Storia di Torino (vol 1)/Libro V/Capo VI

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Capo Sesto


Provvisioni in fatto di pubblica sanità,
 di polizia, d’edilità, d’annona.


I più antichi provvedimenti del comune in fatto di salute pubblica a noi pervenuti, risguardavano i le­prosi chiamati anche meselli e lazarosi. Il vicario ed il giudice quando n’aveano indizio li faceano esaminare, e trovatili veramente tali per giudicio dei medici, li espellivano dalla città e li rinchiudevano nello spedai di S. Lazzaro tra la Dora e la Stura. Ma che stati sempre fossero in picciol numero, lo prova la memoria che si ha esservi stati in quella casa due soli letti.

Fin da’ tempi rimoti usò il comune di Torino condur medici e chirurghi provvisionati al suo ser­vigio, con legge che non si partissero dalla città, e curassero gratuitamente i poveri. Nè permettevasi ad un medico forestiero di esercitar l’arte sua in [p. 389 modifica]Torino, se non era prima esaminato ed approvato dai medici torinesi.

Nel 1348, il comune chiamava per un anno a Torino Martino Arborio, medico vercellese, di gente patrizia. Poco dopo Maestro Rizzardino, chirurgo, stava parecchi anni a Torino con provvision del comune.

Nel 1313, Giovanni de Barbois di Carignano era confermato per un anno medico della chirurgia (medicus cirogie).

La pestilenza del 1348 colpì anche il Piemonte, ma forse vi fu men fiera che altrove. Delle provvisioni fatte dal comune in quell’occasione non ab­biamo traccia nissuna.

Nel secolo seguente mollissime volte fu trava­gliata la misera città dalla peste, e forse con mag­gior rabbia ancora nel secolo xvi. Gli ordini soliti usarsi per impedire, se si potesse, o almeno dimi­nuire il male, consisteano nel por guardie alle porte, onde non lasciar entrare in città nissuno che pro­venisse da luogo sospetto; nel racchiudere gli am­malati in capanne isolate nella campagna, che poi si ardeano con tutte le robe che vi eran dentro, come si ardeano le masserizie delle case in cui erasi scoperto qualche appestato; e qualche volta tutta intera la casa.1 Nel profumar le case e le vie; nell’obbligare i religiosi ad uffiziare a porte chiuse, vietare ai medici di assister gli infermi, ai curati di [p. 390 modifica]amministrare i sacramenti a ninno infermo senza darne avviso ai deputati della sanità. Una donna gravida ebbe mestieri di tal facoltà per potersi accostare alla mensa eucaristica, ed ottener l’as­sistenza di una levatrice.

Tutti i corpi dei morti si visitavano onde rico­noscere se vi erano i luridi segni del contagio.2 Cominciava il morbo d’ordinario con parecchie morti improvvise senza segni di peste. Poi si manifesta­vano i bubboni. Allora tutti quei che n’avevano il mezzo fuggivano alla campagna; Tutta la città è in fuga, scriveasi in un ordinato del 1520. Ma la morte li seguitava, e colpivali così fra il verde e i fiori, come nelle tenebre delle case cittadinesche. Nel 1421 fra Oddineto e il medico Gaspare Barbero ottenner premio dal comune, perchè la loro carità erasi segnalata nel servigio degli appestati. Nel 1522, seguendo un pensiero nato fin dal 1509, costruivasi presso al borgo di Dora uno spedale per gli appestati vicino alla cappella di S. Rocco. Fra le vittime illustri della pestilenza è da contare Giovanni Ludovico di Savoia, vescovo di Ginevra, morto in Torino l’ 11 luglio del 1482. Egli vi faceva residenza da assai tempo, e grand’utile dal suo senno, e grande splen­dore dalla sua presenza ritraeva la città, e massime l’università degli studi. E però fu amato in vita e compianto in morte, sebbene in tempo di tante morti e di tante paure non si compianga nessuno.3 [p. 391 modifica]

