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capo terzo 81

nere sconosciuti gli autori de’ buoni secoli preceduti; poichè per poco che un uomo si addomestichi a leggerli, non sarebbe possibile che così scrivesse. Non sarà forse inverosimile l’opinione che sino da que’ tempi si parlasse in Milano un dialetto poco dissimile da quello che si parla oggidì; e che nello scrivere si adoperasse una lingua diversa da quella che volgarmente si parla. In fatti anche presentemente nello scrivere si adopera la lingua italiana, anche dalle persone meno colte; le quali parlando, non mai d’altro fanno uso che del loro dialetto, tanto sformato, che sarebbero inintelligibili ad un Toscano. Se dunque, anche a’ nostri giorni i Milanesi, scrivono quella lingua che chiamasi italiana, e nel discorso non se ne servono comunemente mai, non vi può essere difficoltà a comprendere come nei bassi tempi scrivessero quella lingua che chiamavano latina, mentre parlavano il dialetto proprio. Quello che mi fa credere che la lingua che serviva per la scrittura, non fosse la usata nel parlare, si è che non vi trovo analogia veruna fra una carta e l’altra. I barbarismi, le sconcordanze sarebbero costanti se fossero state in uso nel parlare; nè può intendersi questa varietà di errori, se non supponendo che ciascheduno s’ingegnasse di dare una desinenza latina, come meglio sapeva, alle cose che cercava di esprimere. Alcuni persino adoperavano latinizzati gli articoli del volgare da due parti, dalla terza, dalla quarta; come in una carta del 941. Coëret ei da duos partes tenente ursone, item de insola comense, de tercia parte terra sancti victori de masalia, da quarta parte terra sancti petri de clevade1. Dallo stato della lingua può conoscersi

  1. Il conte Giulini, tomo II, pag. 199.