Storia di Torino (vol 1)/Libro V/Capo V

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Capo Quinto


Provvisioni del comune in fatto di religione, di buon costume e di pubblica beneficenza.


La sollecitudine del comune estendevasi sopra lutti gli altri rami di governo e d’amministrazione, che ora, scompartiti per una moltitudine d’uffici, ren­dono testimonianza, in parte della maggior perfezione degli ordini civili e della mole aumentata d’affari, in parte eziandio dell’impedimento che fa il com­piersi ogni cosa per iscrittura, e il non fornirsi se non dopo varii passaggi per ufficii di proposta, di consulta, di risoluzione.

Autorizzava il comune ed aiutava la fabbrica e la ristorazione delle chiese. Procurava l’introduzione in città di quelle religioni che edificavano i popoli col buon esempio, li miglioravano spargendo il seme della divina parola, la riforma o l’abolizione de’ re­ligiosi che operavano il contrario. Promovea il culto [p. 372 modifica]divino e l’onore de’ santi, e massime quelli di Maria Consolatrice, del precursore Battista, sovrano pro­tettore della città, di S. Secondo, di S. Solutore e de’ suoi compagni martiri, altri veneratissimi pro­tettori, di S. Teodorico, custode de’ beni territoriali, di S. Sebastiano, e più tardi di S. Rocco, che difendeano contra la pestilenza.

Infine, quando cominciò dai Luterani e dai mul­tiformi loro seguaci a porsi in trono il dubbio, a sostituirsi l’arbitrio individuale all’autorità, a porsi per base d’un sistema la negazione, la città di To­rino si dimostrò sempre caldissima ad impedire che allignasse fra noi la pianta dell’errore.

Della cattedrale di S. Giovanni, famosa fin dai tempi Longobardi, non occorre parlare. La festa del santo si celebrava con una processione, a cui mandavano un grosso torchio le dame e i donzelli, i notai, i mercanti, i sarti, i beccai, i tavernieri, la compagnia degli scuolari, quella degli asini; coloro che si faceano sposi in tempo prossimo alla festa del santo; gli uomini di Grugliasco, ed in breve ciascuna delle arti cittadine o campestri; e questi torchi si conservavano poi nel duomo, innanzi all’altare del santo. Un gran fuoco accendevasi, come si fa ancora, la veglia del santo, e per mantenere il buon ordine vegliava tutta la notte il cavalier del vicario con alcuni armati. Un gran banchetto davasi a tutte le gentildonne dopo la festa religiosa, e il popolo [p. 373 modifica]danzava e gozzovigliava. Faccasi la baldoria che chiamavano de’ vignolanti (tripudium), regolata da un capo che chiamavasi il re tamburlando, e sovente facevasi una corsa di cavalli fuor della porta Mar­morea, verso S. Sebastiano, e così poco lontano dall’odierno campo di Marte.

Nel 1465, dodici cavalli furono ammessi a correre, otto di nobili, fra i quali un Malabaila, un Roero, un Borgaro; quattro di cittadini, fra i quali Antonio di Firenze, che fin dal 1456 leggea chirurgia nel­l’università di Torino.

I fantini non poteano portar frusta o verghe con cui battere il cavallo. Il primo premio era un pallio di velluto perso lungo dodici braccia; il secondo un berretto molto bello di fino scarlatto; il terzo una bella spada.1

Ancora erano inolio in uso una o due volte all’anno quei sacri spettacoli che si chiamavano propriamente misterii. Al S. Giovanni del 1468 v’ebbe corsa al pallio, e recita del martirio di S. Vittore.

A’ 24 di giugno del 1489, nacque nel castello di Torino Carlo Giovanni Amedeo, principe di Pie­monte, figliuolo di Carlo i e di Bianca di Monfer­rato. Il comune fe’ gittar per due sere fuochi artifi­ciati, e per quattro sere accese falò sulla torre del comune e in altri luoghi eminenti. Con tali di­mostrazioni significavasi la pubblica allegrezza; e ad agevolarne le dimostrazioni era ordinata una [p. 374 modifica]compagnia festiva, che aveva il suo abbà o capo, ed era sussidiata dal comune. Fuvvi ancora una compagnia del tiro (società dell’archibugio) ed un re degli archibugieri. Ma di ciò basti.

