d’un pentolone gigantesco e d’un intrico misterioso di ruote, ma anche per chi ne acquistò qualche nozione nei libri, è un piacere nuovo e grande la prima volta che si decide a infilare il camiciotto turchino d’un macchinista e a discendere in quell’inferno tenebroso e sonoro, di cui non aveva mai visto che il fumo per aria. Quando s’è arrivati in fondo e si leva il capo a guardare in su, dove non appare più il giorno che come un barlume, ci pare d’essere calati dal tetto giù fra le fondamenta d’un alto edilizio; e alla vista di tutte quelle scalette di ferro ripidissime che s’alzano l’una sull’altra, di quelle griglie orizzontali che girano sul nostro capo, di quella varietà di cilindri, di tubi colossali e d’ordigni d’ogni fatta, agitati da una vita furiosa, formanti tutti assieme non so che spaurevole mostro di metallo, che occupa con le sue cento membra palesi e celate quasi una terza parte del piroscafo enorme, si rimane immobili dalla maraviglia, umiliati di non comprendere, di sentirsi così piccoli e deboli davanti a quel prodigio di forza. Cresce ancora l’ammirazione quando si penetra nel vulcano che dà vita a ogni cosa, fra quelle sei smisurate caldaie, sei case d’acciaio, divise da quattro strade che s’incrociano, simili a un quartiere chiuso e infocato, dove molti uomini neri e seminudi, dai volti e dagli occhi accesi, ingoiando a ogni tratto delle ondate d’acqua, lavorano senza posa a pascere trentasei bocche roventi, le quali divorano in ventiquattr’ore cento tonnellate di carbone, sotto il soffio di sei colossali trombe a vento, ruggenti come gole di leoni. Par di ritornare alla vita quando, uscendo di là grondanti di sudore, ci ritroviamo davanti alla macchina, dove pure ci pareva, poco innanzi, d’esser quasi sepolti. E non di meno si stenta un pezzo ancora a riavere la mente libera. Il macchinista ha un bello spiegare. Quel movimento vertiginoso di stantuffi, di bilancieri e di turbine, che gl’ingrassatori rasentano con un’apparenza di noncuranza che fa rabbrividire; quel frastuono assordante che producono insieme lo strepito metallico delle manovelle, i fischi delle valvole atmosferiche, il rumor sordo delle pompe ad aria e i colpi secchi degli eccentrici; quel va e vieni di spettri coi lumi alla mano, che salgono e scendono per le scalette, spariscono nelle tenebre, riappariscono di sopra e di sotto, facendo scintillare per tutto acciaio, ferro, rame, bronzo, e rischiarando di volo forme strane, movimenti incompresi, passaggi e profondità sconosciute, tutto questo ci confonde nel capo anche le poche idee nette che avevamo prima di scendere. E ci sentiamo rassicurati davanti alla grandezza poderosa dei meccanismi; ma scema questo sentimento a poco a poco, al veder con che cura minuta i macchinisti li vigilano, e con che attenzione inquieta stanno a sentire se in quel concerto uniforme di suoni scappi la più leggera nota stonata, e se fra quei vari odori abituali si avverta menomamente il bruciato; e come corrono a toccare qua e là se la temperatura dei metalli superi quel dato grado, a vedere se spunti in qualche parte un indizio di fumo sospetto, a mantenere costante la pioggia d’olio che da cinquanta lubricatori scende di continuo su tutte le articolazioni dell’immane corpo. Perchè quel corpo immane, che affronta e vince le tempeste dell’oceano, è delicato come un organismo umano, e il più piccolo turbamento del più piccolo dei suoi membri lo sconturba tutto, e vuole un rimedio immediato. A un corpo vivo egli rassomiglia infatti, assetato, come gli uomini che gli danno il pasto, dall’incendio ch’egli bolle nel ventre, e costretto a tracannar senza tregua dal mare un torrente d’acqua, ch’egli rigetta in fontane fumanti; e tutto quel complesso di ordigni è come un torso titanico, di cui tutti gli sforzi convergono nell’impulso formidabile d’un