IV

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III
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IV.

In un enorme vassoio, tenuto fermo da due chierici, innanzi all’altare, alla fine dell’ultima messa, il giorno dell’Annunziazione, nella chiesa della Madonna dell’Aiuto, era stata solennemente benedetta la veste nera, ricamata di oro, e il manto nero, ricamato di oro, che dovean vestire, in quel giorno, la grandissima statua della Madonna Addolorata, nella bottega dei santi. Sovra la ricca tunica piegata e sovra il ricchissimo manto, scintillanti, ambedue, dell’oro lucido, onde erano fittamente ricoperti, sicchè, quasi, il nero spariva, e l’oro trionfava, solo, su queste vesti, erano deposti, per esser anche benedetti dalle parole rituali del sacerdote e dall’acqua santa, la corona di argento massiccio e lavorato che doveva cingere il capo della Dolente e fermarne l’ampio manto sul sommo della testa, le sette spadette di argento dall’elsa lavorata, che dovevano esser confitte in cerchio, in raggiera, sul petto della Dolente, il soggolo di finissima lieve battista bianca che doveva serrarle il collo, e il fazzoletto di battista bianca, piccolo, orlato a giorno, con merletti, che deve esser messo nella piccola mano convulsa [p. 150 modifica] e tesa di Maria dei Dolori, mentre l’altra mano si stringe sul petto, trafitto dalle spade. La pia tradizione impone che ogni sacro indumento, prima di vestire, di adornare le statue e i busti dei santi, abbia invocata, da Dio, la benedizione del Cielo; ed è una funzione umile e commovente, insieme, cui sono avvezzi i divoti di quelle chiese, che sorgono presso le botteghe dei santi. In ginocchio, con cuore teneramente soddisfatto, tutti coloro che avevan lavorato alla statua ed alle vesti della Madonna Addolorata, avevano udita la messa ultima, e curvato la testa alle parole potenti della benedizione: vi erano Domenico Maresca, il pittore dei santi, lo stuccatore e indoratore Gaetano Ursomando; la ricamatrice donna Raffaellina Galante, con le due nipoti sue, Concetta e Fortunatina, che, anch’esse, avevano aiutato per molti mesi al ricamo; lo sciancato Nicolino. Con l’arte, con il semplice lavoro manuale, molto o poco, ognuno di essi aveva contribuito a erigere, a vestire, ad adornare il maestoso simulacro della Dolente e ognuno di essi ringraziava il Signore di aver compiuto, grandemente e umilmente, la bella opera.

Poichè nell’autunno trascorso, il gentiluomo dalla vita oscura e bizzarra, che già due volte, aveva fatto cominciare a tutti, pittori, stuccatori, cucitrici, ricamatrici, il non breve e difficoltoso lavoro, sparendo poi, per lungo tempo, senza dare più nessuna notizia di sè, nell’autunno trascorso era riapparso. Più stanco, più vecchio, più affranto nella sua bella e nobile fisonomia, egli era tornato [p. 151 modifica]di nuovo, riarso dal desiderio di avere la sua statua, per soddisfare un voto del suo spirito, che troppo aveva tardato a compire. E, questa volta, egli era ritornato, sempre, ogni settimana, di sera, alla bottega dei santi, nelle ore in cui sapeva di non trovarvi che Domenico Maresca, talvolta solissimo, talvolta solo con Gaetano, personaggio muto che si curvava sempre più sul lavoro, quasi a perdervisi dentro, per far dimenticare la sua presenza. Di fronte all’ardore febbrile del gentiluomo, alla profusione del danaro, Domenico Maresca non aveva potuto resistere, e avea dovuto abbandonare altri lavori, meno urgenti, in verità, e dedicarsi tutto quanto alla statua della Dolente; aveva dovuto, ogni due giorni, di fronte alle affannose insistenze del duca, recarsi a casa della ricamatrice, in quel quinto piano di via Mezzocannone, ove, in una stanza vasta e nuda, era teso il larghissimo telaio della veste nera e, in tre punti diversi, a capo chino, donna Raffaellina Galante e le due nipoti Fortunatina e Concetta, ricamavano, per ore e ore, senza levare gli occhi, sollevando solo la mano, alternatamente, muovendosi solo, un pochino, per prendere le forbici, o la gugliata di filo d’oro, non dicendo una parola, con la luce che batteva sulla testa pallida e affinata, ma dagli occhi vividi, della zia, sulle teste, già un po’ consunte dalla fatica lunga e paziente, delle nepoti. Da novembre a marzo, tutti, tutte, non avevano fatto altro che lavorare per questa Madonna Addolorata, la più grande e la più ricca statua che fosse uscita dalla bottega dei santi di Domenico Maresca, [p. 152 modifica] a sua memoria, vestita della più splendida veste ricamata d’oro, a memoria di donna Raffaellina la ricamatrice, che aveva cinquantacinque anni e che ricamava da quarant’anni. Il gentiluomo aveva speso, in quei cinque mesi, circa seimila lire per la stoffa, l’oro, gli argenti, l’opera di ricamo, e tutti gli altri oggetti necessari a completare l’imponente figura: aveva anche anticipato cinquecento lire a Domenico Maresca, e doveva dargli, a vestizione completa della statua, il venticinque marzo, mille lire, ancora, di compenso. Anche, aveva promesso un dono in danaro a Gaetano Ursomando e un regaluccio a Nicolino. Così, con costanza e con pazienza, con ardore e con precisione, tutti avevano messo le ore, le giornate, le settimane a questa fatica così ben ricompensata, a questa fatica che, pel più oscuro di essi, era anche una consolazione dello spirito: e così, al giorno stabilito, essi avevano potuto inginocchiarsi innanzi all’altare, e veder santificato il proprio sforzo.

Finita la cerimonia, in chiesa, Gaetano e Nicolino avevano sollevato il vassoio con le vesti, e si erano diretti alla porta, seguiti da Domenico Maresca e dalle tre ricamatrici: altri divoti e divote venivano dietro, quasi in processione, mormorando delle preci, ripetendo delle laudi. La bottega dei santi era dirimpetto: solo pochi passi la dividevano dalla soglia del tempio: e Domenico si fece avanti, con la grossa chiave, ne schiuse le porte, i due uomini col vassoio vi entrarono, vi entrarono le donne: e la gente che era in chiesa, chiedeva di assistere [p. 153 modifica] alla vestizione: si sapeva bene che, là dentro, si preparava qualche cosa di maestoso, in onor della religione, in gloria di Maria. Ma con garbo, con atti brevi e cortesi, quasi senza parole, il pittore dei santi allontanò tutti, e dopo un poco, rientrò, solo, nella bottega dei santi, chiudendone a chiave, alle sue spalle, la porta. Qualcuno, più ostinato, era restato dietro ai vetri, cercando di scorgere nell’interno: ma la polvere di gesso, la polvere di stucco, la biacca, covrivano così fissamente quei vetri, che anche quelle ombre testarde sparvero, poichè nulla potevano intravedere. E la vestizione della Dolente ebbe principio solo per mano di coloro che avevan faticato intorno alla statua e alle vesti, ebbe principio in un silenzio profondo.

L’altissima statua di Maria Addolorata era in mezzo alla bottega, collocata sovra un primo e rozzo piedistallo di legno, e sovra un secondo, a triplice giro di ovali d’oro lucido, su fasce rotonde di oro opaco: era su questo che doveva partire e con questo doveva essere collocata sull’ignoto altare dell’ignoto tempio. Accanto da essa, di lato, vi era il trespolo con tre gradini e la breve piattaforma ove l’opera di Domenico Maresca si era svolta. La Madonna Addolorata mostrava il bel volto ovale e delicato, straziato da un’angoscia indescrivibile, e il lavorio d’arte del pittore si estendeva sino al collo: dopo, cominciava una lunga, rigida tonaca di tela bianca, che giungeva sino ai piedi: dalla tonaca escivano le due mani, dipinte finemente, l’una aperta sul petto e raggricchiata, con [p. 154 modifica] un’espressione commovente, nelle dita schiuse, l’altra distesa e chiusa con attitudine convulsa: e i due piccoli piedi, anche, si vedevano, curiosamente chiusi in sandali antichi, nudi ne’ sandali, come quelli delle carmelitane, piccoli piedi rigidi e immobili, quasi inchiodati dal dolore. E, intorno a quella figura dolorosa, chiusa nella bianca camicia senza linee, tutte le altre statue, intorno, sembravano piccole, meschine, minuscole. Un san Sebastiano, a mezzo busto, nel cui sanguinante torace, nel collo nudo, nelle braccia nude, erano confitte delle leggere e brillanti frecce di argento; un san Giovanni, ripetente, nella testa giovanile ricciuta, quella del Donatello, vestito di una clamide bianca, e portante un alto bastone da pastore, di argento, curiosamente cesellato: una santa Filomena, un mezzo busto a stucco, molto barocca, dal viso singolarmente esaltato, caduta in estasi e tenente nelle mani una lunga penna, la penna dell’amor divino, anche essa in argento; un san Tommaso d’Aquino, con un grosso anello d’oro, con un topazio al dito, stringente un libro santo, con la gran barba spiovente sul petto. E malgrado i loro colori, le vesti, gli ornamenti di argento buono, la Dolente col suo viso di suggestione profonda, di cordoglio, nella sua lunga tunica bianca, sovrastava sovra ogni immagine, sovra ogni figura. Domenico Maresca era salito sulla piattaforma e si era fatto il segno della croce.

