<dc:title> Storia della letteratura italiana </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Girolamo Tiraboschi</dc:creator><dc:date>1822</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo VI, parte 2, Classici italiani, 1824, VIII.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Storia_della_letteratura_italiana_(Tiraboschi,_1822-1826)/Tomo_VIII/Lettera_al_reverendissimo_padre_N.N.&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20190312011717</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Storia_della_letteratura_italiana_(Tiraboschi,_1822-1826)/Tomo_VIII/Lettera_al_reverendissimo_padre_N.N.&oldid=-20190312011717
Storia della letteratura italiana - Lettera al reverendissimo padre N.N. Girolamo TiraboschiTiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo VI, parte 2, Classici italiani, 1824, VIII.djvu
[p. 926modifica]L E T T E 11 A
A L
REVERENDISSIMO PADRE N. N.
Autore delle Annotazioni aggiunte alla edizione romana
della Storia della Letteratura italiana.
Reverendissimo Padre
La gentilezza con cui V. P. Reverendissima
si è degnata di legger tutta la mia Storia della
Letteratura italiana, e con cui, invece di correggere a quando a quando il mio testo, come
avea cominciato, si è compiaciuta di aggiugnere
soltanto alcune opportune annotazioni, che l’apostolico suo zelo nel serbare incorrotto il deposito della Fede le ha fatto credere necessarie,
affin d* impedire i danni che dal leggere la mia
opera poteansi derivar ne’ Fedeli, esige da me
la più viva riconoscenza e i più ossequiosi
ringraziamenti. Della qual compiacenza a mio
riguardo usata tanto maggiore obbligazione
debbo io professarle, quanto più io sono intimamente persuaso ch’essa non abbia già avuta
origine nè da un certo Manifesto pubblicato qui
dal mio stampatore, con cui cotesta edizione,
nel modo in cui le era stato dato principio,
veniva solennemente in nome mio riprovata,
nè da un superiore comando che alcuni han [p. 927modifica]927
voluto lar credere di’ ella avesse ricevuto, di
non alterare il testo dell’opera 3 ma che sia stata
frutto soltanto di quell’animo sì cortese e gentile , e di quelle sì obbliganti maniere che tutta
Roma ammira già da gran tempo in V. P. reverendissima. Nè sono io solo che me le debba
perciò protestare sommamente tenuto, ma tutti
quelli che han fatto acquisto di cotesta edizione
della mia Storia, le debbono essere riconoscenti
e grati, così per averli sottratti al pericolo di
cadere in quegli errori in cui avrebbe essa potuto condurli, se nelle sue annotazioni non gli
avesse ella indicati e corretti, come pe’ tanti
lumi e per le sì rare e pellegrine notizie che
nelle annotazioni medesime si incontrano, delle
quali senza esse sarebbono rimasti privi. Mi
permetta dunque V. P. reverendissima che, poichè in altro modo non mi è possibile, col pubblicare questa mia lettera io faccia conoscere
a tutti, quanto io le debba, e che perciò io
venga qui riunendo ed epilogando gli errori che
l’acutezza del suo intendimento ha nella mia
opera ravvisati, e i nuovi monumenti di storia letteraria, de’ quali con vastissima erudizione
ha corredate le sue* note. Che se, come è opinione di alcuni, qualche altro ha diritto di entrare con V. P. reverendissima a parte di questa lode, io la prego a volerla con lui dividere 3
ed in ciò mi riposo tranquillamente nella illibatezza della sua coscienza , che ben lontana
dall’usurparsi l’altrui, saprà e vorrà certamente
che ognun ritengasi ciò che di ragion gli conviene.
Tikaboschi, Voi. XV. u5 [p. 928modifica]928
Ne’ primi due tomi due note sole ho trovate
da V. P. reverendissima aggiunte. La prima è ai
tomo primo pag. 35, ove avendo io detto che il
sistema copernicano, adombrato già dai Pittagorici, è stato poi a’ dì nostri evidentemente confermato e dimostrato, V. P. reverendissima,
piena di zelo per la sana dottrina, avverte che
non solo presso chi non adotta il sistema, ma
anche presso molti Copernicani questo non
passa per dimostrato. Riflessione ingegnosa , e
che in avvenire renderà più cauti i filosofi copernicani nel sostenere il loro sistema , e che
ricorderà loro che le voci dimostrato e dimostrazione non si possono usare nemmeno da
uno storico , se non ove si tratta di rigorosa
dimostrazion geometrica. Ma perchè questa nota
le è sembrata per avventura non abbastanza
diffusa, un’altra più lunga e piena di buon senso
e di profondo raziocinio ne ha poi premessa
al tomo VIII, quasi ad antidoto di ciò che
ivi più a lungo ho scritto sul sistema copernicano. In essa si compiace V. P. reverendissima
di assicurare i lettori che io non ho mai avuta
intenzione di contraddire a’ decreti di Paolo V
e di Urbano Vili 5 della qual carità nell’intraprendere favorevolmente la mia intenzione me le
protesto al maggior segno tenuto. Sul sistema
copernicano poi non ancor dimostrato ella ci
dice sì belle cose con S. Agostino alla mano,
che niun certo ardirà in avvenire di usare quella
espressione che io sì impropriamente ho usata.
L’altra delle note aggiunte a’ due primi tomi
è nel tomo secondo, p. 361, ove avendo io asserito che il P. Papebrochio ha dimostrato (ed [p. 929modifica]•
eccomi di nuovo caduto nel grave fallo di usare
impropriamente questa parola) che Lucifero
vescovo di Cagliari non fu colpevole dello scisma de’ Luciferiani, e che non mai separossi
dalla comunione della cattolica Chiesa , V. P.
reverendissima ricorda a’ lettori l’opera di Benedetto XIV De Servorum Dei Beatificatione,
in cui si producono due pontificii decreti che
vietano il disputare della controversa santità
e del culto di Lucifero. Io veramente non ne
ho disputato, poichè Lucifero poteva esser
sempre unito alla Chiesa cattolica (che è la
sola cosa da me asserita), e ciò non ostante
esser ben lungi dal meritare il titol di Santo.
Nè io credo certo, che se io avessi affermato
che V. P. reverendissima non si è mai separata
dalla cattolica Chiesa, niuno avrebbe perciò
creduto ch’io volessi sollevarla all’onor degli
altari. Ma nondimeno i lettori della mia Storia
le debbono saper grado di questa nota per riprodurre che in essa ha fatto que’ due decreti , che per la storia della letteratura italiana
tanto sono interessanti.
Più vasto campo ha aperto al zelo di V. P.
reverendissima il tomo III, ove a pag. 88
e <)o si trovan dapprima due lunghissime note,
le quali forse avran data occasione a qualche
avaro associato di lamentarsi che per esse gli
sia convenuto pagare qualche baiocco di più,
non riflettendo che troppo bene sarebbe stata
impiegata anche assai maggior somma, per fornirsi delle notizie che esse ci somministrano,
Io osservando che S. Gregorio papa scrive al [p. 930modifica]93° #
vescovo Eterio di avere in Roma cercate sollecitamente le Opere di S. Ireneo da lui richiestegli , ma di non averle potute trovare , e «:he
risponde ad Eulogio di Alessandria, il quale
aveagli chiesta la Raccolta degli Atti de’ Martiri fatta da Eusebio di Cesarea, ch’ei non sapeva che Eusebio avesse fatta cotal Raccolta ,
e che di tal argomento, trattone ciò che nelle
altre sue opere avea Eusebio inserito, solo qualche picciola cosa trovavasi unita in un sol vo
lume; io dico, osservando ciò, ne avea dedotto per conseguenza che mal provvedute di
libri fossero allora le biblioteche romane. Ma
V. P. reverendissima ingegnosamente mi fa osservare che se que’ vescovi avean chiesti al
papa que’ libri, dunque essi credevano che le
biblioteche romane - fosser ben provvedute, e
con ciò ella ha dimostrato che di fatto n’eran
ricchissime, giacchè non può mai accadere che
si creda una cosa la qual non sia vera. Mi fa
anche riflettere che ben vi erano le altre opere
di Eusebio, c che f avere il pontefice sollecitamente cercate le Opere di S. Ireneo ci dà a
conoscere che grande era la copia dei libri
che eran allora in Roma; pruova, a dir vero,
convincentissima; giacchè chi non vede che il
cercare sollecitamente non vuol già dire cercare
in molti luoghi, o da molte persone, ma che
necessariamente significa cercare fra una gran
copia di libri?
Io innoltre, non ben intendendo il latino, avea
creduto, che dove il pontefice S. Martino I
scrive al vescovo S. Amando scusandosi, se [p. 931modifica]non poteva mandargli i richiesti codici, e allegandone per cagione che Codices jam exinaniti sunt a nostra Bibliotheca, v olesse dire che
scarso era il numero de’ libri nella biblioteca
della Chiesa romana. Ma V. P. reverendissima
mi fa intendere che il senso delle arrecate parole non è già quale io l’avea creduto; ma che
significa che delle Opere da S. Amando richieste non v1 era che una copia sola, e che perciò il pontefice aggiugne che il messo del sauto
vescovo non avea avuto tempo di trarne copia
per la fretta che avea di partire da Roma. Dunque, ne riferisce ella con ingegnoso raziocinio,
eravi pure, ma solo una copia, di quelle nella
Biblioteca della Chiesa romana, giacchè come
avrebbe potuto il pontefice permettere di copiarle, se niuna ve n1 era nella Biblioteca della
Chiesa romana? Qualche uom sofisticato ripiglierà
forse che potevan quelle opere essere in qualche altra biblioteca di Roma, non in quella
della Chiesa romana, di cui io parlo. Ma dovea forse V. P. reverendissima gittare il tempo
in rispondere a tai sofismi? E non dobbiam
noi esserle grati dell’insegnarci elv ella ha fatto
che Codices exinani ti sunt vuol dire non v c
più che una copia del tal libro?