La nettezza della città avrebbe senza dubbio po­tuto contribuire a tener lontano il morbo fatale. Ma chi volesse trasportarsi col pensiero cinque secoli addietro, e considerare qual era la via principale di Dora Grossa, che cominciava poco sopra a San Dalmazzo, e finiva a piazza Castello, avrebbe ve­duto una strada tortuosa, fiancheggiata da case pic­cole ed ineguali, e qua e colà da portici coperti di paglia, avrebbe veduto fra la torre del comune e la chiesuola di S.Gregorio (S. Rocco) i siti ingombri dai banchi immondi delle beccherie, e da quelli ancor più fetenti del mercato dei pesci. Il suolo della strada non selciato, sebbene a qualche palmo sot­terra vi fosse il lastricato romano; e però sempre pieno di fango e di lordure; uscir dalle case nella via i canali dei cessi, prima scoperti, poi coperti di mal connesso tavolato; mandre di porci senza cu­stode vaganti liberamente per la città, alcuni se­gnati col T di messer lo baron S. Antonio, altri col segno dello spedale, epperò privilegiati di poter in­festar la città, anche quando si pose divieto di la­sciar vagare somiglianti animali. Non parlo dei ban­chi posti fuor delle botteghe, e dei padiglioni di­stesi sovr’essi, che impedivano la via già troppo angusta. Nè dell’odore che mandava la fondita del cevo, quantunque il comune prescrivesse all’uno di procedervi di notte, e sotto un buon fornello, agli altri di non fonderlo salvo nella torre Longa. [p. 392 modifica]Il vagar dà porci senza custode fu proibito fin dal 1328, non per un riguardo di polizia, ma nell’interesse fiscale, perchè il comune dovea pagare ai padroni il prezzo di quei che si trovavano uccisi. Ma non potè estirparsi l’abuso di lasciarli pascolar in città, a malgrado di replicali divieti fino al se­colo xvi.4

I Giudei furono ammessi in Torino l’anno 1424, probabilmente in odio de’ prestatori cristiani, e per­chè si contentavano di minor merito pel danaro che davano a mutuo. La cagione apparente di riceverli fu, perchè conversando co’ cristiani, dall’esempio di questi e da divina ispirazione fossero tocchi a riconoscere i loro errori, a pigliar la via della sa­lute, ad adorare il loro Re Gesù Cristo. Elia Alamandi colla sua famiglia fu il primo a stabilire la sua residenza in Torino. Per molli anni vissero fram­misti ai cristiani; anzi s’impacciavano perfino nel mestier del beccaio. Ma il comune lo vietò, e nel 1457 ebbe ricorso al consiglio ducale onde ridurli ad abitare in luogo appartato.

In settembre del 1437, il comune prescrisse si selciasse la via di Dora Grossa da chi possedeva casa sovr’essa. Due anni dopo si lastricò di mattoni cotti la piazza del mercato. Ma il selcialo delle altre vie e piazze non fu compiuto che nel secolo XVI, seb­bene l’opera s’andasse lentamente continuando.5

La distruzione dei banchi delle beccherie fu [p. 393 modifica]cominciata nel 1461, e compiuta nel secolo seguente. Ma fin dal 1325 si era vietato ai beccai di macel­lare fuor del luogo destinato, d’uccider animali che non fossero stati prima visitati, di gonfiar le carni, di vender carni morbose. Savi capitoli eransi pro­mulgati a questo riguardo anche assai tempo prima. L’ordine di coprir le cloache e di condurle sotterra, fu dato dalla duchessa Bianca nel 1490, e rinnovato dal comune in novembre del 1543.

In marzo del 1448, il fuoco avendo consumato la casa d’un borghese, il comune nel conceder aiuto per riedificarla bandì, che tutti quelli che avessero case, portici, tettoie, porcili coperti di paglia o strame entro la cerchia della città, dovessero sosti­tuirvi in breve termine altra materia, a pena di sessanta soldi viennesi. Così diventa il male un’oc­casione al bene.

Già fin dai tempi antichi la superiore ispezione delle fabbriche apparteneva al comune, al quale conveniva ricorrere per ogni esterior variazione che si volesse fare; ma questa parte dell’edilità non fu esercitata con molta distinzione dai nostri buoni antenati, a giudicarne dallo scarsissimo numero di fabbriche, le quali serbino vestigio di antichità.

Contribuiva non meno alla sanità che alla tran­quillità pubblica l’abbondanza dell’annona. I mezzi più ordinarii, quando si temeva carestia, erano di vie­tare l’esportazione del grano e di ogni vettovaglia, [p. 394 modifica]il che si chiamava sarramento; di cercar nelle case private chi ne tenesse magazzino, ed obbligare il padrone a venderlo, non al giusto prezzo, ma al prezzo che determinava il principe od il comune; e di concedere un premio a chi recasse grano a ven­dere. Così facessi nella fame del 1375, e faceasi in general parlamento dei deputati dei comuni del Piemonte a Pinerolo. Ma il commercio, che campa di libertà, oltraggiato in tante guise, avvinto in quelle pastoie si moriva; il grano non giungeva; crescea la fame. I deputali dei comuni ammaestrati dalla esperienza, si raccolsero di nuovo in generale assemblea, e illuminati da un lampo di vera dot­trina economica, che sventuratamente si dileguò troppo presto, sancirono con autorità del principe che il grano potesse d’allora in poi, ed in perpetuo, introdursi ed esportarsi senza il menomo impedi­mento. A questa risoluzione diè moto l’istanza fat­tane dal comune di Torino, addì 29 d’aprile di quell’anno medesimo.6