— Andiamo, in nome di Dio — disse donna Raffaellina, segnandosi anch’essa. [p. 155 modifica]

E gli porse, dal primo scalino del trespolo, ove era ascesa anch’essa, una grossa gonna di tela nera, una sottana molto larga, a folte pieghe sui fianchi, molto insaldata, che il pittore dei santi, con gesti cauti e discreti, infilò, dalla testa, sul corpo della statua, discendendola pian piano sino alla cintura, stringendola e serrandola dietro, con nastri saldi e con forti spilli chiusi. Con una delicatezza lieve, come se portasse un neonato, come se portasse la più preziosa delle reliquie, donna Raffaellina prese la veste di grossa seta nera, tutta ricamata di oro, sui due lati, davanti, in un intreccio arcano di fiori e di foglie, e la porse a Domenico Maresca: a sua volta, costui, sollevò l’abito singolare e, dalla testa, ne vestì la statua. Subito, la gonna di seta si schiuse, si ampliò, divenne larghissima, sovra la sottana di tela, che era stata messa apposta per darle quel largo giro: il busto lungo, casto, rigido, si assettò sul busto della statua, perfettamente, mostrando con qual cura erano state prese le misure ed eseguite le varie pruove. E presa dall’impeto dell’opera sua, la ricamatrice salì gli altri due gradini, si tenne in equilibrio per miracolo, presso Domenico Maresca, e si mise ad aggiustare con le mani bianche, agili, fini, di donna che ha passato la vita a ricamare con le sete e con l’oro gli arredi sacri e le sacre vesti, il soggolo bianco al collo della statua, cingendone la nuca, fasciandola sin quasi al mento, come è la tradizione antica. Insieme a Domenico Maresca, reggendosi malamente, a rischio, ora l’uno, ora l’altro, di [p. 156 modifica] precipitare da lassù, stendendosi, ritraendosi, curvandosi, sempre con gesti di riverenza, verso la santa effigie che essi rivestivano, compirono la più difficoltosa operazione, quella del collocamento del magnifico manto, dal capo sulle spalle, sulla persona, sino ai piedi, fermandolo, solidamente, sotto i ganci della crociata corona di argento massiccio, messa un poco indietro, sul capo levato, componendolo con pieghe fluttuanti, innanzi, perchè tutto il ricamo si vedesse bene, raddoppiando la ricchezza del ricamo della veste, e arrotondandolo, sino giù, sull’abito. E, dall’alto, Domenico Maresca, parlando per la prima volta, a voce bassa e tremante, disse a Gaetano Ursomando:

— Dammi le spade.

Costui gli porse, subito, le sette piccole spade, da configgere sul petto del simulacro, in sette aperture, appositamente praticate nel busto dell’abito. Ma, prima che egli ne configesse una sola, la ricamatrice lo arestò, dicendogli:

— Diciamo i Misteri dolorosi.

E, Domenico Maresca, Raffaellina Galante, le due giovani ricamatrici, lo stuccatore, lo storpietto, a ogni spada che era fitta nel petto della statua, dicevano uno dei sette Misteri dolorosi e come l’ultimo finiva, l’ultima spada, completando la raggiera, aveva trafitto il cuore della Madre Addolorata. Con un moto rapido, il pittore dei santi mise il fazzoletto di battista, a fiocco, nella mano distesa della statua. — Tutti si segnarono novellamente. La vestizione era fatta. [p. 157 modifica]

In tutta la singolarità delle sue vesti, metà monacali, metà sovrane, in quella bizzarria ieratica di sete e di ori, fra orientali e bizantine, in tutto quel lusso sfolgorante e pure funebre, la Madonna Addolorata riempiva, del suo maestoso aspetto, la bottega dei santi. Il sole penetrava, in quell’ora meridiana, dentro la bottega e tutto l’oro del minuzioso, folto, intricato ricamo, brillava nella sua lucidezza, rilevandosi sui toni di oro più cupi e più tranquilli. Sui due teli davanti della veste e sul petto, sulle due falde davanti del manto e sulla testa, all’orlo della veste e sulle braccia, i fiori, le foglie, i viticci, s’intrecciavano, non si distinguevano più, ove cominciassero, ove finissero, era un’onda crescente di ricamo che covrirà il nero, era una spuma d’oro che si allargava, dapertutto, in una ricchezza invadente. Lo sguardo vi si fermava, attratto, allucinato, abbacinato da tutto quell’oro: e sottraendosi a stento, aveva impressioni più dolci, più pacate, sull’argento della corona, sull’argento della raggiera di spade, sul biancore mite del soggolo: e, infine, l’occhio si posava sulla faccia trambasciata della Dolente e ne riceveva l’impressione più pietosa, poichè il sentimento espresso così vivamente dal pittore, aveva avuto la cornice dalle vesti, dal manto e dagli ornamenti, poichè i simboli e gli emblemi nel lutto dell’abito, nel fasto lugubre dell’oro, nella corona chiusa, nelle spade e nel fazzoletto intriso di lagrime, completavano l’opera dell’arte e della pietà. [p. 158 modifica]

— Quanto è bella! — mormorò Fortunatina, una delle due ricamatrici, ingenuamente, mitemente.

— Quanto è bella! — ripetette l’altra, mitemente, ingenuamente.

— Tu ci devi assistere, Madonna Addolorata — disse donna Raffaellina Galante, piamente.

— A te ci raccomandiamo — disse, a bassa voce, Gaetano Ursomando.

— Tu pensa a noi, Maria — disse lo storpio.

Ultimo, a capo basso, quasi a sè stesso, desolatamente, Domenico Maresca, soggiunse, ultimo;

— Nelle tue mani, Maria, nelle tue mani!

Si bussò, alla porta, mentre essi dicevano alla Dolente l’animo loro umile e triste. Nessuno udì, veramente, distratto da quel momento culminante, ove le loro fatiche materiali avevan avuto il termine e la loro anima semplice poteva sfogare i sentimenti repressi. Dopo un minuto, si bussò alla porta, di nuovo, rapidamente e vivacemente:

— Chi è? — chiese, di dentro, Domenico, con accento diffidente.

— Aprite, dunque! — esclamò una voce imperiosa.

Domenico riconobbe quella del duca. E, con molta precauzione, presa la grossa chiave, aprì per metà una impannata, lasciandogli appena lo spazio per entrare e richiudendo subito a chiave.

— La Madonna? — gridò il gentiluomo, senza levar gli occhi.

— Eccola.

Vedendola innanzi a sè, quale l’aveva pensata nei suoi sogni spasimanti di peccatore contrito, [p. 159 modifica] quale l’aveva immaginata, nelle sue ore di abbattimento mortale, quale l’aveva desiderata, nelle sue ore di disperata e vana penitenza, vedendola nell’aureola di splendor tetro come egli l’aveva invocata nella sua dedizione spirituale, nella ricchezza funebre dell’oro simile alle coltri dei cadaveri, vedendola negli occhi disperati, nel cuore trapassato, sotto una corona pesante che ne accasciava il picciol capo arrovesciato, e sotto il manto mortuario, innanzi alla realtà della sua visione e della sua preghiera, il gentiluomo sussultò, il suo viso si decompose ed egli vacillò, come se svenisse. Gli dettero una sedia: vi cadde: e nulla sapendo più, nulla vedendo e nulla udendo, come un essere misero e caduco, fra quei miseri e caduchi, egli si nascose la faccia fra le mani, scoppiando in pianto.