Egli è pur vero che quando ci lasciamo occupar la mente da un pregiudizio, appena mai
avviene che ci induciamo a deporlo. L’idea che
io mi era fitta in capo dell1 universale ignoranza
nel vii e nell’ vi11 secolo, me ne ha fatto vedere
in ogni parte le pruove che ora , attesi i lumi
da V. P. reverendissima comunicati al pubblico, svaniscono e si dileguano interamente. Una [p. 932modifica]ifllora di papa Paolo I al re Pipino dell’anno -f,~
in cui gli scrive che mandagli quanti libri ha
potuto raccogliere, e ne soggiugne poscia il
catalogo , il qual riducesi a un Antifonale e ad
un Responsale, a una supposta Grama ti ca d’Aristolile, a’ libri attribuiti a Dionigi Areopagita
e a una Geometria, a una Ortografia e ad una
Gramatica , libri tutti scritti in greco; questa
lettera, dice, mi avea fatto credere che grande
veramente allor fosse la scarsezza de’ libri. Ma
quanto son io ito lungi dal vero! Pipino avea
a cuore i libri attribuiti a S. Dionisio per la
divozione che professava a quel S. Martire, e
li volea scritti in Greco, come anche volea altre opere composte in quella lingua. Così mi
avverte V. P. reverendissima, che certamente
avrà trovata la lettera dal re scritta al pontefice a noi volgari uomini sconosciuta, e che
ne avrà quindi raccolto quai libri ei bramasse.
Si corregga dunque quel passo della mia Storia vi s’inseriscano le parole di V. P. reverendissima da me or riportate , e poi si aggiunga:
e perciò il pontefice che avea una copiosissima
biblioteca, ne trasse, oltre le Opere di S. Dionigi , un Antifonale e una Responsale, tre libri
di Geometria, di Ortografia e di Gramatica,
e mi altra Gramatica di Aristotele, e inviolli
a Pipino, scrivendogli che gli mandava tutto
quello che avea potuto raccogliere.
Assai più grave è l’errore in cui sono poco
appresso caduto, e che V. P. reverendissima
corregge in questa nota medesima. Il pontefice
Agatone, ho io affermato, scrivendo nell’anno 680 ngf impera dori greci in occasione del
I [p. 933modifica]c)33
sesto generai concilio, dice che manda ad esso
i suoi legati uomini di probità e di zelo, e che
alla mediocrità della loro scienza supplivano
col conservare intatta e pura la tradizion de’
maggiori. Ma come mai ho io potuto scriver
tal cosa, se anzi il pontefice riconosce ne’ suoi
legati, come mi fa osserv are V. P. reverendissima, una abbondante scienza: την περισσευουσην
ἐις; αὐτους; ἔιδησιν abundantem in eis scientiam?
Io ho voluto esaminare qual origine potesse
aver avuta il mio errore; e ho presa perciò tra
le mani la Collezione de’ Concilii; e ho di fatti
conosciuto in qual modo io mi sia ingannato.
Nel testo greco si legge così: oùx evacev r.apjt&rioui rrej ite avrei»; nepi?rtuovir,; zidr^Etù;. Delle
quali parole V. P. reverendissima, per amore di
brevità, ha ommesse le prime. Io che non son
greco di nascita} e che nel greco non son dottissimo, ho creduto che οὐκ significasse non, e
che perciò quelle parole si dovesser così tradurre: non pro confidentia eorum superabundantis scientiae, e dovessero intendersi in questo senso, che il papa non si confidava già nella
loro scienza, come se essa fosse soprabbondante
e vastissima, ma nella sincerità della loro Fede
e nel loro zelo nel custodire le antiche tradizioni; e tutto il contesto parevami che richiedesse una tale spiegazione: perciocchè il papa
soggiugne: Nam apud homines, qui sunt in medio gentium, et ex labore corporis cum magna
dubitatione victum quærunt, quomodo plene
inveniri poterit scientia Scripturarum? Ove io
credeva che scientia Scripturarum volesse dire [p. 934modifica]9^4
scienza della sacra Scrittura. Ma V. P reverendissima, che nell1 erudizion greca mi può essere
maestra, avrà forse scoperto che οὐκ non è particola negativa, come noi ignoranti crediamo ,
ma affermativa; e che scientia Scripturarum non
vuol già dire, ciò ch’io avea immaginato, la
scienza delle sacre Scritture, ma che significa,
com’ella dice, la teologia congiunta colf eloquenza. Come poteva io mai da me stesso arrivare a spiegazioni cotanto sublimi? E come
poteva io mai immaginarmi che ad intendere
il vero senso di un testo, convenisse ommetterne le prime parole?
Due noterelle aggiunte da V. P. reverendissima alla pag. 169 e 174 ov’io accenno i pontefici che nel x secolo coi lor costumi mostraronsi indegni di quella sede che occupavano y
11011 fanno che citare il Cardinal Baronio; e
come questi narra più a lungo ciò ch’io non
ho che brevemente accennato, così io debbo
renderle grazie che colla testimonianza di sì illustre scrittore abbia voluto confermare il mio
detto.
V. P. Reverendissima mossa dall’ardente suo
zelo per la Chiesa romana, di cui ha sempre date
sì chiare pruove, si sente penetrar da giusto
dolore ogni qual volta si fa menzione dell1 ignoranza che anche in Roma trovavasi nel x secolo. E perchè io tanto meno zelante di V. P. reverendissima nell’accennare le invettive di un
concilio di Rheims contro una tale ignoranza,
ho detto che sembra ch’esse fossero suggerite
dall’astio contro la Chiesa romana, quel sembra [p. 935modifica]1)35
le par troppo modesto, e vuol che si dica che
scorgesi manifestamente. E ognuno ben vede di
qual importanza sia un tal cambiamento.
Rimangono due altre note da osservarsi in
questo terzo tomo a pag. e 233. Nella prima
avendo io detto che Ottone III fece innalzare
Gerberto alla sede arcivescovil! di Ravenna,
V. P. reverendissima mi corregge amorevolmente, e mi avverte che il pontefice Gregorio V
fu quegli che innalzò Gerberto, dopo che questi si pentì de’ suoi trascorsi, all’arcivescovato
di Ravenna. Io la prego a render compite le
sue beneficenze in mio favore, e a spiegarmi
se il dire che Ottone fece innalzare Gerberto
a quell’arcivescovado sia contrario al dire che
Gregorio ve lo innalzò. E così pure la prego
a indicarmi per qual ragione abbia ella nella
seguente nota avvertito che il Cardinal Bennone
era scismatico, e che fu calunniosa l’accusa della
magia da lui apposta a Silvestro II. A me pareva di aver detto lo stesso. Ma V. P. reverendissima ha occhi troppo più penetranti de’ miei
per iscorger l’errore ove io non giungo a ravvisarlo *, e mi lusingo perciò che vorrà compiacersi di farmi conoscere la gravità del mio fallo,
acciocchè io possa piangerlo e detestarlo sinceramente.
Passiamo al tomo quarto, sul cui principio
V. P. reverendissima si degna di ammaestrarmi
nelle leggi della buona critica. Io ho riferito
(pag. 7) l’elogio che di Federigo II fa l’abate
Denina, perchè a me era sembrato ch’ei ne
avesse in breve adombrati i pregi insieme e i
difetti. Ella perciò mi ricorda che voglionsi [p. 936modifica]f)3fj
all abate Denina preferire i contemporanei che
ne formarono un carattere affatto diverso. Il
canone di critica non può esser più giusto. Io ne
profitterò dunque, e in un’altra edizione della
mia Storia io trarrò il carattere di Federigo da
ciò che ne hanno scritto i suoi contemporanei
Pier delle Vigne e Niccolò di Jamsilla. Ma non
parmi che sian questi gli autori de’ quali ella
vuol che mi giovi, ed è verisimile ch’Ella gli
rigetti come troppo parziali, benchè contemporanei di Federigo. Veggo di fatto che V. P. re_
verendissima mi suggerisce di ricavare il carattere di Federigo da uno scrittore imparziale,
cioè da una lettera di Gregorio IX scritta al
medesimo imperadore, e pubblicata dal Lami.
Ho ubbidito a’ suoi comandi, e I lio letta; ma
le confesso che, oltre qualche dubbio che mi
è nato sulla legittimità di quel documento , io
non vi ho trovata cosa che si opponga a ciò
che ne ha detto l’abate Denina, e ai pregi ch’egli ha in lui ravvisati, che sono la politica, il
valor militare, l’attività, l’accortezza, la severità negli ordini della giustizia. Ma forse mi
sarà sfuggito qualche passo di quella lettera, in
cui il pontefice gli avrà provato ch’ei non era
nè politico, nè valoroso, nè attivo, nè severo
negli ordini della giustizia.
