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186 storia di due anime


penoso, ove vi era un lamento, un lamento di creatura colpita a morte, colpita senza speranza, colpita senza rimedio, a morte.

Gelsomina, lentamente, si sciolse dalle fraterne braccia di Domenico, si ravviò i capelli, si sedette presso a lui. Un’aridità improvvisa aveva disseccato le loro lacrime, e calmato i loro singhiozzi: l’aridità della pietà inane, della pietà vana, della pietà che non può diventare coraggio, energia, forza, della pietà che ha solo delle gelide lacrime, degli abbracci paterni, dei baci fraterni, della pietà che è un sentimento senza lena, della pietà che non ha fiamma e che nulla può distruggere, della pietà sterile che a nulla può dar vita.

— Io sarei stato felice, se ti avessi sposato, Gelsomina — disse lui, con un rimpianto triste e vano, a occhi bassi.

— Sì, tu saresti stato felice — replicò lei, a occhi bassi, con lo stesso tono. — Io ti avrei stimato e onorato come un benefattore e come un innamorato, Domenico.

— Ahimè, io era cieco e sordo, in quel tempo! Una benda mi copriva gli occhi, Gelsomina.

— Eppure io feci assai, per farti comprendere. Non ti rammenti, Domenico? Qui, venivo a cercarti, a parlarti, ogni sera.

— Mi rammento, Gelsomina.

— E tu non ti accorgevi di nulla. Tu guardavi le finestre del palazzo Angiulli, perchè tu amavi Anna, Domenico.

— Lo sapevi, Gelsomina?