Niuno osò accostarsi a lui, pronunziare una parola. Quella povera gente, attese, mutamente, in attitudine di rispetto, che la emozione del duca avesse tutto il suo sfogo. E, presto, negli occhi imperiosi del gentiluomo, le lagrime si disseccarono; con uno sforzo di dissimulazione, il suo viso si ricompose, riassunse l’aspetto freddo e orgoglioso che persisteva, sempre, anche nel pallore crescente, anche nelle linee consumate. Fermo sulle sue gambe, egli si levò, andò ai piedi della immensa statua, per vederne meglio i particolari, vi girò attorno lentamente, osservando tutto con minuzia, portando in questo esame come la glacialità di un mercante. E, infine, ritornato innanzi al ricco e [p. 160 modifica] nobile simulacro della Dolente, egli disse, con tono breve e asciutto, a Domenico Maresca:

— Avete fatto una bella cosa. Sono contento.

Il pittore dei santi accennò un inchino, con la testa, senza nulla rispondere. E l’altro, seccamente:

— È pronta per essere trasportata?

— Prontissima.

— Sta bene. Vi rammentate, Maresca? I miei uomini verranno a prenderla, dopodomani mattina, all’alba. V’incomoderete qui, voi stesso, a quell’ora, per darne la consegna.

— Certo.

— Scelgo quell’ora, per evitare la curiosità della gente. Le persone che io manderò, sono molto esperte e faranno l’imballaggio con rapidità. Massima rapidità, segretezza massima. È inteso?

— È inteso, signore.

— Un’altra cosa, essenziale. Oggi e domani la vostra bottega sarà chiusa, non voglio che vi entri nessun curioso, nessun indiscreto. Oggi è festa, naturalmente; ma se per domani vi dà fastidio, tener chiuso, compenserò questo fastidio.

— È inutile. Riposeremo, domani, dopo tante fatiche.

— Chi conserva la chiave di questa bottega, Maresca?

— Io.

— Voi, personalmente?

— Personalmente.

— Non vi fidate di nessuno. Promettetemi che la porterete via, questa chiave, a casa vostra, che [p. 161 modifica] non l’affiderete a nessuno, e che dopodomani, all’alba, verrete qui, solo, a riaprire, per la consegna.

— Lo prometto.

— Non mando a rilevare domani, la Madonna, per mie ragioni particolari; e me ne dispiace, ve lo assicuro. Ho aspettato tanto, e, ora, queste ventiquattro ore mi seccano. Non vi è che fare! Alle volte, nè la volontà, nè il danaro, bastano a togliere un ostacolo materiale. Pure, Maresca, mi fido in voi che, per contentare il mio desiderio, nessuno vedrà, qui, la mia Madonna e nessuno saprà ove io la mando. È il mio desiderio! Che fate, ora, quando me ne sarò andato?

— Se vi piace, chiuderemo.

— Ecco. È festa. Chiudete subito.

Raccolti in un angolo, lontani, in una paziente aspettativa, gli altri nulla avevano udito di questo dialogo, avvenuto a bassa voce. Ancora una volta, il gentiluomo mise gli occhi sul viso della Dolente e ve li tenne, intenti, ardenti, riflettenti un dolore torbido e intimo. Poi, scosse il capo, e mettendo la mano in tasca, ne cavò il portafogli.

— Per voi, Maresca — gli disse, consegnandogli un biglietto azzurro di mille lire.

Il pittore dei santi ringraziò semplicemente, chiudendo in un vecchio e sdrucito portafogli il prezzo delle sue lunghe e buone fatiche. E, man mano, il gentiluomo donò cento lire alla ricamatrice, cinquanta allo stuccatore Ursomando, venti lire a ognuna delle due ragazze ricamatrici, dieci lire al piccolo sciancato, e ognuno di costoro volendo [p. 162 modifica] esplodere nei vivi e verbosi ringraziamenti meridionali, ognuno, commosso della sua generosità, volendo baciargli la mano, egli ebbe due o tre atti imperiosi e duri, per non essere ringraziato, nè a voce, nè con gesti.

— Addio, Maresca — egli disse dalla porta, uscendo.

E in quel senso di sorpresa generale che aveva destato, in quella gente semplice, il suo contegno strano, la ricamatrice ebbe un moto di spalle, una parola definitiva:

— Poveretto... chi sa!

La comitiva, lentamente, si sciolse: ognuno di coloro che aveva passato dei mesi intorno alla grande effigie e che, ora, non l’avrebbe vista più, si licenziò da essa, con una breve orazione, con un segno di croce, passandole innanzi, salutandola con un inchino: le due ragazze si inginocchiarono, baciandole il lembo della veste, su cui anche le loro abili mani avevano intessuto l’oro, in lavoro silenzioso, e che, adesso, era diventata sacra, benedetta da Dio, messa sulla statua benedetta, parte istessa della Madonna Addolorata.

— Ci vediamo dopodomani, verso mezzogiorno — disse il pittore dei santi, a Gaetano Ursomando e al ragazzo, volendo obbedire rigorosamente agli ordini del duca.

— Ci vediamo — dissero quelli, andandosene, abituati a una obbedienza cieca: e contenti del dono avuto, del riposo, di tutto. [p. 163 modifica]

Alle loro spalle, Domenico Maresca chiuse a chiave la porta della bottega e restò un momento, solo, davanti alla Madonna Addolorata. Poichè, nella sua perfetta onestà, egli voleva mantenere in tutto e per tutto la parola data al gentiluomo, voleva partire, anche lui, subito, rinserrando preziosamente il simulacro dietro le pesanti, duplici porte della sua bottega. Non l’avrebbe vista, sino all’alba del secondo giorno, in cui la Dolente doveva lasciare per sempre la bottega, ove era stata circa tre anni, non l’avrebbe vista più: così egli aveva promesso e così doveva mantenere. E senza parole, si appoggiò col capo, col viso, ai piedi della Dolente, calzati di sandali, nudi nei sandali, e immobili sul piedistallo, quasi li avesse pietrificati lo spasimo: senza parole, egli mise la sua bocca su quei piedi, che, pure esciti dalle sue mani di artista, adesso, benedetti, consacrati, formavano parte di una figura divina, formavano parte di un simbolo di dolore e di pietà. In quell’atto di reverenza, di umiltà, di abbandono, il pittore dei santi concentrò tutta la sua anima semplice, e raccolse tutto il suo spirito semplice, e adorando la Dolente, dandole l’ultimo saluto, affidò a Lei, nella vita, nella morte, la sua salvazione.


Malgrado il sonno profondo in cui era immerso, Domenico Maresca, percepì, a un tratto, di trovarsi nelle tenebre. Ma non giungeva ad aprire gli occhi, [p. 164 modifica] combattendo contro il suo torpore: quando, anche, lo colpì il puzzo di uno stoppino spento nell’olio, un puzzo forte e disgustoso che finì di svegliarlo. Aprì gli occhi: era all’oscuro. La piccola lampada, accesa innanzi a una immagine di san Domenico Guzman, la piccola lampada, con cui egli era stato avvezzato a dormire, da quando era piccino, consuetudine diventata invincibile, si era spenta. Ciò accadeva, talvolta, quando la serva si dimenticava di rifornirla di olio, dell’acqua, o dimenticava di cambiarvi il lumino consunto. E, immancabilmente, questo piccolo incidente, aveva il potere di risvegliare Domenico, qualunque fosse il sonno in cui era tenuta e abbattuta la sua persona.

— Bisogna riaccendere la lampada — egli pensò, male risvegliato, ancora.

Con la mano, cercando di non far rumore, tastò sul tavolino da notte, per cercarvi la scatola dei fiammiferi. Non la potette trovare ed ebbe un moto di delusione e di lassezza, con la testa sull’origliere: temeva di risvegliare Anna; costei era abituata a dormire sempre, con la lampada accesa o spenta, e s’irritava assai di essere svegliata, quando Domenico faceva del rumore, per riaccendere la lampada, burlandosi, amaramente, di lui, come di un bimbo pauroso che non sapesse dormire all’oscuro. Domenico rimase qualche minuto immobile, sveglio, guardando nell’ombra, tendendo l’orecchio, a udire il respiro di Anna.