Il zelo di V. P. reverendissima non si contiene solo nella difesa de’ dommi della cattolica religione, ma si stende ancora, come da
lei richiede l’eminente carica a cui è sollevata , a mantenere intatti i diritti del temporal
principato. Quindi avendo io detto a pag. i i
che gli Estensi signoreggiavano in Ferrara, ella [p. 937modifica]<J3 7
avverte eli essi la tenevano in feudo dalla sani a
Sede. E poco appresso, ove io accenno a
pag. 13 che i romani pontefici aveano il loro
proprio Stato per le donazioni de’ Cesari, ella ci
dà l’importante notizia che il cardinal Orsi ha
spiegato quali parti dello Stato pontificio avessero i papi per le donazione de’ principi, e quali
no. Così pure al tomo quinto, pag. 3, ripete
nuovamente la dipendenza degli Estensi da’" papi
riguardo a Ferrara, e accenna che da essi pure
aveano ricevuto il loro dominio i Polentani,
gli Ordelaffi, i Malatesti, co’ quali però io non
arrivo ad intendere come V. P. reverendissima
congiunga i Correggeschi, de’ quali io non avea
finor saputo che fosser vassalli della Sede apostolica. E tanto si compiace ella nel ricordare
che gli Estensi avean Ferrara dal papa, che ne
fa di nuovo menzione nello stesso tomo quinto
a pag. 8. Nè ciò ancora le basta: al tomo setlimo, parie prima, pag. 7 accenna i giusti motivi eh ebbero Giulio II, Leon X e Clemente \ Il
di esser poco favorevoli ad Alfonso I duca di
Ferrara, e cita il Rinaldi, forse con:e scrittore
contemporaneo ed imparziale, all1 anno i5io, c
finalmente a pag. 8 prende a giustificare Clemente VIII che privò il duca Cesare del ducato di Ferrara; e a provare quanto fosse in
ciò ragionevole e giusto, ne porta le più convincenti pruove che portar si potessero, cioè
le Bolle dello stesso Clemente, le quali non può
negarsi che sieno contemporanee. Se il mio antecessor Muratori invece di avere a suo avversario monsig. Fontanini avesse avuta la P. V. reverendissima, ella certo con quelle Bolle alla [p. 938modifica]f)3S
inailo l’avrebbe presto ridotto al silenzio. Per_
ciò in una nuova edizione della mia Storia (.se
pure l’avarizia dello stampatore mi permetterà
di aggiugnervi le eruditissime sue annotazioni)
a quest’ultima , ove ella accenna le Bolle di
Clemente VIII, io, acciocchè il trionfo sia più
solenne collo scoprire la debolezza degli argomenti contrarii, aggiugnerò un’altra citazione
cioè: V. anche Muratori Antichità Estensi ]
par. 11, c. 14. Ma torniamo al tomo quarto, da
cui ci siamo per poco allontanati.
Parlando di Pier delle Vigne a pag. 20, ho
riferito un passo dello storico Rolandino che il
dice uomo fornito di molta letteratura sacra e
profana. Benchè questi sia uno storico contemporaneo, V. P. reverendissima non ne vuol questa volta ammettere la testimonianza; e ben
con ragione, perchè ella, con un apparato maraviglioso di teologica erudizione, mostra che
Pier delle Vigne sapeva poco di teologia, avendo
egli avuto ardire di sostenere che non doveasi
far conto alcuno di una ingiusta scomunica. E
come è possibile che sia uomo fornito di sacra letteratura chi sostiene sì mostruosa opinione? Io sono così persuaso delle ragioni di
V. P. reverendissima, che al primo corriere
che parta per l’altro mondo voglio consegnare
una lettera pel buon Rolandino, avvertendolo
a cancellare dalla sua Storia quel passo che
V. P. reverendissima ha riprovato, e a non credere che Pier delle Vigne fosse uomo versato
nella sacra letteratura.
Ma io che voglio indurre altri a correggere le
opere loro, debbo prima pensare a corregger [p. 939modifica]le mie. Fra le cose che ci mostran la barbarie de’ bassi secoli, io ho accennato a pag. 38
l’uso allor frequente in Italia d’imporre per gastigo la cessazione de’ pubblici studi, e di sottoporre le scuole, non altrimente che se fossero
cose sacre, all’ecclesiastico interdetto. In ciò
io ho mancato, come V. P. reverendissima mi
fa conoscere, per ignoranza di storia e per ignoranza di diritto canonico. Di storia, perchè il
silenzio alle università fu imposto per le ree
dottrine che sostenevano: di diritto canonico,
perchè anche a un corpo non sacro si può
stendere l’interdetto. Io dunque in un’altra edizione correggerò questo passo, e recherò i fatti
medesimi a mostrare il buon gusto che allor
regnava; dirò che le università costrette a tacere, erano infette di ereticali dottrine (ma
converrà ch’ella si compiaccia di somministrarmene le pruove che a me non è stato possibile il rinvenirle), e dirò che quando si fulmina
l’interdetto sopra una città, anche le scuole si
debbono chiudere, e che sono in ciò d accordo , come ella mi insegna, tutti i teologi e i
canonisti anche di questo secolo, che si spaccia per illuminato.
Quel giusto sdegno che ha animato poc’anzi
V. P. reverendissima contro Federigo II, la accende poco appresso contro l’illegittimo di lui
figlio Manfredi; e perchè io a pag. 60 ho scritto
ch’egli ebbe sempre contraria la corte di Roma,
ella fa osservare che non X ebbe contraria in
quel che conveniva, e con ciò distrugge del
tutto ciò ch’io ho affermato, e previene le ree
conseguenze che dal mio detto si potrebbon
dedurre. [p. 940modifica]9Ì°
Le ultime due note di questo tomo, a py^ 224
e 227, son dirette a giustificar la memoria di
f Giovanni da Vicenza da me imprudentemente accusato di essersi lasciato sedut i e alquanto dall’ambizione nel cercare o nell’accettare la carica di podestà in Verona , e vuole
che in questo luogo non si creda agli storici
contemporanei, ma a’ Brevi dei romani pon_
telici, che lo suppongono esente da ogni macchia. E io ben mi lusingo che niuno sarà più
in avvenire che in faccia a tali testimonianze
ardisca di dubitare dell’umiltà e dell’innocenza
di f Giovanni.
Non son molte le note che V. P. reverendissima si è degnata di aggiugnere al tomo
quinto della mia Storia 5 ma esse sono sì importanti (se traggasene quella a pag. 15, ove parlando io del funesto scisma d’Occidente, ella
rimanda i miei lettori a S. Antonino e al Rinaldi), che meritano che io, per attestarle la
sincera mia riconoscenza , sopra esse trattengami alquanto.
Parlando di Cecco d’Ascoli a pag. 180, ho
detto che la vera ragione della infelice morte
di esso furon gli errori ch’egli nella sua Opera
astrologica avea insegnati,benchè probabilmente
l’invidia di Dino del Garbo vi avesse non picciola parte; e poco appresso ho aggiunto che
l’invidia ebbe non picciola parte nella condanna
di quell’infelice astrologo, e ch’egli non sarebbe
sì miseramente perito, se non avesse avuti potenti nemici che congiurarono a’ suoi danni. A
questi miei detti, io non veggo, esclama il zelo
di V. P. reverendissima, per qual motivo ii [p. 941modifica].. , , 94;
abbia ad attribuire all astio e all invidia ciò
che può ragionevolmente essere riputato effetto di
zelo; e poscia: non so, come senza far ingiuria a’ giudici ecclesiastici si possa pretendere
eh eglino condannando Cecco si sieno lasciati
trasportare piuttosto dall’impegno de’ di lui
nemici, che dall’amore del giusto e del vero.
E ripete quindi ciò che degli errori di Cecco
ho detto io pure. Io debbo qui confessare la
mia irriflessione. Se io avessi avuto presente
alP animo il sincero e costante impegno di V. P.
reverendissima nella difesa della cattolica religione , se mi fossi ricordato quanto retti sieno
sempre stati i suoi giudizii, quanto uniforme e
non mai variata dalle circostanze de’ tempi la
sua dottrina , quanto scevro ed esente da ogni
privata ed umana passione il suo cuore, quanto
per ogni parte irriprensibile la sua condotta,
ne avrei tratto per conseguenza che, quale
ella è, tali pur fossero a’ tempi di Cecco i
giudici della Fede. Ma io non vi ho posta mente,
e ho buonamente creduto che gf inquisitori potessero essi ancora , essendo pur uomini come
gli altri, lasciarsi ingannare da ben ordite calunnie. Ciò che in questo mio errore mi è di
qualche conforto, si è che ho in esso compagno un papa, e, ciò che è piò, un papa domenicano , e un papa sollevato agli onori de’
beati. I Padovani e i Vicentini, dice il ch. signor abate Marini in un’opera che porta in
fronte l’approvazione del P. maestro ilei sacro
Pa lazzo, ricorsero a Benedetto XI dolendosi
della facilità di dannar come eretiche persone
che non lo erano se non nella malignità degli [p. 942modifica]9i2
accusatori. Per la qual cosa scrisse il ponf,
fece agli 11 di marzo del i3o4, agl inquisitori
di que popoli che annullassero alcuni processi
iniqui, punissero la menzogna, et officium sic
exercere studeant, ut ad Nos de talibua d imoi ulterius non ascendat (Degli Archiatri pontif. t. 1, p. 30 , ec.).
Piena d’erudizione è un’altra nota a pag.
412 ov’Ella osserva primieramente che il cantico
del B.Jacopone da Todi, che incomincia Piange
la Chiesa, non pare che sia stato composto
contro il pontefice Bonifacio VIII, perchè nol
nomina; della quale osservazione molto le saranno tenuti i lettori della mia Storia; e poi
si fa seriamente a mostrare la falsità di un
racconto eh1 io non avea accennato che come
una semplice popolar tradizione. Io potrei proporle qualche dubbio su ciò, e pregarla a vedere gli antichi scrittori citati dal Muratori, che
. affermano che Bonifacio morì in carcere, ossia
chiuso come prigione nelle sue camere. Ma poichè io non ho fatto su tal circostanza alcun
fondamento, non voglio con inutile discussione
toglierle parte del tempo ch’Ella a comun vantaggio impiega tanto lodevolmente.