Della badia di S. Solutore e degli antichi onori di quella basilica, abbiam già toccato. L’imagine della Vergine Santa della Consolata, che col tenero nome di madre, col pio nome di Consolatrice è da tanti secoli depositaria de’ nostri dolori, ministra di celestiali conforti, dicesi che fosse proposta da S. Mas­simo alla venerazione de’ fedeli; che, ruinata poi dalle guerre la cappella in cui si custodiva presso Sant’Andrea, un cieco dimorante in Brianzone, fosse per not­turna visione esortato a farne ricerca; e che, fattosi condurre a Torino, ritrovasse ad un punto e l’imagine miracolosa e la vista corporale che avea smarrita.

Queste pie tradizioni si narrano della Vergine della Consolata, la quale è certissimo che sul finire del secolo xm era venuta in molta fama, e che nel secolo seguente era segno a divoti pellegrinaggi di principesse e di dame.

Due grandi lampade ardevano dì e notte innanzi alla santa imagine. Voti di cera e d’argento copri­vano le pareti della cappella. Nella peste del 1420 la città ordinava una processione generale con una messa alla cappella di Sta Maria di Consolazione. Nel 1448 ricorreva allo stesso rimedio, onde vedere dopo le ostinatissime pioggie un nuovo sorriso di cielo. [p. 375 modifica]Di S. Teodorico o Teodoro si facea dipinger l’imagine entro a tabernacoli nella campagna perchè mantenesse tempo propizio ed abbondanti raccolte; sul fine di settembre d’ogni anno si distribuiva ai poveri grano, vino e ceci in onor del santo, e questo si chiamava daya di S. Teodoro.2

Nel 1450 e 1451, la città travagliata dalla pe­ stilenza, ordinava si fabbricasse una cappella a S. Sebastiano, si celebrassero le feste di S. Valerico abate e di S. Bernardino. Nel 1453 eransi nel sacco della terra d’Exilles rubati anche i vasi sacri, col­l’ostia consacrata; aveali il sacrilego rapitore avvolti in un fardello, e caricatolo sur un mulo, s’era posto in viaggio verso la Lombardia. Pervenuto a Torino, in sul mercato del grano, innanzi a S. Sil­vestro, il mulo s’abbattè duramente, si slegò il far­dello, e, secondochè narra l’antica tradizione, l’ostia sacrosanta s’alzò per l’aria, sfolgoreggiando, e vi ri­mase finché, giunto sul luogo il pio vescovo Ludo­ vico di Romagnano, scese nell’aureo calice che questi tenea fra le mani. Riposta in. un tabernacolo nel duomo, fu segno a culto speciale. Per memoria del fausto avvenimento, il comune ordinava nel 1510 la costruzione di una cappella nel luogo stesso in cui quel celeste tesoro erasi rivelato al popolo; e ad un tempo siccome la peste imperversava, si co­ mandò che tutte le porte della città fossero segnate col nome tutelare di Gesù. [p. 376 modifica]

Ai frati minori, ai frati predicatori dava soccorsi il comune, massime quando teneano il capitolo pro­vinciale.

Aiutava il capitolo a riparare il duomo, i frati minori a ricostrurre la loro chiesa nel 1339; concedea al prior di S. Andrea facoltà di prolungare la chiesa della Consolata nel 1448.

Raccomandava al papa i suoi borghesi pei benefizi vacanti. Nel 1348, essendo mancato di vita Guido Canali de’ signori di Cumiana, vescovo di Torino, il principe pregò il comune scrivesse lettere al papa a favore di suo fratello Tommaso, canonico di Lioné, e per maggior sicurezza che fossero di quel tenore ch’egli bramava, desiderò si scrivessero sotto a’ suoi occhi a Pinerolo, e la città affidasse il sigillo ad uno de’ savi. Fu compiaciuto d’ogni cosa. Tommaso fu eletto e confermato, e nel dicembre dell’anno me­desimo il comune comprava dodici tazze d’argento, onde fargli un presente in occasione della sua gio­conda venuta.