lunghissimo braccio di ferro, col quale gira la gran vite di bronzo, che lacera l’onda e muove tutto. Si guarda e vengono in mente le antiche liburne, con le tre coppie di ruote ad ali, mosse da buoi; e s’immagina con un senso d’alterezza lo stupore che inchioderebbe là un antico a quella vista, e il grido d’ammirazione che gli uscirebbe dal petto! Egli però non potrebbe immaginar mai quanto quella maraviglia sia costata ai suoi simili: un secolo di tentativi sfortunati, un altro secolo di trasformazioni continue, una legione di grandi ingegni che spesero intere vite attorno a un perfezionamento che un altro successivo fece cader nell’oblio, e poi il martirio del Papin, il suicidio di John Fitch, il marchese di Jouffroy ridotto alla miseria, il Fulton beffeggiato, il Sauvage impazzito, una sequela interminabile d’ingiustizie e di lotte miserande, da lasciare in dubbio, leggendo la storia delle grandi invenzioni, se basti l’esempio del genio e della costanza eroica di chi le fece, a consolare la coscienza umana dell’ignoranza caparbia, della cupidigia feroce, dell’invidia infame che le ha combattute, e che, potendo, le avrebbe uccise. Tutto questo dice con le sue cento voci aspre e affannose quel colosso mirabile, destinato forse anch’esso a parere ai nostri nipoti lontani un rozzo e debole apparecchio di principianti.
Risalendo, incontrai sulla sommità della scala il grande prete, il quale, accennandomi con una mano la macchina, mi rizzò l’indice dell’altra davanti al viso, come un cero. Non capii. Voleva dirmi che la macchina del Galileo era costata un milione. Lo ringraziai, scansando il dito, e mi ritrovai sopra coperta a tempo giusto per vedere per la prima volta il mio Commissario nell’esercizio delle sue funzioni di pretore, e in una causa curiosissima. Entrava in quel momento nel suo ufficio la grossa bolognese di prua, con una faccia di leonessa ferita, e col suo inseparabile borsone a tracolla. L’uscio non essendo mascherato che da una sottile tendina verde, si sentiva qualche parola. Povero Commissario! Non tardai ad avere un’idea della santissima pazienza che egli doveva esercitare in quella specie di sedute. La voce della querelante incominciò concitata dalla collera, piena di superbia e di minacce. Non capii altro se non che si lagnava d’un’ingiuria, e che questa doveva essere una supposizione che aveva fatta un passeggierò sopra il contenuto del suo borsone misterioso. Riferiva il fatto, chiedeva la punizione dell’ingiuriatore, intimava al Commissario di fare il suo dovere. Questi la richiamò al rispetto della carica e le raccomandò di calmarsi, promettendo di domandare informazioni. A quelle parole, la voce di lei si raddolcì un poco, e mi parve che incominciasse un racconto, con un’intonazione sentimentale, che s’alzava grado a grado al drammatico. Sì, era la sua autobiografia, una delle solite: una famiglia distinta; un parente che scriveva nei giornali, e che avrebbe messi tutti a segno; la madre, il padre, una buona educazione, e poi delle disgrazie, l’ingiustizia della sorte, una vita illibata.... A un tratto, la crisi inevitabile: uno scoppio di pianto. Allora udii la voce del Commissario che la confortava. E intanto si era formato davanti all’uscio un gruppo di donne e d’uomini della terza classe, fra i quali una faccia buffa di contadino, a cui mancava la punta del naso, e che doveva essere il reo, che s’andava scolpando: — Infine... non ho mica detto d’esser sicuro, io...: non ho fatto altro che una supposizione... — Era il reo. Infatti, essendosi affacciato all’uscio il Commissario, egli disse: — Son io, — ed entrò. Subito s’udì un’eruzione d’improperi bolognesi, che mandarono all’aria la famiglia distinta: — Carogna d’un fastidi! At el feghet d’avgnìrom dinanzi? At ciap pr’el col, brott purzèll! brott grògn d’un vilan seinza educazion! — Poi