Io sono stato finora sì docile alle correzioni
e agli avvisi di V. P. reverendissima, che mi
lusingo di avere colla mia sommisione intenerito il pietoso suo cuore. Ma verso la fine di
questo tomo io mi veggo due volte toccato
in un punto , per cui le confesso che sono un
po’ facile a risentirmi. Il Petrarca è il mio eroe,
e direi quasi, se non temessi che V. P. reverendissima ne inorridisse, il mio idolo} come [p. 943modifica]ella avrà ben conosciuto leggendo ciò ch’io
ne ho scritto. Io veggo eli’ ella ne sente diversamente , e non me ne maraviglio, perchè
il carattere di V. P. reverendissima è troppo
diverso da quel del! Petrarca. Prestando fede
allo stesso Petrarca (Senil. l. 1, ep. 3), io ho
scritto a pag. 465 che Innocenzo VI si era lasciato persuadere che essendo egli poeta, dovess’essere sospetto di magia, e che perciò
su’ principii del suo pontificato mostrossi poco
a lui favorevole. Ella, che delle cose del secolo xiv ci può istruire meglio assai del Petrarca,
ci assicura che Innocenzo VI non era poi uomo
sì rozzo a confondere la poesia colla magia; e
ne porta una convincentissima pruova, cioè
ch’egli era stato professor di leggi in Tolosa,
e che avea sostenute altre onorevoli cariche.
Anzi penetrando nella mente di quel pontefice , ella ci addita due forti motivi pe’ quali
Innocenzo non amava ne’ primi anni il Petrarca.
E il primo si è il sonetto da lui fatto in lode
di Cecco d’Ascoli, mentovato poc’anzi. Ma sa
ella V. P. reverendissima che Innocenzo VI,
francese di nascita, giureconsulto di professione,
avesse mai letto quel sonetto? Sa ella che cosa
dicesse in esso il Petrarca? Esso non è stampato , e non ne è noto che il primo verso ,
cioè: Tu se’ il grande A scolari, clic, il mondo
allumi, parole che potevansi intendere della
dottrina di Cecco, prescindendo dagli errori in
cui era caduto. Certo non è possibile che il
Petrarca volesse con esso lodare 1’astrologia giudiciaria, di cui egli fu il più dichiarato
Tirajjosciii, Voi. XV. 26 [p. 944modifica]944
nimico (i). Come dunque può ella affermare che
per quel sonetto Innocenzo VI non credesse
degno della sua protezione il Petra, ca? Più
forte è T altro motivo , cioè la scostiti nate zza
in cui il Petrarca era vissuto. Ma di grazia Padre reverendissimo, un po’ di pietà per l’infelice Petrarca. Un uomo che amò certo con assai
caldo e non lodevole amor la sua Laura, ma con
cui non si sa che s’innoltrasse mai ad azione
che ad onest1 noni non convenga; un uomo
che cadde qualche volta con altre donne in
gravi trascorsi, ma che non mai ingolfossi nel
vizio, e pianse subito i suoi errori, e ne fece
a se stesso un continuo amaro rimprovero, e
usò d’ogni mezzo per emendarsi, merita egli
di esser tacciato di scostumatezza? Aggiunga
che Clemente VI, antecessor d’Innocenzo, avea
favorito molto il Petrarca. Dunque o Clemente VI
fu degno di biasimo (e guai a me se Tavessi
ulTermato) colf onorarlo della sua protezione,
o non ebbe bastevol motivo Innocenzo VI per
privarnelo nei primi anni del suo pontificato.
E quali son poi le pruove che V. P. reverendissima arreca della scostumatezza del Petrarca? La lettera da lui scritta al Boccaccio
da me poco appresso riferita, in cui egli ricorda con sentimenti di pietà e di compunzione sinceramente cristiana i trascorsi suoi giovanili. E dovea ella dunque volgere a disonor
del Petrarca ciò che ne forma l’elogio? L’abate di Sade, soggiugue ella, proccura di pro(i) Vegga si intorno a ciò il toin. 5, pag. 313 della
presente edizione. [p. 945modifica]945
vare il contrario; ma come contro la confession del Petrarca può egli riuscirne? Non è
però da maravigliarsene. Egli pare che abbia
composte le sue Memorie per iscreditare i buoni, e per iscusare gli erranti ej malviventi. L’abate de Sade proccura di provare il contrario?
Ma chi ha pubblicata prima di ogni altro la
lettera del Petrarca da V. P. reverendissima
accennata? Chi ha scoperto che il Petrarca,
oltre una figlia , ebbe un figlio, amendue illegittimi? Non debbonsi forse all1 abate di Sade
queste notizie? Chi legge la mia Storia, può
di leggieri osservare che io non sono adoratore
di quello scrittor francese. Ma per quanto io
abbia lette e rilette le sue Memorie sul Petrarca , e per quanto le abbia, si può dire, analizzate , io non vi ho mai trovata cosa che
provi in quell’autore il reo disegno di screditare i buoni e di scusare i malviventi, ch’ella
gli attribuisce.
Più leggiadro è ciò che segue, ov1 ella per
farci conoscere il carattere del Petrarca, ci rimette al Fleury (Hist eccl. l. 97, n. 33, 3 \);
il die ella pure ripete nell’ultima nota aggiunta
a questo tomo a pag. 525, ove ne riporta queste
parole: Dopo di ciò si può egli allegare il Petrarca come autor serio, e dire che le sue
lettere sono piene di gravità e di zelo e di dottrina? Questo nuovo canone di critica, con cui
V. P. reverendissima ci comanda che il carattere del Petrarca si prenda dalla Storia ecclesiastica del Fleury (dopo avere asserito altrove
che il carattere degli uomini si dee prendere
dagli autori contemporanei), sarà in avvenire [p. 946modifica]946
aggiunto a’ nuovi trattati dell’arte critica che
si andran pubblicando. Ma finchè essi non sono
stampati, mi permetta ch’io mi attenga a’ canoni antichi, c eli1 io tragga il carattere di
quel grand’uomo dalle opere di lui stesso.
Esaminiamo nondimeno di grazia qual sia il
carattere che del Petrarca ci ha fatto il Fleury
per cui egli lo reputa autore da non aversi in
conto alcuno -, e veggiamo quanto autorevole
storico in questa parte egli sia. Comincia dal
dire che il Petrarca abbracciò lo stato chericale , e che ciò non ostante nell’età sua giovanile ei visse nella dissolutezza, e di ciò si
è già detto poc’anzi. Siegue a dire il grande
storico da V. P. reverendissima citato per modello di critica, che Benedetto XII volle persuadere al Petrarca di sposar Laura , promettendogli di accordargli dispensa per ritenere
i suoi beneficii j ma che il Petrarca risposegli
che se la prendeva per moglie, ciò eli1 ei pensava ancora di dirne, non sarebbe più stato
a proposito; e che Laura allora maritossi ad
un altro. E V. P. reverendissima, che ci vuol
far credere di aver lette con attenzione le Memorie dell1 abate di Sade, può seriamente rimetterci al Fleury in ciò che appartiene al Petrarca? Non ha Ella dunque veduto provarsi dal
detto abate di Sade con autentici e incontrastabili documenti, che Laura era maritata con
Ugo di Sade fin dal 1325, cioè due anni prima
che il Petrarca la vedesse, e che morì, vivente
ancora il marito, nel 1348? Ed ella vuole che
crediamo al Fleury, che si è trangugiato buonamente un sì solenne farfallone? [p. 947modifica]947
Ma altra accusa più grave ha il.Fleury apposta al Petrarca, e da essa ne ha tratto per
conseguenza ciò che V. P. reverendissima ne
ha riferito. Mais ce qui montre le plus son peu
de sens, et la légèreté de ses pensées (povero
Petrarca dopo quasi quattro secoli dichiarato
un imbecille dal Fleury, e poi da V. P. reverendissima che c’invita a credergli!) c’est qu’il
se declara hautement pur Nicolas Laurent,
cet extravagant, ec. Ecco il gran delitto del
Petrarca , ed eccolo scoperto uomo senza senno , e che non merita fede. Egli credette che
il celebre Cola di Rienzo fosse veramente destinato a ricondurre Roma e l’Italia all’antica grandezza, e lo esortò a compier l’impresa
felicemente da lui cominciata. Ciò è verissimo.