Nel 1385, si ricorreva ai papa affinchè rendesse agli Umiliati ed ai Crociferi la prepositura di S. Cri­stoforo, ed il priorato di S. Biagio, state concedute in commenda. Tre anni dopo si chiedeva alla santa Sede s’unisse la prepositura degli Umiliati all’opera del ponte di Po, essendochè non v’eran frati nè monache, e vi si commetteano molte disonestà.

Nel 1391 la città ordinava che i quattro chiavarii [p. 377 modifica]e due religiosi scrivessero tutte le feste da celebrarsi, con divieto di lavoro a qualunque persona a pena di tre soldi viennesi, dichiarandone per altro eccettuato l’adacquamento de’ prati.3

Nel mese d’agosto del 1402, predicava in Torino S. Vincenzo Ferrero. Il comune, lieto delle conver­sioni che operava quella potente ed inspirata parola, gli fe’ presente d’una carrata di vino, che tornò in elemosina a’ suoi Domenicani.

Nel 1446, predicava nella stessa città con mirabil fruito fra Giovanni Marchisio, dell’ordine degli ere­mitani di S. Agostino, e come spesso accade che un uomo solo innalzi o abbassi la fama d’un’intera congregazione, i Torinesi, innamorati di fra Giovanni, procurarono che a’ suoi frati si smettesse il convento di S. Solutore minore, già de’ Vallombrosani, ed allora per le guerre mezzo diroccato. Vennero gli eremitani, ed ebbero invece la chiesa e il convento di S. Cristo­foro degli Umiliati nel sobborgo di S. Donato a porta di Susa, donde si trasferirono in città, dopo la di­struzione de’ sobborghi dall’armi francesi nel 1536.

Un altro di quelli oratori che colla popolar elo­quenza muovono prodigiosamente gli umani affetti, venne in Torino nel 1458, ed è frate Giacomo dello stesso ordine Agostiniano. A sua richiesta il comune facea provvisioni centra l’immodesto vestir delle donne; contro la bestemmia, statuendo pena di cinque fiorini d’oro a chi bestemmiasse il nome d’Iddio o [p. 378 modifica]Maria Vergine; della metà a chi bestemmiasse il nome de’ Santi, in difetto stesse alla berlina il col­pevole un giorno intero, e digiunasse a pane ed acqua. In fine si represse l’inverecondia delle fem­mine da partito.

D’un altro illustre oratore ci parlano le memorie torinesi. Nel 1459 predicava la quaresima in Castello avanti alla duchessa Bianca e tutta la corte S. An­gelo Carletti, frate dell’osservanza di S. Francesco, nato in Chivasso.

Gran fruito anche pel progresso degli ordini civili faceano a quel tempo le prediche.

Il monte di Pietà eretto in Torino nel 1519, era stato consigliato dal predicator quaresimale della Madonna degli Angioli, chiesa situata nel sob­borgo di Dora, presso al sito in cui sono i molini della città.

Soli tre anni prima eransi chiamali in Torino i Francescani riformati, e si era loro edificato un con­vento, sotto alla invocazione della Madonna degli Angioli al borgo di Dora, donde passarono nel 1544 a S. Tommaso.

Verso il principio del secolo xvi i Carmelitani occupavano la chiesuola di S. Sebastiano fuori di porta Marmorea, donde dopo, la distruzione de’ sob­borghi fatta da’ Francesi, passarono a Sta Maria di Piazza.

Nel 1561 s’erano alcuni industriali perchè il papa [p. 379 modifica]riformasse i Domenicani torinesi, od ai medesimi surrogasse i frati dell’Osservanza di Lombardia. Nel gennaio dell’anno seguente provvedeva il comune affinchè non s’operasse nè riforma nè surrogazione, rendendo testimonianza della buona e religiosa loro vita.