— Dorme profondamente — disse, fra sè. [p. 165 modifica]

E pensò di alzarsi, pianissimo, senza disturbarla, per riaccendere la lampada. Quella profonda oscurità, lo opprimeva, da un canto, e gli dava una inquietudine singolare, dall’altro: sentiva che non si sarebbe più riaddormentato, se non rivedeva la fioca luce del lumino, nel bicchiere rosso innanzi a san Domenico. Con una cautela di movimenti, arrestandosi ad ogni secondo, per non produrre neppure uno scricchiolìo del letto, egli mise fuori le gambe, trovò le pianelle, si levò in piedi: tastò lungamente sul tavolino da notte, dove si ricordava di aver deposta, senz’altro, come ogni sera, una scatola di fiammiferi. Niente. Come fare? La sua inquietudine misteriosa lo eccitava sempre più: egli fece qualche passo, distese la mano, trovò sulla sedia, a piedi del letto, i suoi panni, infilò i suoi calzoni. Poichè in camera non vi erano fiammiferi, poichè nella sua giacca non ne avrebbe ritrovati, perchè non fumava, voleva andare in cucina, ove ne avrebbe trovati. Levando i passi, con una lentezza singolare, per non farsi udire, a tastoni, fermandosi, barcollando, eppur continuando il suo cammino, egli uscì dalla stanza da letto.

— Meno male che Anna non si è svegliata — disse, fra sè, con un sospiro di sollievo.

Con la consuetudine che aveva, da tanti anni, della sua piccola casa, si diresse all’oscuro, senza troppo inciampare, verso la cucina. Da che, l’anno scorso, Anna aveva licenziato la vecchia Mariangela ed egli non aveva avuto il coraggio di [p. 166 modifica] opporvisi, e la poveretta aveva dovuto prendere, a giorno fisso, implacabilmente, la via del paesello ove era nata, e donde mancava da tutta una vita, essi avevano cambiato due o tre domestiche, per capriccio di Anna, per lo più, o perchè erano indolenti, insolenti, mangione. — L’ultima, una giovine, vi stava da un paio di mesi, miracolosamente, poichè Anna sembrava proteggerla molto: ma lei, come le altre, andava via dalla casa, la sera, dopo il pranzo e dopo aver rigovernate le stoviglie. Era Anna che aveva voluto così, dicendo che si nauseava di tenere a dormire in casa queste donne sudicie, che sciupavano la biancheria, che forse, avrebbero portato degli insetti nel letto e nella casa. Era, anche, una economia, poichè le domestiche che vanno via di sera, si compensano meno delle altre, che restano a dormire. Domenico che aveva fatto compiere, vilmente, il sacrificio di Mariangela, nulla aveva tentato di osservare, a questi mutamenti. Il dietrostanza oscuro dove, un tempo, dormiva la fedele Mariangela, era vuoto: e in quella notte, in quel silenzio, mentre si avviava alla cucina, Domenico pensò, che, in altri tempi, tante volte, quando si era alzato, a quell’ora, Mariangela si era svegliata subito, con quel senso fine dei cani di custodia, e gli aveva chiesto se voleva qualche cosa. Nulla, ora; la casa era deserta di quell’antica fedeltà, e Mariangela aspettava la morte, in vita divota e solinga, ad Airola, in un piccolo paese di montagna. Sospirando, tastando qua e là, Domenico finì per mettere le mani sopra una scatola di [p. 167 modifica] fiammiferi da cucina, di legno, dalla capocchia di zolfo. Bisognava contentarsi, poichè gli era impossibile continuare la sua notte nelle tenebre.

Stringendo nervosamente la scatola, egli riattraversò la casa di cui, ancora una volta, ebbe come un ribrezzo triste, per il suo grande silenzio, per la oscurità in cui egli si aggirava, come un fantasma, per un silenzio che gli sembrava troppo profondo, per una oscurità che gli pareva troppo fitta.

— Povera Mariangela! — mormorò fra sè.

Rientrò nella camera da letto, smorzando di nuovo i passi, diminuendo quasi il respiro, per non turbare il riposo di Anna, sua moglie. La lampada spenta era collocata sovra un cassettone, a sinistra del letto coniugale, dal lato di Domenico: appoggiato al cassettone, egli strofinò due fiammiferi, prima di avere la fiamma fosforica e male odorante, tossì per il fosforo, e riaccese il lumino, sempre tenendo le spalle voltate al letto, cercando, per cautela, di nascondere le sue operazioni. Vide che l’olio non mancava e che il lumino era nuovo: esso si era spento, non da sè, ma dalla mano di qualcuno che lo aveva annegato nell’acqua. — Nella stanza si diffuse un pallido chiarore. Domenico si voltò verso il letto. Esso era vuoto, deserto. Anna non vi era. Egli si accostò di più, per vedere meglio. Il letto era deserto e vuoto: Anna non vi era. Si avvicinò moltissimo, toccò, con le mani, le coltri un po’ rimboccate donde la donna si era levata, toccò l’origliere, in un incavo rotondo donde la testa della [p. 168 modifica] donna si era sollevata, toccò tutto il letto, con le mani, due volte. Era vuoto e deserto, Anna non vi era.

E fulmineamente, una certezza gli squarciò tutte le fibre e tutta l’anima: Anna lo aveva abbandonato: Anna era fuggita. Non credette a un caso singolare, a un accidente bizzarro, a una combinazione qualsiasi, che attenuasse o contradicesse l’orrenda verità: tutta la orrenda verità gli fu palese, senza velo d’illusione alcuna. Come coloro che, in un istante, apprendono il massimo male, che li abbatte e li travolge, come coloro che sono toccati, in un istante, in un solo istante, dalla folgore del dolore, una vertigine lo colse, più forte, più forte, lo gittò sovra una sedia, ai piedi del letto, fatto vasto e deserto, donde Anna era fuggita; e nei giri larghi, ove egli perdeva conoscenza, girando attorno a lui, il letto, la stanza, la casa, la città, l’universo, in questi giri, in cui si sprofondava la sua conoscenza, egli pensò:

— Io muoio, va bene.

Ma non morì. Qualche minuto dopo, o molti minuti dopo, non intendendo bene la misura del tempo, supponendo che fosse passato un secolo di dolore o un secondo di altissimo dolore, Domenico Maresca si ritrovò solo, caduto di traverso sovra una sedia, sovra dei panni, solo, in quella stanza, solo, innanzi a quel letto, solo, in quella casa, in quella notte. E il terrore di quella solitudine, di quel silenzio, di quella penombra, un freddo terrore lo colse: si levò, come un pazzo, accese le due candele [p. 169 modifica] steariche nei candelieri, sulla toilette di merletto, escì nel salotto, accese il grande lume a petrolio, che era sul tavolino centrale, corse in istanza da pranzo, accese la sospensione, la luce si diffuse dapertutto, nelle poche stanze della piccola casa, tutto fu chiaro e fu chiara la solitudine, e fu chiaro il deserto di quella casa, una solitudine ultima, irrevocabile, un deserto ove neppure la voce di una familiare, di una serva sarebbe venuta ad aiutare la disperazione dell’uomo, che era stato abbandonato e che aveva fatto la luce per avere, quasi, il senso più largo e più estremo del suo abbandono. Tutto era a posto, tutto era in ordine, nella stanza da pranzo, nel salottino, ma tutto vi aveva un aspetto funebre, di dimora, ove, un tempo, fosse stata la vita di esseri palpitanti, vibranti e donde questa vita si fosse ritratta, per sempre. Sgomento, come folle, vacillante, egli corse di nuovo nella stanza da letto: là, ai piedi del letto, vi erano, dal lato ove dormiva la moglie, le pianelline sue: sovra la sedia era disposta la sua vestaglia di lana azzurra, le braccia pendenti, aperte, come in atto di ineluttabile disperazione.

— Oh Anna, Anna! — gridò, vanamente, l’abbandonato.

Il suo grido stesso, in quella camera muta, gli ridestò nel cuore, smarrito e straziato, dei tumultuosi sentimenti d’ira, di gelosia, di amara e beffarda curiosità, dei sentimenti novelli nella sua natura mite e fiacca, un impeto di collera come non ne aveva mai avuto, tutta la collera repressa in quegli anni d’infelicità e di oppressione, un furor [p. 170 modifica] di anima debole che si è maturato per anni: e gittandosi sulla vestaglia azzurra, con le mani, coi denti, coi piedi, la lacerò, la fece a brandelli, la pestò, imprecando al nome di Anna.

— Assassina, assassina della vita mia, assassina! — gridava, solo, nella stanza vuota.