Ma in primo luogo, qual maraviglia che il Petrarca standosi in Avignone, e sorpreso dalle
grandi cose che si narravano di Cola da Rienzo
fatte in Roma, credesse egli pure ciò che allora credettero quasi tutti? Non si videro forse
ambasciate a quel fanatico impostore spedite
da molti principi? E finalmente non si ravvide
egli presto il Petrarca del suo errore, nol confessò egli stesso sinceramente? Di grazia, P. reverendissimo , non citi più il Fleury, ove trattasi del Petrarca , e si assicuri che, trattone il
Fleury e V. P. reverendissima , tutti gli uomini
di buon senso continueranno a dire che le Lettere del Petrarca son piene di gravità e di zelo
e di dottrina; eli’ egli è stato uno de’ più grand’uomini del suo secolo, uno de’ più rari genii
che abbia avuti l’Italia; e che se i giovanili
trascorsi non debbono impedire che alcuni papi
/ [p. 948modifica]non si annoverino tra’ più saggi successori di
S. Pietro che abbia avuti la Chiesa, non debbon parimente impedire che il Petrarca il
quale sì sinceramente li pianse, non debba esser r oggetto dell’ammirazione degli uomini
dotti e degli uomini onesti. Io pregola ancora
a fidarsi nel giudicar del Petrarca più ad un
pontefice di lui contemporaneo, cioè a Gregorio XI, che all’abate Fleury. Si compiaccia di
grazia di leggere il Breve che ne ha di’ fresco
pubblicato con licenza del P. maestro del S. Palazzo il sig. abate Marini (Degli Archiatri pontif.
t.’a j p. 21) , scritto poco dopo la morte dello
stesso Petrarca al Cardinal Guglielmo Novelletti
legato in Italia. In esso ei lo nomina tam praeclarum moralis scientiae lumen; e gli comanda
che tutte raccolga le opere da lui scritte , tra
le quali nomina espressamente le Lettere, e gliele
mandi in Avignone. Io spero che V. P. reverendissima posta in mezzo tra un papa e 1’abate Fleury, e interrogata di chi voglia seguire
il giudizio, volgerà tosto le spalle al secondo ,
e si farà seguace del primo.
Mi perdoni di grazia V. P. reverendissima,
se il mio trasporto pel Petrarca mi ha fatto
deviare alquanto dal buon sentiero, e dimenticare per poco la mia docilità e la mia sommissione ai caritatevoli suoi avvertimenti. Ritorno
all’usato mio stile, e con un vivo desiderio di
giovarmi de’ lumi della sua vasta ed inesausta
dottrina , passo all’esame delle annotazioni
eli’ ella ha avuta la degnazione di aggiugnere
al tomo sesto della mia Storia; e mi spiace
il vedere che poche esse siano, c clic scarso [p. 949modifica].;. 949
frutto perciò sia io per raccoglierne; Perciocchè una sola ne ha ella posta alla prima, e
due alla seconda parte di questo tomo.
M’insegna dunque V. P. reverendissima a
pag. 4 della parte prima del tomo sesto, ciò
ch’io non sapeva, cioè che il concilio di Basilea, dopo il trasporto fattone a Ferrara e poi
a Firenze, non fu un vero concilio. E eli io
noi sapessi, e che avessi perciò bisogno di esserne da V. P. reverendissima amorevolmente
istruito, raccogliesi ad evidenza dal modo con
cui io ragiono di quel concilio, singolarmente
ove annovero Felice V tra gli antipapi, e ove
dico che lo scisma non cessò interamente finchè visse Eugenio IV: parole che mostrano
chiaramente ch’io riconosco per vero papa Felice V e il concilio di Basilea dopo la traslazione non come scismatico, ma come vero e
canonico.
Una lunga nota ha aggiunta V. P. reverendissima alla pag. 349 della parte seconda, ove
io parlo di Lorenzo Valla, e si compiace di
stendere con eloquente amplificazione ciò ch’io
avea con troppa brevità accennato, che degli
stessi pontefici ei parla con poco rispetto. Qual
onore è il mio avere a parafraste V. P. reverendissima! Di ciò però non si appaga il suo
zelo. Io ho affermato che il Valla fu tratto in
giudizio innanzi all’Inquisizione, perchè avea negato che ciascheduno Apostolo avesse separatamente composto il suo articolo del Simbolo. Le
sembra che sia questo un deridere quei santissimi giudici; e dice che.non perciò solo fu egli
accusato, ma anche perchè avea affermato clic
% [p. 950modifica]95°
gli Apostoli non abbiano alla posterità tramandata. per tradizione quella formola della nostra
(credenza. Io le rendo grazie di questa notizia.
Ma perchè ella sa bene elio siatn 3 in un secolo
malizioso, in cui di ogni cosa si pretende arditamente la pruova, la prego in grazia a indicarmi, onde abbia ella saputo che per ciò
fosse il Valla accusato, acciocchè io possa con
coraggio difendere la correzione che farò della
mia Storia. Nella sua apologia, dirà forse alcuno, il Valla afferma che la proposizione per cui
fu accusato, fu questa: Symbolum non factum
esse ab Apostolis per particulas. Aggiugne il
Valla ch’ei chiese al predicatore F. Antonio da
Bitonto, con quale autorità affermasse il contrario j e io il chieggo di nuovo, ei dice, e a lui
e a tutti: nec modo id, quod in quaestione proposui, verum etiam, quis omnino tradat ab Apostolis Symbolum conditum. Nel che è evidente,
continuerà a dire qualche importuno critico,
che questa seconda interrogazione, indegna certamente d’uom cristiano, si fa or solamente
nella sua Apologia del Valla, dopo che il processo era già ultimato e conchiuso, e che perciò per essa ei non fu processato. Di fatto siegue
il Valla dicendo che taluno aveagli obbiettata
l’autorità di Graziano, che cita S. Isidoro; e
risponde: Quaero te: ait ne, per particulas conditum? Minime. Jam liberatus sum. Dunque,
conchiuderà costui, il Valla fu accusato all Inquisizione solo perchè avea negato che ciascheduno Apostolo avesse steso il suo articolo,
e l’altra proposizione non fu da lui avanzata
che dopo il processo. Io le confesso che a chi [p. 951modifica]f>5i
mi faccia una tale obbiezione, i miei scarsi lumi
non mi somministrano una giusta risposta. E
prego perciò V. P. reverendissima, che tanto
è verso di me pietosa e cortese, a volermi in*
dicare come possa io confondere chiunque osi
di contraddire.
Di tali obbiezioni io non temo riguardo alla
seconda ed ultima nota che vedesi alla pag. 431
di questo tomo medesimo. Non piace a V. P. reverendissima, ch’io parlando del P. Savonarola
(e spero ch’ella avrà gradita la moderazione
con cui ne ho ragionato) , e rammentando la
pruova del fuoco, che pel fanatismo a favore
e contro di lui eccitato fu più volte, ma sempre inutilmente, proposta, l’abbia appellata antica e. barbara superstizione; e mi ricorda parecchi fatti ne’ quali cotali pruove furono con
celesti prodigii approvate. Io dunque in una nuova
edizione della mia Storia , a quelle parole da
me incautamente usate, sostituirò queste nllre:
V antica c lodevole costumanza della pruova del
fuoco. E chi sarà che ardisca di riprovarle?
Il tomo settimo della mia Storia, come abbraccia un più ampio campo, qual fu per l’italiana letteratura il secolo xvi, così più frequente
occasione somministra a V. P. reverendissima
a far pompa della sua vastissima erudizione. E
la prima nota a pag. 3 è diretta a giustificare
Giulio II, di cui temerariamente io ho detto che
diede a vedere un animo più guerriero che non
si potesse aspettare dal Vicario di Cristo. A questa mia empia proposizione ella ingegnosamente
oppone l’autorità del Ciaconio, che loda Giulio II appunto perchè pontefice bellicoso. Ed [p. 952modifica]952
ecco così invincibilmente confutato il mio detto. E non men convincente è l’apologia ch’ella
fa dello stesso pontefice, ove avendo io scritto
che pare ch’egli non si curasse di mantener la
promessa data di radunare un concilio generale, reca un lungo passo di Giulio II, in,cui
a sua discolpa afferma fra le altre cose, che
non gliel’avea permesso la necessità in cui si
era trovato di ricuperare le terre della Chiesa.
Ed ecco qui pure il pontefice pienamente assoluto dall ’ingiusta taccia da me, o piuttosto
da’ cardinali raccolti in Pisa, appostagli di
aver colle guerre turbata la tranquillità della
Chiesa e di tutta l’Italia.
Di somigliante robustezza sono tutte le altre
note da V. P. reverendissima a questo tomo
aggiunte a difender la memoria de’ romani pontefici, che le sembra da me oltraggiata. Della
rara magnificenza di Leon X nel fomentare gli
studi parevami d’aver detto non poco, singolarmente col produrre un bel passo di Raffaello
Brandolini, in cui ne fa un magnifico elogio,
e dice fra le altre cose, che chiamava alla sua
corte anche i più dotti teologi, i più profondi
filofosi, i giureconsulti, ec. Ma ho poscia aggiunto che il vedere il pontefice dilettarsi tanto
di poesie e di commedie non troppo oneste,
avvilì non poco la gravità pontificia, e risvegliò ancora sospetti a lui poco onorevoli 5 e
che inoltre la preferenza da lui data agli ameni
studi sopra le gravi scienze, fece che queste
non fosser molto curate. Perciò ella prende
a pag. 19 a difendere la rara illibatezza e la
pietà di Leon X, lodata anche da Erasmo, c [p. 953modifica]953
imitata, com’io mi lusingo, anche da V. P. reverendissima; e osserva (ciò ch’io non aveva
osservato) che anche i teologi furon da lui favoriti; e pruova in tal modo esser falsissimo
che gli ameni studi a lui piacessero più che i
sacri.