In aprile del 1470, il comune elesse alcuni savi, che insieme col vicario del vescovo e co’ frati pro­cedessero alla riforma de’ costumi. Uno de’ savi eletti fu Bruneto della Rovere. Proposero varii capitoli che furono dal comune approvati e mandati eseguire. Ma poco frutto produssero, perchè le donne mondane invadeano lutti i quartieri della città, e molti faceano aperta professione di vivere in concubinato, sebbene fin dal 1436 si fossero appigionate case pel postri­bolo verso porta Posteria, con legge: che le donne di partilo vi dovessero rimanere;4 non potessero bere, mangiare o dormire, nè fallire di lor corpo in altro sito; uscissero di notte; ne’ soli giorni di mercoledì e di sabbato avessero facoltà d’uscir di giorno per la città, divisandosi con una fettuccia sopra la spalla destra; andassero a messa a S. Dalmazzo, purché non ne passassero il campanile, e a S. Andrea, purché facessero la via lungo il muro. Ma questi ordini non erano osservati, onde in marzo del 1482 si riformò: le donne mondane sfrattassero o si riducessero al postribolo fra tre giorni a pena della fustigazione; niuno fosse sì ardito di tener [p. 380 modifica]concubina a pena di dieci fiorini per ciascuna volta si cogliesse in fallo; niuno giocasse alle carte o ai dadi, prestasse casa, lume o danari per farlo a pena di soldi sessanta, fuorché ne’ giorni festivi, e dalla domenica delle palme fin dopo le feste di Pasqua.

A’tempi d’Emmanuele Filiberto la pulizia delle donne mondane, dei vagabondi e delle persone mor­bose fu commessa ad un uffiziale che ebbe titolo di cavaliere della virtù. Nel 1568 Giacomo Fusero avea tal carica da S. A. ed era assistito da un chirurgo, Simondo Galia.

Nel 1542 (periodo dell’occupazione francese), Fi­lippo de’ Mari, vescovo di Savona, e coadiutore del cardinale Innocenzo Cibo, arcivescovo di Torino, conoscendo la maggior parte de’ parroci e rettori di anime ignoranti della disciplina ecclesiastica, non abili a predicar la divina parola, negligenti del pro­prio dovere, oziosi, sprovveduti di libri, sicché poteano chiamarsi alberi sterili della vigna del Signore (sono sue parole), e vedendo essere sufficiente ai bisogni della città minor numero di parrocchie, pro­pose al consiglio di ridurle a quattro. Ma, sebbene il comune approvasse quel divisamento e risolvesse di scrivere al papa, la cosa non ebbe seguito. Nè pare che maggior effetto abbia avuto in quel momento l’altra santissima proposta stata pure dal comune approvata, di obbligar le monache alla clausura.

In dicembre dell’anno medesimo, il comune [p. 381 modifica]chiedette che fosse rimosso il predicatore di S. Fran­cesco che andava spargendo errori.

In maggio dell’anno seguente fe’ instanza si cac­ciasse un prete luterano, e s’eseguissero contro a cosiffatti eretici le lettere del re. In gennaio del 1562, mandò suoi deputati al re di Francia perchè vietasse ai protestanti di predicar in Torino contra la fede cattolica. Espose a S. M. cristianissima Gio. Antonio Parvopassu, che la città di Torino avea sempre man­tenuta fede a Dio, come la manteneva a’ suoi sovrani, e che non intendeva di mutar sistema; ed ottenne lettere al maresciallo di Bordiglione, viceré, colle quali gli si imponeva di cacciare chi tentava di spar­gere nuove dottrine.

Intanto, per armare i cittadini contra le perniciose novità che correvano in materia di fede, la città, fin dal febbraio del 1542, avea deputato maestro Ge­rolamo Bacchia a leggere dal pulpito di S. Dome­nico, in tutti i giorni festivi, le lettere di S. Paolo, spiegandone il vero senso a confutazione de’ lute­rani. Infinito obbligo abbiamo pertanto per la con­servala purità della fede al comune di Torino, non che alla compagnia di S. Paolo che si formò per pri­vata associazione e con quel principalissimo scopo ne’ chiostri di S. Domenico nel 1565, ed alla com­pagnia di Gesù, che venne a stabilirsi in Torino in dicembre del 1566.