E si slanciò, per compiere qualche altra vendetta manuale contro le vesti, contro la biancheria di Anna, per soddisfare quel desiderio cruento e fugace che aveva di strappare, di svellere, di rompere, di calpestare, si slanciò contro il settimanile di Anna, che era a destra del letto, aprì il primo cassetto ove era la chiave, aprì il secondo, il terzo, il quarto, tutti, tirandoli violentemente, sbattendoli nel richiuderli: erano vuoti, lisci, vuoti, vuoti.

— Ha portato via la sua roba, tutta la sua roba! — gridò, ancora, esterrefatto.

E si arrestò, vinto da un tremito nervoso così forte, così forte, che le sue mani non potettero più rinchiudere l’ultimo cassetto. Andò a un grande armadio a specchio, ove erano le vesti e i mantelli di Anna; era socchiuso: lo schiuse perfettamente: vuoto, liscio, le gruccie sospese e libere, non una veste, non una giacchetta. Traversò di nuovo la casa, andò nella stanzetta ove, un tempo, aveva dormito Mariangela e ove vi erano altri due armadi, di biancheria e di vestiti. Tutta la roba di Anna mancava. Il corredo di biancheria così ricco e così elegante, per cui egli aveva speso tanto denaro, tre anni prima, e di cui ella non aveva usato che una parte, tutti gli abiti donatile nelle nozze, dopo le nozze, tutti, [p. 171 modifica] sino ad uno, da mattina, portatole dalla sarta, due giorni prima, e di cui Domenico aveva saldata la nota, tolto via, portato via, la roba pagata col danaro del pittore dei santi, non un fazzoletto lasciato, non un nastrino, non un cencio di merletto. Freddamente, da tempo, Anna non solo aveva premeditata questa fuga, ne aveva dovuto combinare, lungamente, il piano, ma lo aveva dovuto eseguire, giorno per giorno, ora per ora, da tempo! Sì, ella era partita, nella notte, un’ora prima, forse, due ore prima, appena lo aveva visto, immerso, il pittore dei santi, in una densità profonda di sonno: ma non si porta via, tanta roba, di notte.

— La roba, via, prima, — egli pensò, amaramente — e lei, questa notte, quest’assassina della mia vita!

Tremando, nella persona, nelle mani, come se avesse il ribrezzo della febbre terzana, egli ritornò in camera da letto; gittò uno sguardo sulla sveglia. Erano le quattro del mattino.

— Questa notte, due ore fa: non sola. Con Mariano Dentale — pensò, ancora, mordendosi le labbra, in un accesso impotente di furore geloso, nella inanità dell’uomo tradito e abbandonato.

E insieme al nome del bel giovinotto così beffardo, così seducente nella sua insolenza, insieme a questo nome che, per tre anni, era stato l’incubo segreto della sua anima profetica, un ricordo lo colpì, dandogli un nuovo sussulto di spavento. Non aveva inteso dire che Mariano Dentale doveva partire per l’America, per farvi fortuna, non lo aveva udito, così, vagamente, due o tre volte, negli ultimi [p. 172 modifica] tempi, mentre Anna era assorta, muta, indifferente, come sempre, Anna che, certo, era partita con lui. Con qual danaro? Con qual danaro? Mariano Dentale era un pezzente. Con qual danaro? Un pezzente!

I gioielli di Anna Dentale, quelli, cioè, che suo marito le aveva donati alle nozze, e nelle sue feste, durante tre anni, qualche altro dono avuto, dal compare, dai parenti, erano chiusi, ordinariamente, in uno dei tiretti, il superiore, del cassettone di Domenico, e per maggiore sicurezza, alla loro volta, erano tutti raccolti in un cassettino di sicurezza, di ferro, non molto grande, di cui Domenico teneva la chiavettina. Quando aveva bisogno di adornarsi, Anna cercava la chiave del cassettino e, per lo più, la restituiva immediatamente a suo marito, con una smorfia di sarcasmo, per quella diffidenza. Accanto a questo cassettino, dei gioielli, ve ne era un secondo più grandicello, di cui teneva sempre la chiavettina Domenico, non affidandola mai a sua moglie, e in esso, da anni, erano chiusi quei titoli di rendita al portatore che suo padre gli aveva lasciati, circa trentamila lire, raccolte dopo una vita di lavoro. In verità, con il matrimonio, con le spese consecutive, Domenico Maresca ne aveva dovuto distaccare e vendere, di titoli, per dodicimila lire e ve ne erano, quindi, rimasti solo diciottomila lire, non toccate più, naturalmente, dopo, presa solo la rendita, poichè i guadagni del pittore dei santi erano bastati a fare andare innanzi la casa. Anna sapeva che, lì dentro, vi era tutta la piccola fortuna di Domenico: [p. 173 modifica] ma aveva sempre finto di non saperlo, di non interessarsene, uscendo dalla camera, con un’alzata di spalle, quando egli apriva il tiretto del cassettone, quando immergeva il viso nel fondo, per schiudere misteriosamente il cofanetto di ferro. Dopo, Domenico richiudeva e metteva la chiave del cassettone nel taschino del suo panciotto, ove già erano le chiavettine dei due cofanetti di ferro. Folle di spavento, dunque Domenico Maresca afferrò i suoi panni, frugò nel taschino del panciotto: nessuna delle tre chiavi vi era: si voltò al cassettone, e vide che il tiretto, come il settimanile, come tutti gli armadi, era socchiuso: folle di spavento, lo aprì tutto, vi cercò, con gli occhi, freneticamente, i due cassettini di ferro. Non vi erano. Tastò con le mani, come aveva tastato il letto, donde Anna era fuggita: i due cofanetti non vi erano più, più, essa li aveva portati via, essa aveva rubato i gioielli, essa aveva rubato il denaro.

— Assassina e ladra! — gridò il povero pazzo, nella notte, maledicendo l’infame.

E volle uscire, correr per le vie, correr dietro ai due ladri del suo onore, della sua felicità, della sua fortuna, volle raggiungerli, ove si trovavano, essi che si portavan via tutto, quei due ladri, ma più ladra lei, che gli toglieva la sua persona e che gli derubava quanto egli aveva, tutto, tutto, glacialmente, cinicamente, come una scellerata. Oh li avrebbe ritrovati, non potevan esser lontani, non potevano essersi imbarcati, quella notte istessa, per l’America, sarebbe andato in questura, avrebbe fatto dei telegrammi per fermarli, per arrestarli. [p. 174 modifica] Diciottomila lire, tutto quello che egli aveva, tutto, portato via, dalla donna, dal suo amante! Voleva uscire, cominciò a vestirsi frettolosamente, mettendosi le scarpe, la camicia di giorno, i calzoni, un panciotto, la giacchetta, frugando macchinalmente nelle tasche, dove aveva poche lire spicciole, tre o quattro, forse: aprì il portafogli ove aveva riposto le mille lire dategli dal duca, per la Madonna Addolorata. Non vi erano. La sera, le aveva fatte vedere ad Anna, con un sorriso di soddisfazione, ed ella appena le aveva guardate, nella sua alterigia signorile. Prima di fuggire, scelleratamente, Anna aveva rubato anche quelle, lasciando suo marito con le poche lire che aveva, egli, in saccoccia.

— Ladra, ladra! — gridò ancora, lui, nei singhiozzi che gli salivano dal petto.

Frugandosi, ancora, nelle tasche della giacchetta, non trovò la chiave della bottega dei santi. Rovesciando le sedie, urtando nei mobili, senza cravatta, afferrando macchinalmente il cappello, in anticamera, egli escì di casa, si dirupò per le scale oscure, ritrovando, a stento, la via, nel piccolo portone senza portinaio ove essi abitavano, e di cui i battenti erano chiusi solo con un lucchetto. Nella via Donnalbina, l’oscurità era grande, egli corse in piazza Ecce Homo, rasentando le mura, con la consuetudine antica che non lo faceva sbagliare, anche attraverso il delirio fisico e morale che lo trasportava: traversò, di corsa, la piazza Madonna dell’Aiuto, e si precipitò contro le porte della bottega [p. 175 modifica] dei santi. Come i cassetti, e i tiretti del settimanile, come le porte degli armadii, come i tiretti del cassettone, le porte della bottega erano leggermente schiuse: entrandovi, Domenico inciampò nella chiave, che era caduta per terra, lasciatavi dai fuggiaschi, dai due ladri.