Più a lungo si stende 1’amorevole • zelo di
V. P. reverendissima nel difendere Adriano VI,
perchè più gravi sono le accuse che io gli ho
apposte. Ho osato di affermare a pag. 20 che
il pontificato di Adriano VI fu come una passeggiera ma folta nube che oscurò l amena letteratura, e a pag. 198 ho detto eli1 ei rimirava
come gentilesche profanità tutti i libri non sacri, a pag. 274 che rimirava come idolatri gl’imitatori di Cicerone. Io non posso non ammirare
l’eroica mansuetudine di V. P. reverendissima
nel sofferire cotali bestemmie, e nel correggermi
con paterna piacevolezza. Mi ricorda dunque
dapprima, che è vero ch’ei non amava i poeti,
perchè molti si abusavano del loro estro (e io
m’immagino che non avrà pure amati i teologi,
perchè molti facevano reo uso del loro sapere);
ma ch’ei favoriva i dotti (i quali forse non ne
abusavano mai), e che cercò segretarii i quali
elegantemente scrivessero. Io aggiugnerò questa
nuova notizia in una nuova edizione della mia
Storia; e ne recherò in pruova, che lasciò partire il Sadoleto e il Bembo, i quali aveano sì
mal servito Leon X in quell’impiego, e che a
parer di Adriano dovean essere tali che non
sapessero scrivere con eleganza, e che in lor
vece trascelse Teodorico Ezio e Paolo Cistirelli, i quali furono i soli segretarii nominati c [p. 954modifica]954.
scelti (la Adriano, e della eleganza dei quali
nello sci iv ere non ci lascia dubitar punto il
giudizio di quel pontefice e di V. p. reverendissima.
Quindi a pag. 198, per dimostrare in modo
che non ammetta risposta che Adriano VI teneva presso di sè uomini versatissimi anche
nella letteratura non sacra, osserva che uno
di essi fu il vescovo di Chieti, che fu poi Puo.
lo IV, il quale sarà stato, io m’immagino, o
poeta, o oratore, o matematico. Finalmente a
pag. 2741 per provare non esser vero che
Adriano per poco non rimirasse come idolatri
gli imitatori di Cicerone, osserva che nè Girolamo Negri, nè il Sadoleto nol dicono, con
che è dimostrata la falsità della mia asserzione *, e seguendo a parlare del Sadoleto, riflette
ch’egli non ritirossi già da Roma perchè fosse
mal soddisfatto del pontificato di Adriano, ma
perchè gli correva l obbligo di assistere personalmente alla sua chiesa di Carpentras) obbligo , sperava io-, eli’ ella dovesse aggiugnere
per render compita la pruova , il quale non gli
correva sotto il pontificato di Leon X , di Clemente VII, duranti i quali stette molto in Roma,
ma solo sotto quel di Adriano.
Ad Adriano VI succedette Clemente VII, e
io mi lusingava che ciò che ne ho detto, avesse
avuta la sorte di non dispiacere a V. P. reverendissima, perciocchè non ho veduta alcuna
annotazione a pag. 22, ove io ho accennate le.
guerre, nelle quali egli lasci ossi avvolgere, e
che furon poscia cagione dell orribil sacco di
Roma. Ma convien dire che sia qui accaduto [p. 955modifica]95
ciò che V. P. reverendissima in una nota a
pag. 519 modestamente confessa che avviene
talvolta, cioè che per inavvertenza o per negligenza de’ Revisori si stampano libri in Roma
che non dovrebbon vedere la pubblica luce,
e che perciò quelle parole siano sfuggite al severo suo sguardo. Di fatto a pag. 198 ov’io
ripeto che Clemente VII, avviluppatosi nelle
guerre dei principi, espose Roma all’orribile
sacco, ec., ella, che in quel giorno in cui lesse
queste parole, dovea esser compresa da più
diligente zelo, si compiace di darmi una graziosa mentita, dicendo che non fu Clemente,
ma l’astio del calvinista Borbone, ch’espose
Roma al sacco. Nel che, oltre il convincermi
di grave errore, ella, benchè senza darsene
vanto, ci dà prima di ogni altro una notizia
sfuggita finora a quanti sono stati scrittori di
teologia e di storia, cioè che fin dal 1527, quando
Calvino non contava che diciotto anni di età,
e cinque anni prima ch’ei si scoprisse eretico,
vi erano già Calvinisti, e che tale era il Borbone. Così gli uomini grandi, quasi senza volerlo ,4illuminano gl1 ignoranti, e segnano le loro
vie di sempre nuovi raggi di luce.
A difesa dello stesso pontefice è diretta la
nota a pag. 275. Ivi ho scritto che non era
eguale alla stima la deferenza del papa a’ consigli del Sadoleto, il qual veggendolo esporsi a
manifesta rovina, si sforzava di tenerlo lontano
dall’imminente pericolo , finchè veggendo che il
pontefice erasi ormai tanto inno l/rato, che più
non v era luogo a consiglio, chiesto ed ottenuto
il congedo, venti giorni prima del sacco di [p. 956modifica]s56
Roma. j> art issane, e fica ritorno alla sua chiesa. V. P. reverendissima mi avverte qui che
non fu questa la ragione della partenza del Sadoleto , ma il patto da lui stabilito col papa
di servirlo sol per tre anni, e poi di tornare
alla sua chiesa; e mi comanda di veder su ciò
la Vita del Sadoleto scritta dal J‘ iordibcllo. Nello
scriver la mia Storia io avea prevenuto il sUo
comando, e leggendo quella Vita, parevami di
avervi trovato appunto ciò eh* io ho scritto, Io
credeva che il Fiordibello ove dice che il papa
cum salutaribus Sadoleti consiliis sæpe usurus
esse videretur, flectebatur postea aliorum (fuori ir ndam , qui longc plurimi ini npiul rum poterant, oratione, volesse dire che uguale alla stima
non era la deferenza del papa ai consigli del
Sadoleto, e eh1 egli seguiva più facilmente gli
altrui consigli; e che ove dice del Sadoleto:
Qui quidem cum rem in eum locum adductam
intelligeret, ut nihil bene monendo et suadendo
proficere amplius posset, statuit, quando Reipublicæ prodesse jam nihil posset, suæ saltem Ecclesiæ prospicere atque consulere, volesse dire che veggendo che il pontefice erasi
ormai tanto inoltrato, che più non v’era luogo
a consiglio, chiese il congedo, e tornò alla sua
chiesa. Perdoni di grazia V. P. reverendissima,
se io son poco felice nell’intendere il latino,
e continui ad istruirmi anche in ciò col consueto suo zelo, e mi mostri che non è quello
che io ho creduto, il senso delle parole del
Fiordibello.
Convien dire che V. P. reverendissima sia
stata soddisfatta del modo con cui ho parlalo [p. 957modifica]!)57
di Paolo UI, poiché una sola breve annotazione
veggo aggiunta a pag. , ove io ragionandone, dico ch’ei fu calunniato come seguace delf astrologia giudiciaria, e a questa occasione
dico che non sarebbe a stupire che in quel
tempo fossero alcuni anche tra’ dotti che credesser le stelle presaghe dell’avvenire: che riputavansi dotti, nota gravemente V. P. reverendissima, ma in realtà non lo erano, come
con evidenti ragioni dimostrar si potrebbe, Ri*
flessione giustissima e necessarissima , e senza
la quale tutti avrebbon creduto che io ancora
fossi fautore dell1 astrologia giudiciaria. Quanto
debbo io essere riconoscente alla paterna premura eli1 ella ha pel mio buon nome!
Ma ella non è ugualmente contenta di ciò
ch’io ho scritto di Giulio III e di Paolo IV. E
quanto al primo, ella a pag. 32 mi rimette al
continuatore del Fleury, perchè io vi osservi
le lodi eli’ ei dà a quel pontefice. Ma mi permetta V. P. reverendissima eh1 io le proponga
un dubbio. Se uno il qual facesse una nuova
edizione di quella Continuazione, al luogo ove
si parla di Giulio III, ponesse una nota in cui
rimettesse il lettore a ciò che io dico di quel
pontefice, che direbbe ella di una tal nota?
Io non credo, a dir vero, di peccar di superbia , ponendomi al confronto del continuator
del Fleury, e credendo che possa rimanere incerto se egli, o io abbiamo esaminate meglio
le cose. Aspetterò da V. P. reverendissima la
risposta a questo mio dubbio , che stendesi ancora a ciò che appartiene a Paolo IV, giacchè
per esso ancora mi rimette ella a ciò che ne [p. 958modifica]958
ita scritto il medesimo continuatore, e vi aggiugne anche il P. Carrara Teatino, che recentemente ne ha scritta la Vita. I pregi di questo pontefice sono da V. P. reverendissima
ricordati anche a pag. 14 E io mi lusingo di
non averli dissimulati: e solo ne ho ripreso la
troppo sospettosa severità, per cui si videro
chiusi in Castel S. Angelo, per mal fondate accuse contro la Fede, il Morone e il Foscarari;
e ho aggiunto che sotto il pontificato di esso,
si vide riaccesa la guerra tra la S. Sede e la
corona di Spagna. E io prego perciò V. P. reverendissima a indicarmi le ragioni che provin
giusta la carcerazione di que’ due sì dotti e sì
virtuosi prelati, e provin falsa la guerra che
la imprudente condotta de’ nipoti di Paolo trasse
sopra lo Stato pontificio.