Nel 1567 l’arcivescovo Girolamo della Rovere [p. 382 modifica]esortava la città ad ordinare che non si desse a fitto ad eretici casa o podere. Il comune aderiva, impe­rocché allora erano i ministri della pretesa riforma torbidi e fanatici, e mal frutto si raccoglieva dalla loro vicinanza.

In mezzo a queste liete ricordanze, ne abbiamo anche delle tristi, frutto della ignoranza, e d’uno zelo religioso scompagnato da carità, epperò non cristiano. Voglio accennare i roghi in cui a tempo a tempo, secondo l’errore universale, s’ardevano eretici. Fra gli altri trovo memoria al 5 settembre 1388 del sup­plizio d’alcuni gazari o valdesi condannati per ere­tica pravità.

Ma per buona sorte questi casi erano assai rari.

Chi dal numero degli spedali giudicasse della pub­blica beneficenza ne’ tempi di mezzo, fallirebbe per certo nel suo giudizio. Non meno di dodici ne an­noverava la città di Torino, sebbene gli abitanti non giungessero nel secolo xiv a cinquemila. E chiamavansi del duomo o di Sta Maria, della porta Su­sina, di S. Dalmazzo (frati di Sant’Antonio), di S. Bia­gio (de’ Crociferi fuor di porta Pusterla dove ora è la piccola casa della Provvidenza), degli Umiliati (nel sobborgo di S. Donato), della Maddalena (de’ canonici di Rivalla situata presso la chiesa di questo nome, al di là del ponte di pietra sulla Dora, e fondato dagli Arpini di Torino nell’anno 1196), di S. Giacomo di Stura (de’ Vallombrosani), di S. Severo (a mezzodì [p. 383 modifica]levante di Torino, già de’ Tempieri), di Sta Maria di Pozzo di Strada (de’ Vallombrosani), di S. Solutor mag­giore (de’ Benedittini), di Sant’Andrea (presso la porta Pusterla de’ Benedittini). Infine uno spedale era stato costrutto presso la porta Fibellona nel 1314 da Pietro Prando, piovano di Scalenghe e canonico del duomo torinese, co’ beni che gli avea legati per tal fine Guglielmo Ainardi, cittadino di Torino, e fu lo spe­dale che si chiamò di S. Giovanni, e più tardi di Sta Catterina: nel secolo xv era stabilito in una casa posta avanti al duomo. Ma ciascuno di questi spedali componevasi d’una o di poche camere con pochi letti e con piccola dote, logorata ancora dalla rapacità degli amministratori, dimodoché i poveri, gli infermi, i pellegrini vi trovavano scarso ricovero, e minore assistenza. Eravi ancora tra la Dora e la Stura una casa, denominata di S. Lazzaro, pe’ leprosi, ma non era meglio governata. Di questi mali travagliavasi grandemente il comune; epperò sul finire di settembre del 1378, pregava il vescovo Giovanni di Rivalta, che per amor di Dio, e per un riguardo di carità, procacciasse che gli spedali fossero gover­nati da persone che ne procurassero il vantaggio, e ne riscotessero ed amministrassero le entrale, per modo che i poveri di Cristo ed i romei vi trovassero il miglior possibile ricetto; proferendo il vicario, il giudice, il consiglio l’opera loro al vescovo per questa bisogna. [p. 384 modifica]

Per buona sorte, in tempo di carestia, non falliva alla pubblica miseria la pastorale sollecitudine del vescovo e del comune. Nel 1375, Giovanni di Ri­valla, col consenso del capitolo e delle confraternite, ordinò una limosina quotidiana di pane e di vino a ciaccun povero. Il consiglio diè un aiuto di dugento fiorini, e statuì che i priori ed i massai delle con­fraternite e della elemosina di Sta Brigida, e le altre persone obbligate a soccorrere i poveri, fos­sero dal vicario e dal giudice costrette a concorrere in detta elemosina con tutte le loro rendite, depu­ tando Brunetto della Rovere e Filippono Clerico a pre­siedere in nome del comune a detta limosina per quindici giorni, dopo i quali sarebbero surrogati da altri savi del consiglio; e così sempre. Ciò nel mese di gennaio. Continuando il caro in aprile e maggio, il vescovo diè 200 stai di segala, e altrettanti ne diè il comune, ed insieme altri 300 fiorini: ed inoltre il vescovo abbandonò per quest’uso i legati ad pias causas dovuti fino a quel dì, ed i crediti delle con­fraternite. Ancora il vescovo promise di cedere al prezzo di costo tutto il grano che avrebbe potuto cavare dalle valli d’Oulx.