Il delirante non si ricordò, più tardi, come egli aveva acceso il grande lume a petrolio, che aveva, dietro, un grande riflettore di metallo: certo che, ai suoi occhi, che tanti successivi spettacoli terribili avevano veduto, l’ultimo spettacolo si offerse. La bottega dei santi era svaligiata e devastata. Dal petto e dalle spalle del san Sebastiano erano state strappate le freccie di argento e lo stucco che si era rotto, qua e là, mostrava il fondo di creta, il fondo di legno; dalla mano del san Giovannino era stata tolta la mazza pastorale di argento e, nella fretta, il braccio si era spezzato per metà; dalla mano di santa Filomena era stata strappata la penna di argento: e da un san Francesco, da un san Cataldo, da un san Gregorio, erano state svelte le aureole di argento, più grandi, più piccole, onde erano incoronate le loro teste. Due di questi santi, più piccoli, erano stati arrovesciati dal loro piedistallo, per derubarne il prezioso metallo che li adornava; un terzo, il san Cataldo, giaceva per terra, a faccia sul suolo. Nel mezzo della bottega, la Dolente appariva denudata, derubata di tutto. Le avevano tolto la massiccia corona di argento dal capo, il manto carico di oro, le sette spadine confitte nel petto e che erano anche di argento massiccio, la [p. 176 modifica] veste carica di oro: disadorna, svestita, ella aveva la sua sottana nera, di tela forte, mezza discinta, per la rabbiosa fretta degli svaligiatori, e si vedeva la tunica di mussola bianca, come una camicia: mentre, sul capo denudato, in alto, ove erano dipinti leggermente i capelli, vi era un buco, prodotto dalla furia di tirar via la corona di argento e il manto che vi erano inchiodati: le bende e il soggolo pendevano lacerati, sul petto: dalla mano distesa era stato tolto persino il fazzoletto. E il furto sacrilego, quel furto che offendeva infamemente la immagine di Maria Addolorata, che aveva mutilato e spezzato le immagini dei santi, che aveva tolto sacrilegamente, da queste immagini benedette e consacrate, gli ornamenti benedetti e sacri, questo furto era completo, perfetto, tutto ciò che poteva valer danaro, dalle vesti della Dolente che costavano seimila lire di oro, alle piccole aureole di argento dei santi che ne costavano dieci, tutto, tutto era sparito, e la Madonna era spogliata, col capo infranto, i santi erano spogliati, con le braccia rotte, con il costato aperto, e giacevano in terra, spezzati, e il sacrilegio era consumato, nella sua forma più oltraggiosa, più irreparabile, più orribile. Dato un urlo altissimo, Domenico Maresca, cadde, come morto, ai piedi di Maria Addolorata e vi giacque, per terra, come morto. [p. 177 modifica]

Tutta la sera, una pioggia scrosciante accompagnata da larghe raffiche di vento, una improvvisa e violenta bufera di equinozio primaverile, aveva battuto le vie e le case napoletane: verso le colline già verdi e odorose, qualche tuono rumoreggiava, mentre, in città, nelle vie deserte, allagate di vasti specchi di acqua nerastra, per la ineguaglianza del selciato, i lampioni a gas diffondevano delle fantastiche, vacillanti luci gialle. Gli scrosci di pioggia ora rallentavano, quasi cessavano, per riprendere, dopo pochi minuti, con ira maggiore: il vento ora ravvolgeva a turbine la pioggia, come un gorgo, ora la sbatteva sul volto, come uno schiaffo. Laggiù, verso santa Maria la Nova, verso santa Maria dell’Aiuto, non un viandante, non un’ombra: altro che il fracasso del temporale, più intenso nelle strade anguste, coi vortici di pioggia che vi si ingolfavano, col turbine del vento che vi si angustiava, dentro. A quell’ora piuttosto tarda, la bottega dei santi era ancora aperta: attraverso i vetri sudici ed opachi delle sue impannate, un lume fioco trapelava. Dentro vi era un silenzio intenso, in contrasto col rumore affannoso e urlante della bufera, un silenzio che aveva qualche cosa di mortale. E tutte le cose vi erano restate come Domenico Maresca le aveva trovate: la spoliazione, il furto, la devastazione, il sacrilegio, vi apparivano, in tutta la loro realtà e in tutta la loro crudeltà. Ma queste cose orrende non avevano più, da che una giornata era trascorsa, una eterna giornata di stupore, di desolazione e di [p. 178 modifica] disperazione, non avevan più la loro espressione impensata e violenta: sembrava che da tempo, oramai, quelle cose orrende fossero accadute: che da tempo, lo spettacolo loro avesse destato il lungo grido di orrore e che tutti gli echi, oramai, di tal grido, si fossero spenti: che la sventura, l’onta, l’infamia che esse rappresentavano, non fossero più la convulsione spasmodica di fatti inaspettati e brutali, ma la pacata e immanente desolazione senza confini, oltre l’anima, oltre il mondo, oltre il Cielo. Il momento altissimo, atrocissimo, era trascorso e la tragedia aveva toccato il suo culmine: già le vittime senza vita o viventi, parevano coperte dal tetro, pesante, ineluttabile manto della rassegnazione.

Un solo lume a petrolio, portato dalla casa di Donnalbina, ardeva debolmente sovra la tavola, fra gli strumenti dell’arte, i mucchi delle biacche, i vaselli degli ori e degli argenti, i pennelli e le stecche. Contro il muro di fronte, la immensa ombra della Madonna Addolorata, che le ciniche mani avevan dispogliata delle sue vesti sontuose e dei suoi gioielli, si allungava, misteriosamente: e la statua era rimasta deturpata, come le mani dei due furenti spoliatori l’avevan lasciata: e tutti gli altri santi, derubati dei loro ornamenti, spezzati, protendevano, colpiti da quella poca luce, le loro linee sulle muraglie, in ombre fantasiose e lugubri. Quella penombra conveniva ad essi: meno si scorgeva il danno, e il sacrilegio si avvolgeva di incertezza, per gli occhi non avvezzi. Il grande lume dal [p. 179 modifica] vividissimo riflettore, era stato spento: e pareva che, in quella bottega, si vegliasse, da giorni, in silenzio, in penombra, intorno a una persona morente, intorno a una persona morta. Tendendo l’orecchio, un respiro penoso si udiva, infatti, interrotto, talvolta, da sospiri dolenti: non altro.

In un cantuccio della sua bottega, sovra una sedia, coi gomiti appoggiati a un angolo estremo di un tavolino, Domenico Maresca vegliava, colà, come in una camera mortuaria. Era solo. I due poveretti suoi compagni di fatica, lo stuccatore Gaetano e il piccolo storpio Nicolino che, nella mattinata, qualcuno era andato a chiamare, per soccorso, avevano passata la giornata con lui, piangendo con lui, provando un dolore più semplice e più candido, non osando neppure consolarlo, non osando nominargli nè la fuggiasca che gli aveva tutto strappato, l’onore, la felicità, il denaro, nè il suo complice che l’aveva spinta al tradimento, al furto, al sacrilegio. E non gli erano stati di altro aiuto, che come triste compagnia. Non potevano essergli di altro aiuto, non lasciarlo solo, in preda all’abbattimento delle forze fisiche ed alla disperazione: erano restati lì, in bottega, chiusi con lui, fra le statue spogliate e manomesse, non osando toccarle, non osando neanche toccare il san Cataldo che era caduto con la faccia per terra, non osando quasi voltarsi alla Dolente, dal piccolo capo rotto, donde era stata strappata brutalmente la sua corona: e chiusi col pittore dei santi, in una taciturnità d’avvilimento, [p. 180 modifica] di sgomento, di stupore, non sapendo che cosa dirgli, comprendendo, così, vagamente, che nulla potevano dirgli e che nulla egli poteva udire. Avevano vegliato con lui, come si veglia con uno sventurato che ha perduto una persona amatissima, rapitagli da un destino avverso: senza parole, con movimenti cauti e lenti, lasciando trascorrere le ore. Per prendere un boccone, morenti di fame, come erano, verso la sera, uno alla volta, erano usciti, si erano allontanati, dandosi il cambio: e dal non aver egli neanche risposto, all’offerta di portargli qualche cosa, dal non aver neanche udito, forse, le loro discrete e umili insistenze, essi si eran convinti, che era meglio lasciarlo stare, immerso nel suo muto e atroce dolore. E quando egli li aveva rinviati, la sera, nel momento che principiava la tempesta di primavera, essi non avevano chiesto di restare, avevano obbedito, come erano avvezzi a obbedirgli, sempre. Così mentre la pioggia imperversava, colpendo i vetri delle impannate e il vento ne faceva scricchiolare i cardini, Domenico Maresca era solo, con i gomiti puntati sul tavolino e il volto nascosto fra le mani; solo, assorto, perduto nella vastità di uno strazio muto.