Un altro dubbio io debbo proporre a V. P.
reverendissima riguardo alla nota eli1 ella ha
posta a pag. 115, ov’io parlo delle scuole de’
Gesuiti, e degli elogi che di esse si fecero da
molti uomini illustri del secolo xvi, e del favore
con cui furono allora da molti principi onorate. Per quel che riguarda a questa Compagnia , dice ella, noi ci rimettiamo intieramente
al Breve del Pontefice Clemente XIV de’ 21
luglio del 1773, che incomincia: Dominus et Redemptor noster, etc. La mia docilità a’ suggerimenti di V. P. reverendissima mi ha fatto ricorrer subito a questo Breve, sperando di
trovarvi qualche cosa che giovar potesse a comprovare o a confutare ciò ch’io ho detto. Ma
qual è stata la mia sorpresa, quando delle scuole
de’ Gesuiti del secolo xvi, delle quali sole io [p. 959modifica]ragiono, appena vi ho trovato un cenno? Io
temo ch’ella abbia preso, come anche a’ più
grand’uomini accade talvolta, un picciolo equivoco , e che invece del Breve di Clemente XIV,
eh1 io venero e rispetto, ma che non ha alcuna relazione con questo passo della mia Storia , ella dovesse indicare qualche Bolla di Paolo III, o di Giulio III, o di Paolo IV, o de’
due Pii IV e V, o de’ due Gregorii XIII e XIV
(per non uscire dal secolo xvi di cui si tratta), che potrebbono con più ragione citarsi,
ove ragionasi delle scuole allora aperte da’ Gesuiti. Io la prego, per quell’interesse ch’ella si
compiace di aver per me e per la mia Storia,
a leggere quelle Bolle, le quali essendo Bolle
di romani pontefici, otterranno da V. P. reverendissima quel rispetto medesimo almeno che
ella ha pel Breve di Clemente XIV, e a decidere poscia se sia ragionevole il sospettar che
io ho fatto di qualche equivoco in cui ella
sia inavvertitamente caduta.
Più cose abbraccia e comprende un’altra eruditissima nota posta alla pag. 253. Io avea affermato a pag. 244 che* quando sorse l’eresia
di Lutero, non era l’Italia troppo feconda di
tai telogi, quali a que’ tempi si convenivano;
e che l’erudizione sacra non che la profana,
la cognizion delle lingue, la critica erano escluse
dalla teologia. Questa mia erronea proposizione
si combatte qui dapprima da V. P. reverendissima; e per mostrarmi che i teologi di quel
tempo aveano comunemente il corredo di erudizione , ch’io ho osato di negar loro, mi
TlRABOSCHl, Voi. XV. 27 [p. 960modifica]<)6o
ricorda Sante Pagnini , Sante Marmocchini
Zenobio Acciaiuoli, Agostino Giustiniano, Pietro
Galatino e Agostino Steuco. Ma le occupazioni
di V. P. reverendissima le han fatto qui dimenticare le pruove necessarie a mostrare che questi fosser teologi, come a confutare la mia proposizione era richiesto, giacchè del molto loro
sapere nelle lingue orientali ho ragionato io pure; ma ch’essi si possano annoverar tra’ teologi, io 1’ ho finora ignorato, se traggasene il
Galatino, che scrisse contro gli Ebrei, e lo
Steuco, il quale è il solo de’ qui nominati che
impugnasse le recenti eresie, e che non fu il
migliore tra’ loro impugnatori. Io desidero dunque eli’ ella abhia più agio che non ha avuto
finora, per potermi convincere che erano in Italia al principio del xvi secolo molti teologi forniti di vasta e molteplice erudizione.
Non giova eli’ io mi trattenga a parlare di
ciò di’ ella riflette in questa nota medesima
intorno all’agostiniano Girolamo Negri, giacchè
in somma altro non fa che onorarmi col ripetere ciò eli’ io stesso ne ho detto. Più grato
io debbo esserle pel comando ch’Ella si compiace di farmi a questo luogo medesimo, ch’io
vegga ciò che del Cardinal Gaetano dicono Melchior Cano e i PP. Quetif ed Echard. Io avea
affermato che molte proposizioni da lui sostenute furono condennate dall’università di Parigi, e eli’ ei diede qualche occasione alle accuse sì per alcune sue nuove opinioni, sì perchè
ignorando la lingua ebraica, ed essendo perciò
costretto a valersi di altri, faceva loro tradurre [p. 961modifica]di parola in parola il lesto originale, c la ver
sione ne riusciva perciò intralciata ed oscuris
sima. Io non veggo che nè il Cano, nè i padri Quetif ed Echard provino il contrario. Anzi
non credo eli’ ella abbia provveduto all’onore
del Gaetano, rimandando i lettori a ciò che ne
dice il primo di questi scrittori, il quale ne’
passi da lei allegati non ne parla con molto
onore. Ecco ciò ch’ei ne dice nel libro secondo
cap. 11, che è forse anco il più moderato de’
passi in cui ne ragiona: Cajentanus vir c.um primis eruditus et pius sed qui in Libris Sacris
constituendis Erasmi novitates ingeniumque secutus, (dum alienis vestigiis voluit insistere, propriam gloriam maculavit.
Ma in niun luogo campeggia meglio il saper
teologico di V. P. reverendissima, che nelle
due annotazioni a pag. 278 e 280. Parlando de’
Comenti del Sadoleto sull’Epistola di S. Paolo
a’ Romani, io ho detto che quell’opera fu dapprima proibita, perchè parve ad alcuni che in
essa ei si accostasse a IT errore de* Scmipelagiani intorno alla grazia, e gli fu ancora imputato a fallo il distaccarsi in parte dalle opinioni di S. Agostino. Quella parola alcuni sta
male, secondo V. P. reverendissima, e deesi
dir molti; e credo certo ch’ella gli avrà computati sulle magistrali sue dita, per accettarne
il numero. Aggiugne ella con molto zelo, che
non sa per qual cagione non si avesse a imputare a fallo al Sadoleto il discostarsi dalla
dottrina di S. Agostino; la qual riflessione saprà bene V. P. reverendissima contro chi sia
diretta; perciocchè, quanto a me, io non ho [p. 962modifica]mai scritto che ciò non gli si dovesse imputare a fallo. Ben contro di me è diretto ciò
che segue, cioè ch’ella non vede come si possano da un Teologo annoverare tra le semplici
opinioni quelle sentenze che per tutissima et
inconcussa dogmata sono state riconosciute dalla
santa Sede. Perdono, pietà, Padre reverendissimo. Sono vent’anni dacchè io ho lasciata da
parte la teologia, e perciò merita qualche indulgenza un non teologo se ha chiamate opinioni le
sentenze di S. Agostino. Un’altra volta sarò più
cauto , e mi guarderò bene dal confondere le
opinioni colle sentenze ricevute dalla Chiesa
quai dommi, e lascerò poi a V. P. reverendissima il provare che tali fossero quelle nelle
quali il Sadoleto discostossi da S. Agostino.
L’altra nota è diretta a difendere il Badia
maestro del sacro Palazzo, da cui l’opera del
Sadoleto fu proibita. Ed era ben conveniente
che V. P. reverendissima lo difendesse, benchè
io non l’abbia in alcun modo nè con alcuna
parola accusato e ripreso. Solo io la prego a
indicarmi su qual fondamento ella abbia autorevolmente affermato: Non nego che sia poi
stata permessa La lettura del libro medesimo
(del Sadoleto). Ma non ammetto che sia stata
permessa senza le dovute correzioni e dichiarazioni. Io non vorrei sembrarle ardito di troppo.
Ma finchè V. P. reverendissima non mi pruova
il contrario, io son costretto ad ammettere ciò
ch’ella non ammette. Egli è bensì vero che al
Sadoleto fu imposto di fare una nuova edizione
dell’opera in cui alcuni passi ne fosser corretti.
Ma questa seconda edizione non si fece che [p. 963modifica]noi 153C>, c fin dall’anno precedente era stata
rivocata la proibizione dell’opera, come io ho
provato colla testimonianza del Negri famigliare
del Cardinal Contarmi. Di fatto non trovasi nel*
l’Indice de’ libri proibiti menzione alcuna di
quella edizione, che vi sarebbe rimasta inserita,
se la proibizione non fosse stata rivocata; ed è
perciò evidente che il Badia, forse meno zelante
di V. P. reverendissima, fu pago della promessa
fatta dal Sadoleto di correggere in una nuova
edizione que’ passi che potean sembrare o pericolosi o sospetti; e che in virtù di questa promessa, la proibizione del libro fu rivocata.
Per difendere Isidoro Clario dalla taccia di
plagiario da alcuni appostagli, perchè spesso
nel comentar la sacra Scrittura si vale delle
opinioni del protestante Munstero senza mai nominarlo, ho detto che forse ei così fece, perchè allora il citare un autor protestante sarebbe
stato imperdonabil delitto. Non piace questa
ragione a V. P. reverendissima , la quale ingegnosamente osserva che il Cano, l’Arias, il Pidio ed altri citarono i Protestanti impunemente. Io ho dunque errato, e converrà annoverare
il Clario tra’ plagiarii per decisione del V. P. reverendissima; se pur ella non vuol menargli
buona un’altra scusa , cioè che il Clario non
volle esporsi a vedere le sue opere imbrattate
dall’inchiostro di alcuni che per ordine, dicevano essi, di un rispettabile tribunale visitavano le biblioteche, ed ove ne’ libri trovavano
nominato qualche autor protestante, benchè
non fosse delitto il nominarlo, inesorabilmente
lo cancellavano; della quale carneficina veggonsi
spesso pur troppo compassionevoli documenti. [p. 964modifica]9^4
Le annotazioni di V. P. reverendissima sono
comunemente dirette a ridurmi sul buon sentiero, da cui spesso ella mi scorge infelicemente
traviare. Ma in una a pag. 315 ella mi onora
troppo più ch’io non avrei osato sperare. Io
avea accennate le eroiche virtù del Cardinal Beltannino. L’autore, dice ella, qui espone i privati suoi sentimenti intorno alla eroicità delle
virtù del V. Bellarmino. E chi sono io mai
che ardisca di esporre su un tale argomento i
privati miei sentimenti? No, Padre reverendissimo, non sono i miei, ma sono i sentimenti di
que’ quattordici cardinali con lui vissuti e da me
qui accennati, sono le deposizioni di tanti testimonii , sono gli atti per la causa introdotta
della sua Beatificazione; questi sono, e non il
privato mio sentimento, eli1 io ho citati per
pruova delle virtù del Bellarmino. E poichè ella
aggiugne che del rimanente si rimette a’ decreti di Urbano VIII, e a ciò che sarà circa
le virtù medesime dichiarato dalla sacra Congregazione de’ Riti e dalla santa Sede apostolica , mi compiaccio di farle sapere che due volte
già la Congregazione de’ Riti ha deciso in favore dell’eroicità delle virtù del Bellarmino; la
prima con pienezza di voti nel 1675; la seconda non con pienezza, ma con pluralità di
voti nel 1677, come potrà vedere nell’ultima relazione del Cardinal Cavalchini, benchè la santa
Sede per altre ragioni estrinseche non abbia
creduto opportuno il pronunciar sopra esse un
formale decreto.