s’intesero le tre voci insieme, poi quella sola del colpevole. Diamine! La cagione della lite era proprio il contenuto ipotetico di quella famosa borsa, intorno al quale si beccavano il cervello da nove giorni tutti i capi ameni di prua, facendo lo più bizzarre congetture del mondo. Ma la parola incriminata non s’intese. S’intese però il Commissario fare una risciacquata al contadino, minacciandogli i ferri, e questi chieder scusa, e la bolognese brontolare ancora; dopo di che l’uno uscì a capo basso e l’altra a fronte alta; ed io, alzala la tendina verde, vidi il giudice buttato a traverso al divano, con le mani sui fianchi, soffocato da un accesso d’ilarità, e spossato dallo sforzo che aveva fatto per contenerlo. Qual’era dunque la supposizione? Che cosa ci doveva essere in quella benedetta borsa?... Oh! Impossibile indovinarlo! Una delle più buffonesche stramberie che possano passare pel capo d’un burlone impertinente; una pensata di cui avrebbe riso sotto i baffi anche il più arcigno moralista, e a cui l’autore delle Baruffe chiozzotte, salvo il rispetto, avrebbe potuto apporre il suo nome. E fui costretto anch’ io a chieder aiuto al divano. Ma dovetti alzarmi subito perchè entrava un’altra donna a lagnarsi d’una voce che avevano “messa in giro„ a suo carico. Povero Commissario! — gli dissi uscendo; — la giornata è cominciata male e minaccia di finir peggio. — Eh! questo non è nulla! — rispose con la sua dolce rassegnazione. E data un’occhiata al termometro: — Vedrà — soggiunse — quando saremo ai trentasei gradi. — E ripresa la sua faccia di pretore, si rivolse alla nuova venuta.
Ma già il caldo aveva guastato le cose anche a poppa, come potei vedere benissimo la sera. Era una cosa da far compassione davvero. Fra quei quattro gatti, che dieci giorni prima non si conoscevano, che dopo altri dieci giorni si sarebbero separati per sempre, che avrebbero dovuto tutti non pensare ad altro che agli affetti o agli interessi che avevan lasciati in Europa o da cui erano attesi in America, là, su quelle quattro tavole sospese sopra l’abisso, s’era già ordita una trama intricata d’antipatie e d’inimicizie: astii nazionali fra il chileno e gli argentini, fra il peruviano e il chileno, fra gli italiani e i francesi; picche fra italiani di province diverse; gelosie miserabili d’ambizione fra le signore; una fungaia di passioncelle vergognose, che si manifestavano in sguardi maligni, e in ostentazioni reciproche di trascuranza o di avversione. Una metà dei passeggieri avrebbe messo le dita negli occhi all’altra metà. E non conto le altre sudicerie. E così nelle terze come nelle prime. Veramente, se il Galileo fosse andato a fondo tutt’a un tratto, non avrebbe affogato un grande carico di nobili sensi. Le due sole persone che, a giudizio d’occhio, avrebbero meritato di sornuotare, erano la signorina di Mestre e il garibaldino, che anche quella sera stavan seduti vicini, discorrendo. La relazione, mi disse l’agente di cambio, era nata da questo: che lui era stato compagno d’armi d’un fratello della ragazza, ferito a Bezzecca, e morto in un ospedale di Brescia. Certo, egli doveva vivere col pensiero al disopra delle misere passioni degli altri, poiché il suo viso esprimeva una così ferma noncuranza di sé, della vita, della gente, un così alto e freddo disprezzo d’ogni bassezza, che nessuno se gli avvicinava, come se tutti avessero fiutato in lui un nemico d’istinto. Essa parlava; egli l’ascoltava, rispettoso, ma impassibile. E mi colpì, e mi rimase nella mente come l’impressione più viva di quella giornata, il modo come si separarono, la sera tardi: vedo ancora davanti a quella larva bianca, a quel viso di morta, su cui non balenava più altro che un raggio di speranza in un’altra vita, alzarsi e chinare il capo quel bel colosso sdegnoso, segnato dell’impronta del suicidio.