Nè udì schiudere la porta, verso le dieci e mezza di sera, mentre, furiosamente, acqua e pioggia entravano dall’uscio e quasi spegnevano il fioco lume a petrolio; nè vide la donna che entrava, richiudendo subito con la chiave, e posando, in un angolo, un ombrello stillante di acqua, nè la vide asciugarsi con un fazzoletto le vesti tutte bagnate, [p. 181 modifica] passarsi il fazzoletto sul viso bagnato di pioggia. Mentre Fraolella faceva questo, teneva gli occhi fissi su quella massa immobile e accasciata, che formava il corpo di Domenico Maresca: ma la massa non si scosse, l’uomo era immerso, profondamente, nella sua contemplazione angosciosa. La giovine, allora, si accostò pianamente a lui, rasciugandosi le mani. Ancora del tempo era passato sul capo della graziosa e sventurata creatura: e malgrado la giovinezza, i segni della decadenza si erano fatti più palesi sul suo viso e sulla sua persona. Più gracili le forme, come se un malore intimo le avesse cominciate a distruggere, a venti anni, quando ogni essere fiorisce, e ha bellezza più vivida, e forza più salda. Più languido, più stanco l’andare, e le vesti come troppo larghe, cadenti, fluttuanti, con pieghe di abbandono. Portava una veste di lana viola pallida, guarnita goffamente di nastri rosa, e una camicetta di seta, di un rosa molto vivo, sovraccarica di galloncini di oro, di nastrini bianchi, di bottoncini: sulle spalle, uno dei suoi soliti scialletti, celeste, questa volta: un insieme chiassoso, senza gusto, con quel carattere di vita viziosa, ahimè, indelebile, come una livrea di vergogna, come una livrea di disonore! Non portava più il cappello: e i suoi bei capelli folti erano acconciati pomposamente, in nodi, in ciocche, in ciuffi, in ricci, sempre nella forma più caratteristica delle poverette vagabonde, di cui si profila l’alto casco oscuro di capelli, nella notte, agli angoli delle vie. Assottigliato il viso, con gli zigomi sporgenti, carico di [p. 182 modifica] rossetto, con gli occhi dipinti, sotto, e le leggiadre palpebre, un tempo rosee e trasparenti, cariche anch’esse di un bistro azzurrino: e disegnata, col rossetto, la piccola fragola presso il mento, non più come un tempo, come una voglia, ma come un artifizio d’ignobile seduzione; e torbidi gli occhi, sempre torbidi, tristi, rassegnati, quasi servili, traversati, talvolta, da onde di collera servile, da onde di lagrime servili e inani.

Ella si curvò sull’uomo assorto e, chetamente, lo chiamò:

— Domenico, Domenico!

Egli non udiva, forse, o giaceva in torpore doloroso.

— Domenico, sono io, Fraolella, Domenico! — ella mormorò e poichè gli pareva di veder trasalire quella massa abbattuta, delicatamente, gli prese le mani, gliele distaccò dal viso, lo forzò dolcemente a guardarla, a riconoscerla.

E nel guardarla, nel riconoscerla, il cuore di Domenico Maresca si franse: egli scoppiò a piangere singultando, balbettando, torcendosi le mani:

— Gelsomina... Gelsomina... hai visto, che mi è successo?.. hai visto, che mi hanno fatto?.. mi hanno ucciso... mi hanno assassinato...

— Poveretto, poveretto, poveretto!... — diceva lei, a bassa voce, ritta innanzi a lui, lasciandolo piangere.

— Gelsomina... Gelsomina... perchè Anna non mi ha ucciso? Era meglio una coltellata nel cuore... era meglio uccidermi... era meglio... [p. 183 modifica]

— Certo, è meglio morire — mormorò lei, con la sua voce dalla raucedine così forte, che ne aveva ottusa ogni armonia. — È meglio morire, che sopportare certe cose.

— Oh Dio! oh Dio! — esclamava lui, battendosi dei pugni nella testa, in un nuovo accesso di disperazione, aridi gli occhi, adesso, e con la voce concitata.

— Non far così, Domenico, — disse lei, tentando di prendergli le mani, tentando di tenergliele ferme. — Non far così, calmati, calmati!...

— Ma lo sai, che Anna è fuggita in America, che non la vedrò più, che è morta, per me, che è come se fossi vedovo, mentre ella vive, con un altro, per un altro, lo sai?

— Lo so — disse lei, crollando il capo.

— Lo sai che ha portato via, dalla mia casa, diciottomila lire, tutto quello che io possedeva, tutto ciò che mi restava, della eredità di mio padre, e le mille lire, anche, che avevo in tasca, Gelsomina, anche quelle, perchè gliele avevo fatte vedere, lo sai?

— Lo so — replicò lei, a testa china.

— E lo sai, lo sai, che infamia ha commessa, qui, ove non era mai venuta, ove è entrata solo per rubare? Non le bastavano, a lei, a lui, quei denari miei, le fatiche del mio povero papà, non le bastavano, le mie fatiche, è venuta qui, a rubare la Madonna, capisci, a rubare i santi, ha spogliato Maria Addolorata, si è portata tutto, per vender l’oro, per vender l’argento, in America, Gelsomina, questo, non lo sapevi? [p. 184 modifica]

— Lo sapevo, lo vedo — disse ella, girando intorno gli occhi torbidi e tristi, dalle palpebre pesanti e oscure.

— L’avresti creduto, tu, Gelsomina, che Anna mi avrebbe assassinato, l’avresti creduto?

— Io l’ho sempre creduto — diss’ella, semplicemente.

— Da prima?

— Dal primo momento — ella soggiunse, con fermezza.

— E non mi hai detto niente? Nessuno, mi ha detto niente!

— Non dovevo dirti niente — ella soggiunse, ancora.

— E perchè? Perchè?

— Perchè tu l’amavi: perchè tu eri pazzo, Domenico — continuò lei, tristemente. — Ed era inutile dirti nulla.

— E mi hai lasciato perdere, Gelsomina, tu che mi volevi bene! Tu dicevi, allora, di volermi bene!

— Ti volevo bene e assai — disse la misera, con un tremito nella voce. — Come a nessuno, ti volevo bene!

— E mi hai taciuto tutto! Non mi hai avvertito! Mi hai lasciato perdere, così, Gelsomina!

— Anch’io mi sono perduta, Domenico! — dichiarò la disgraziata, a voce alta, con l’accento della verità.

La verità, a un tratto, grandeggiò, fra quei due, si fece più alta di loro, s’impose a loro, luminosa, immensa, fatale, apparsa troppo tardi, fatale, troppo [p. 185 modifica] tardi, inutile e fatale. Tutto ciò che era stato e che era finito, per sempre, tutto ciò che avrebbe potuto essere e che mai più sarebbe stato, l’Irreparabile, l’Irreparabile si elevava fra loro, e riempiva di sua fantastica e tragica presenza la bottega dei santi, tra le immagini rotte e deturpate, innanzi ai simulacri violati, nell’ora alta notturna, mentre imperversava, fuori, il temporale, e i due si guardavano, colpiti dalla medesima fatalità, trascinati, ognuno di essi, nel dolore, nel disonore, nel fango, per non aver visto a tempo, ove erano la verità e la vita.

E l’uomo obbliò il suo immenso strazio, la sua anima si sollevò dal proprio pianto, egli sentì la comunanza di un’altra sciagura, assai più profonda della sua, perchè più oscura, più ostinata, più tetra, più inguaribile, sentì la miseria di un altro essere, la miseria del corpo e dell’anima, la miseria di un essere che lo aveva amato e del cui amore egli non si era accorto, la miseria di un essere che egli anche aveva amato, ma che non aveva saputo amare.

— Ah povera, povera Gelsomina! — egli gridò.

E poichè vide il volto di lei decomporsi, farsi livido, sotto il belletto, poichè vide quel sottil corpo giovanile tremare, egli prese la poveretta nelle sue braccia, per la prima volta, e con la castità della pietà infinita, paternamente, fraternamente, la strinse, tenne il picciol capo di lei sulla sua spalla e ne baciò, leggermente, i capelli, mentre ella singhiozzava, funebremente, con un singulto roco e [p. 186 modifica] penoso, ove vi era un lamento, un lamento di creatura colpita a morte, colpita senza speranza, colpita senza rimedio, a morte.