Nel 1385, il comune ricorreva di bel nuovo a Gio­vanni di Rivalla, richiamandosi degli amministratori degli spedali, che li saccheggiavano e distruggevano. Quattr’anni dopo si pregava lo stesso vescovo di con­ferire l’amministrazione dello spedale di Sta Maria [p. 385 modifica]del duomo a due o tre battuti, che rendessero ogni anno un conto regolare al vescovo, a due canonici e a due chiavarii della città, affinchè i poveri ed i pellegrinivi trovassero miglior ospitalità, dichiarando che in caso contrario il Comune cercherebbe ogni via di pigliarne esso medesimo l’amministrazione.

A’ 6 di marzo del 1440, il comune rendè grazie al vescovo Ludovico di Romagnano del modo generoso con cui s’era governato circa agli spedali, e consentì che si riducessero a due, uno in città, l’altro fuori, sì veramente che ad esso comune ne fosse riservato il patronato e l’amministrazione.

Nel 1541, le lunghissime guerre, le frequenti pestilenze aveano cresciuto il numero de’ poveri, e scemato i proventi degli spedali. A tanta pubblica miseria venne in soccorso la pietà dell’arcivescovo Innocenzo Cibo e quella del comune. L’arcivescovo s’obbligò a periodiche limosino di danari e di der­rate. Il comune consecrò a benefìzio dello spedale le rendite delle dodici confraternite di Torino, da esso amministrate: e seguendo sì laudevoli esempi, s’obbligarono altresì in determinale prestazioni l’a­bate di S. Solutore, il priore di S. Andrea, il pre­posito di S. Dalmazzo.

Lo spedale di S. Giovanni, nel quale già assai prima eransi incorporati lutti gli altri ospizii micro­scopici di Torino, fu poi amministrato da una de­putazione di canonici e di decurioni, ossia consiglieri [p. 386 modifica]della città; e dal 1578 si chiamò spedale di S. Giovanni e della città di Torino.5

Degli espósti, fin da’ tempi più antichi; pigliava cura il comune, e facea loro insegnare un mestiere; e le fanciulle, quando andavano a marito, solea sus­sidiar d’una dote.6 Agli usciti di senno non s’a­priva nissun ricovero. Erano custoditi dai parenti, se agiati; fatti ludibrio della plebe, se poveri. Alcuna volta per pazzi furiosi il comune appigionava una casa, dove fosser rinchiusi.

Ancora ai padri di duodecima prole concedevano i savi privilegio d’immunità.


Note

  1. [p. 395 modifica]Lib. consil.
  2. [p. 395 modifica]Lib. consil. 1385.
  3. [p. 395 modifica]V’è la nota nel libro De’ consigli. Erano: le domeniche, i tre giorni di Natale, la Circoncisione, l’Epifania, le quattro feste della Madonna (An­ nunziata, Assunta, Natività, Concezione), Sant’Antonio, S. Solutore e comp., i tre giorni di Pasqua, i tre di Pentecoste, l’Ascensione, il Corpus Domini, Santa Croce, S. Giacomo e S. Cristoforo, Ognissanti e tutte le feste degli Apostoli.
  4. [p. 395 modifica]Il primo pensiero di metter ordine in questa parte sostanziale di pub­blica pulizia, venne in occasione dello stabilimento dell’università. Lib. consil., 1412.
  5. [p. 395 modifica]Lib. consil. passim.
  6. [p. 395 modifica]Lib. degli ordinati. — Semeria, Storia della Chiesa di Torino, 278.