Era così incarnata nell’opinion di que’ tempi la necessità delle tasse, che non solo ven era pel pane, pel vino, per la carne, pei pesci; ma per qualun­que opera di qualsivoglia natura era definito il prezzo che se ne dovea pagare. Per agevolare ai campagnuoli il modo di far acconciare gli stromenti aratorii, si facea loro facoltà di pagar il fabbrofer­raio in danaro o in segala. A’ fornai per cuocere uno [p. 395 modifica]staio di pane, doveansi, nel 1342, cinque denari viennesi e due pani, compreso l’obbligo della rena­tura. Il pan bianco si facea ordinariamente in pa­gnotte di quattr’once ciascuna; il pan di mistura di cinque once, quello di segala di sei. E postochè siamo su questo argomento, diremo che alla solle­citudine posta dal comune intorno alla panificazione siamo debitori della morbidezza de’ grissini, introdottasi nel cadere del secolo xvii; cioè di quei fi­nissimi bastoncini di pane, per cui si segnalò da centocinquant’anni la nostra città, con poche altre del Piemonte. Cominciarono a farsi nel secolo xvii que’ pani allungati fini di tre once, o tre e mezzo di peso, chiamate grissie. Migliorando la pasta, re­candola a tale tenacità da potersi trarre in cordi­celle lunghe un braccio, senza romperle, si procedette all’invenzion de’ grissini.

Essendo nei tempi del medio evo stabilito dagli statuti comunali che ciascun pane fosse d’un peso determinato, non si usava quindi venderlo a peso. Anche per le carni s’introdusse qualche volta l’u­sanza di venderle a stima e non a peso; ma non durò.7

Abbiam già notato, che siccome le tasse erano tutte in favor de’ borghesi, quando giungeva qual­che principe straniero, o qualche personaggio di riguardo, i savi provvedeano che non gli mancasse stanza adeguata, e non gli venisse fatto sopruso. [p. 396 modifica]In principio del 1333, il principe d’Acaia diè av­viso ai Torinesi della prossima venuta del re di Boe­mia. Il consiglio deputò alcuni savii che segnassero gli alberghi, il che volea dire, porre sulla porta il toro del comune, sicché niuno potesse più occu­parli. Si statuì ancora che niun albergatore pigliasse per un cavallo più di tre soldi viennesi per notte, dando un quartano di biada, e il fieno, e le altre cose occorrenti; e si rifece la tassa delle carni.


Note

  1. [p. 405 modifica]Nel 1461 fu arsa per cagion del morbo la casa de’ fratelli Ferreri. Il comune li ristorò.
  2. [p. 405 modifica]De prouidendo super visitatone corporum defunctorum tam in ciuitate, quam in poderio et finibus Thaurini, quod eligentur aliqui idonei qui visitent ipsa omnia corpora, et inde comunilati referant et ulterius faciant prohibitiones opportunas omnibus rectoribus ecclesiarum ciuitatis et omnibus phisicis et cirogicis ciuitatis juxta solitum, et teneantur describere omnia corpora per eos visitando. Lib. consil., 1511, 1514.
  3. [p. 405 modifica]Lib. consil., 1463, 1483.
  4. [p. 405 modifica]Divieto generale ed assoluto ne fu fatto il 10 d’aprile 1510. Ma non fu osservato, e nel 1543 s’ordinò la confisca de’ porci che percorressero la città, eccettuati quelli di Sant’Antonio e dello spedale.
  5. [p. 405 modifica]Nel 1511 erano già selciate le strade principali, e fra le altre quelle di S. Tommaso e della Corona Grossa, che da Porta Marmorea conduceano a Porta Palazzo.
  6. [p. 405 modifica]Item super fadendo unum capitulum cum voluntate domini nostri quod granum possit perpetuo apportari et extrahi libere de ciuitate et poderio Taurini a quibuscumque quid placet consulatis. — Placuit quod dictetur unum capitulum et ipsum sic dictatum postmodum legatur coram rationatoribus et clauariis comunis Taurini et postmodum suplicetur domino nostro comiti ut ipsum dignetur confirmare. Lib. consil.
  7. [p. 405 modifica]Ne ho esempio nel 1335. La stima delle carni si facea distinguendo la carne di porco, che era la più cara, quella di montone, di vitello e di bue, i cui prezzi andavano sce­mando secondo l’ordine da noi tenuto. Circa ai pesci, le trotte, i temeri, i lucii, che fossero del peso d’una libbra, doveano vendersi nel 1377 venti soldi. Altri pesci inferiori d’ugual peso, sedici. Ma se il peso di ciascuno era inferiore alla libbra, doveano vendersi soldi dodici.