Gelsomina, lentamente, si sciolse dalle fraterne braccia di Domenico, si ravviò i capelli, si sedette presso a lui. Un’aridità improvvisa aveva disseccato le loro lacrime, e calmato i loro singhiozzi: l’aridità della pietà inane, della pietà vana, della pietà che non può diventare coraggio, energia, forza, della pietà che ha solo delle gelide lacrime, degli abbracci paterni, dei baci fraterni, della pietà che è un sentimento senza lena, della pietà che non ha fiamma e che nulla può distruggere, della pietà sterile che a nulla può dar vita.

— Io sarei stato felice, se ti avessi sposato, Gelsomina — disse lui, con un rimpianto triste e vano, a occhi bassi.

— Sì, tu saresti stato felice — replicò lei, a occhi bassi, con lo stesso tono. — Io ti avrei stimato e onorato come un benefattore e come un innamorato, Domenico.

— Ahimè, io era cieco e sordo, in quel tempo! Una benda mi copriva gli occhi, Gelsomina.

— Eppure io feci assai, per farti comprendere. Non ti rammenti, Domenico? Qui, venivo a cercarti, a parlarti, ogni sera.

— Mi rammento, Gelsomina.

— E tu non ti accorgevi di nulla. Tu guardavi le finestre del palazzo Angiulli, perchè tu amavi Anna, Domenico.

— Lo sapevi, Gelsomina? [p. 187 modifica]

— Lo sapevo, Domenico. Come potevo, ho tentato di staccarti da lei, ti ricordi, Domenico?

— Mi ricordo, Gelsomina.

— Ma non mi è riuscito, Domenico.

— Non ti è riuscito, Gelsomina.

— Non era possibile, Domenico.

— Non era possibile, Gelsomina.

Il dialogo continuava, monotono, arido, quasi freddo, quasi essi facessero la storia di un lontanissimo passato, la storia di due altre persone, e non di loro due.

— Dio mi ha punito della mia folle passione e del mio orgoglioso desiderio — disse lui, dopo un silenzio, riabbandonandosi all’egoismo della sua sciagura.

— Raccomandati a Lui: Egli ti darà forza — mormorò Gelsomina, crollando il capo.

— Io sono perduto — disse lui, cupamente.

— Ci vuole coraggio: gli uomini debbono aver coraggio.

— Avevo una moglie e una famiglia: non ho più nulla.

— Dimentica quella donna: essa ha tentato di ucciderti.

— Avevo una fortuna: non ho più un soldo.

— Puoi lavorare ancora: il Signore ti manderà del lavoro.

— Domani andrò in carcere, come ladro.

— Tu? Tu?

— Io!

— Ma perchè? [p. 188 modifica]

— Perchè Anna ha rubato le vesti della madonna, che costavano seimila lire, e gli argenti, e ogni cosa: perchè io debbo consegnare, domattina, la statua della Madonna a chi l’ha ordinata e pagata, sino all’ultima lira.

— Dì che non è finita.

— Non posso. Egli l’ha vista, finita. All’alba, la manda a prendere.

— Va da lui, digli tutto.

— Non so dove abita.

— Cercalo, gittati ai suoi piedi.

— Non so chi è.

— Oh Dio! — esclamò lei, disperata.

— Sono perduto, Gelsomina. Bisogna che dimentichi di esser un cristiano, e che mi uccida ai piedi di questa Madonna.

— No — disse lei, con forza.

— Bisogna che lo faccia. Non posso esser chiamato ladro.

— Vuoi dannarti, dunque?

— Anna mi ha messo nell’inferno, per la vita e per la morte — egli conchiuse, con l’ostinazione della follia.

Ella lo guardò, stralunata.

— Tu vuoi ucciderti — gli gridò, nel viso, tenendogli le mani, bruciandolo coi suoi sguardi, ove ardeva la vampa della disperazione. — Vuoi ucciderti? E che avrei dovuto fare io? Cento volte, avrei dovuto uccidermi, io! Ero una fanciulla buona, ti volevo bene, mi hai respinta, non mi hai voluta, ed io mi sono lasciata prendere, da [p. 189 modifica] uno qualunque, così, per debolezza, per tristezza, per non aver più che fare, di me. Non mi dovevo uccidere, forse, il giorno seguente al mio errore? Don Franceschino Grimaldi mi ha lasciata; e io, abbandonata, già perduta, ho rotolato sempre più giù, ogni giorno, perchè ero sola, perchè ero fiacca, perchè nessuno mi ha soccorso, neppure tu, perchè era impossibile, a un certo punto, di soccorrermi più. Ah quante volte la morte mi è parsa bella: e non mi sono uccisa! Io non ti posso dire la mia istoria, tutta quanta, Domenico, ma essa ti farebbe rabbrividire: non te la voglio dire, non devi saperla, non me la voglio ricordare, no, no: la volontà di morire l'ho avuta, ogni sera, ogni mattina, e non mi sono uccisa! Un tempo, due o tre anni fa, questa vita di vergogna mi dava da vivere, avevo degli abiti, dei cappelli: poi sono venuti degli infami, come Gaetanino Calabritto, degli altri, mi hanno oppressa, mi hanno maltrattata, mi hanno tolto tutto... Poi sono stata malata... all'ospedale, Domenico... ma non sono morta... e quando sono uscita, capisci... anche peggio... è stato anche peggio...

Egli la udiva, smarrito, atterrato da quel tremendo racconto.

— Chiedi al tuo stuccatore, Gaetano, dove sono io, adesso — disse ella, cupamente. — Egli abita dirimpetto alla mia casa. Stassera, mi ha incontrato. Giravo. Debbo girare. Mi ha raccontato tutto. E sono venuta qui, per dirti, Domenico, che se uno doveva uccidersi, dovrebbe uccidersi, sono io, io [p. 190 modifica] sola... io che era una buona ragazza... e che sono una disgraziata...

— Ma tu non l’hai fatto! Tu non lo faresti?

— No — ella disse, levandosi. — Aspetto che Dio mi tolga da queste tribolazioni.

— Aspetti?

— Aspetto. Deve venire il giorno... deve venire. Addio, Domenico.

— Te ne vai adesso? te ne vai?

— È tardi, debbo andare — diss’ella, con atto rassegnato, levando le spalle.

— Mi lasci solo?

— Non posso passar la notte, qui — soggiunse ella, con un sorriso amaro.

— Ritornerai? domani?

— No. Come posso venire, qua, di giorno? Dimentichi chi sono? Qui... da te... come sono... vedendomi tutti? No, non verrò.

— Ma dove vederti, allora? — insistette ancora lui, nel suo bisogno di soccorso.

— Oh non da me, non da me! — gridò lei, facendo un atto di ribrezzo.

— Hai ragione — annuì lui, lentamente.

E si guardarono in viso. Il destino li aveva avvicinati un tempo, ed essi tenevano nelle loro mani, la quiete e la dolcezza della loro vita, e l’avevano lasciata sfuggire, per ignoranza, per cecità, per timidezza, per debolezza: sovra loro, sovra le loro fragili anime, sovra le loro caduche compagini, era sorto un essere forte e crudele, una donna imperiosa e malvagia che li aveva [p. 191 modifica] combattuti, in nome dei suoi istinti di dominazione, di cupidigia, di potenza, li aveva combattuti, debellati, distrutti. E travolti dal turbine, sempre più, essi dovevano incontrarsi, ogni volta, per compiangersi, per piangere insieme, per esalare i lagni del loro dolore, ma incapaci, nella loro fiacchezza, di salvarsi, l’un l’altro, ma inetti ad agire, inetti a lottare, inetti a vivere, destinati, infine, ad aspettare che Iddio li liberasse dai triboli, ad aspettare la morte pacificatrice, solo quando il giorno della liberazione fosse venuto.

Si guardarono, infelici come mai creature umane, in una notte bruna e tempestosa, furono infelici: e sentirono che nulla avevan più da dirsi: che le loro mani non dovevano toccarsi: che le loro vite dovevano separarsi: poichè la loro salvazione non era più in loro, ma fuor di loro, in mani misteriose, e chiuse, e alte, e supreme. Nella bottega dei santi, Domenico Maresca restò solo e piegò la testa sulle braccia, versando rade e fredde lacrime. Nella via, sotto la pioggia, la gracile ombra notturna di Gelsomina si allontanava, trascinando la stanca persona, e sul triste viso scendevano le rade e gelide lacrime.

FINE.