V. P. reverendissima mi onora nuovamente
a pag. 378, ove colf autorità dei suo prediletto [p. 965modifica]continuator del FI eury conferma ciò ch’io avea
detto, che il maestro del sacro Palazzo, a’ tempi
di Leon X , non giudicò degno di condanna il
libro del Pomponazzi sull’immortalità dell’anima; e perchè forse ha creduto che non mi si
dovesse dar fede quando ho affermato che le
opere del Pomponazzi son piene di assurde ed
empie proposizioni, nggiugne ch’esse furono poi
proibite.
Le ultime tre di questo tomo, che è stato
con particolar bontà rimirato da V. P. reverendissima, appartengono a fr Paolo, e trovansi alle pag. 44° > 449? 4^°* Iy* i° parlo
del valore di quel celebre uomo negli studi filosofici; e perciò era ben giusto eli’ ella avvertisse i lettori, come fa in queste note, eli1 egli
era amico de’ Protestanti e favorevole alle loro
opinioni. Anzi mi fa maraviglia che ne’ primi
tomi della mia Storia, ov’io ho ragionato di
tanti autori idolatri, non abbia ella prevenuti
i lettori che coloro furon tutti imbevuti delle
gentilesche superstizioni. Nè solo ella avverte
chi legge, ma con paterna amorevolezza dolcemente mi sferza, perciocchè avendo io accennato il zelo del Sarpi, quale sia stato un
tale zelo, dice ella, si può agevolmente raccorre da ciò che scrive il Courrayer nella di
lui Vita. Io la prego nondimeno a riflettere
ch’io parlo del zelo del Sarpi nel servigio della
Repubblica: fu da essa impiegato, io dico, ne’
più difficili affari, e in premio della sua attività e del suo zelo distintamente onorato; e
la debolezza del mio intendimento non mi lascia arrivare ad intendere , come ci entri qui
la Vita che del Sarpi ha scritta il Courrnyer. [p. 966modifica]g66
Ed eccoci finalmente giunti al fine della parte
prima del tomo settimo, in cui tante cose ha
trovate il zelo di V. P. reverendissima, sulle
quali occuparsi. Passiamo alla parte seconda, che
più scarso numero ci somministra di erudite
annotazioni. Anzi due sole esse sono, perciocchè quella a pag. 162 non è che una semplice citazione che pruova solo la profonda sua
dottrina. Non così la lunga nota a pag. 164 e
segg., la quale ben merita tutta la riconoscenza
mia e de’ lettori della mia Storia.
Spiacque a molti, io ho detto parlando della
correzione del Corpo del Diritto canonico fatta
per ordine di Gregorio XIII, che i correttori
romani avesser cambiato talvolta o le intitolazioni , o le citazioni di Graziano, o ancora i
canoni sti’ ssi e i decreti da lui citati... più ancora spiacque che i correttori medesimi non
avessero avvertito che molte opere da Graziano
attribuite ad alcuni santi Padri erano ad essi
supposte; che essi avessero continuato a citare
le false Decretali raccolte, da Isidoro, senza
muovere dubbio alcuno sulla loro autenticità,
benchè alcuni avesser cominciato a dubitarne.
Questo passo ben meritava di essere da V. P. reverendissima severamente corretto. È falso che
i correttori abbiano citate molte opere supposte a’ santi Padri, e la prova del mio errore è
evidente; perciocché, dice ella, mollissimi passi
attribuiti da Graziano o da’ copisti a scrittori
che non se ne erano neppur sognati, sono stati
da’ correttori romani restituiti ai veri loro autori; e perciò non può esser vero che molte
altre opere supposte sieno state da essi citale. [p. 967modifica]Almeno io dovea dire ciò che V. P. reverendissima ha detto, che i correttori romani emendarono molti errori. È vero ch’io ho detto che
da essi non si perdonò a diligenza o a fatica
per eseguire la correzion loro ingiunta, e quindi
moltissimi furon gli errori da essi emendati, e
il Decreto per opera loro si ebbe infinitamente
migliore che non era in addietro. Ma ciò che
importa?-Io ho errato: e felice il mio errore,
che ha data occasione all’ingegnosa ed erudita
sua annotazione!
In essa prende ancora V. P. reverendissima
a difendere i correttori, perchè continuarono
a far uso delle false Decretali, e fa un grande
onore al saggio loro discernimento, dicendo,
eh1 essi credettero di aver de’ gravi motivi per
vieppiù confermarsi nell opinione che era allora
la più comune, cioè dell’autenticità di quelle
Decretali. La quale giustificazione ognun vede
che non ammette risposta, e che distrugge perciò ciò ch’io ho scritto, che spiacque a molti
il veder quelle Decretali citate dopo che si era
cominciato a dubitare della loro supposizione.
E per confermar sempre più che ciò non dovea spiacere, aggiugne un’eloquentissima enumerazione di molti altri uomini illustri che ammisero come genuine alcune opere che poi furon
riconosciute come supposte.
E perchè io annoverando gli uomini dotti
che da Pio IV, da S. Pio V e da Gregorio XIII
furono in quel lavoro impiegati, ho citato il
Boemero che gli annovera distintamente, V. P.
reverendissima osserva che costui si è lasciato
ingannare da un’impostura del troppo celebre
Tiràbosciii, Voi. XV. 27* [p. 968modifica]9G8
avvocato Macchiavelli, il quale ha finto un Breve
di Eugenio III in approvazione del Decreto di
Graziano. Ed ecco con ciò convinta la mia
imprudenza e la mal avveduta mia critica nel
copiare dal Boemero i nomi di que’ che composero la Congregazione alla correzione del Diritto canonico deputata, giacchè egli è manifesto che chi si è lasciato ingannare da un falso
documento del secolo xii , non può averci dato
un esatto catalogo de’ correttori del Decreto nel
secolo xvi.
L’altra nota è alla pag. 261, ove io ho affermato che Adriano VI diede un canonicato a
Paolo Giovio con patto che di lui parlasse onorevolmente nelle sue Storie. Osserva qui dapprima V. P. reverendissima che Adriano I I
non era capace di procacciarsi le umane lodi,
specialmente con tanto discapito della coscienza. Di fatto non sarebbe ella stata una vergognosissima simonia, se nell’atto di dargli il
canonicato, Adriano avesse detto sorridendo
al Giovio: ma di grazia, il mio M. Paolo, fatemi far buona figura nelle vostre Storie? Osserva innoltre che Benedetto Giovio, da cui raccontasi questo fatto, non nomina mai patto o
condizione. E a dir vero, le parole di Benedetto,
riportate anche da V. P. reverendissima, son
queste: Ei canonicatum... libentissime contulitj
ita tamen ut in ejus Historia honorificum
locum haberet. Or quelle parole ita tamen ut
posson mai significare patto o condizione?
Quindi fra le molte obbligazioni ch’io le professo, deesi annoverare ancor questa di avermi
fatto conoscere ch’io assai poco so di latino; [p. 969modifica]9g9
e che non debbo ardir di tradurre da quella
nella volgar nostra lingua, giacchè ita tamen
ut, ec.,non vuol già dire a patto però che, ec.,
ma significa qualche altra cosa che V. P. reverendissima ci dirà poi in altra opera che cosa
sia. Finalmente ella aggiugne, bisogna poi vedere da chi abbia avuto una tal notizia Benedetto. Non è verisimile di fatto che l’abbia avuta
dallo stesso Paolo suo fratello, ed è assai più
probabile che gli sia stala scrìtta dall1 Inghilterra, o forse ancor dall* America, e perciò un tal
racconto non merita fede alcuna.
Vegniamo alla parte III del tomo settimo,
che essendo tutta impiegata nel ragionare degli
studi dell1 amena letteratura, io mi lusingava che
appena potesse contener cosa che agli occhi di
un severo teologo sembrasse degna di correzione. Ma è troppo illuminato il zelo di V. P.
reverendissima per non trovare difetti, ove un
occhio men fino non sapprebbeli ravvisare.
Parlando a pag. 53 di Ersilia Cortese, tanto
favorita e onorata da Giulio III, ho riportato
il passo del Ruscelli, in cui oscuramente accenna le persecuzioni da essa sofferte dopo la
morte di quel pontefice, per le quali ella si
vide spogliata de’ suoi castelli e delle sue entrate; e ho detto che le espressioni del Ruscelli a me sembra che indichino certamente il
pontefice Paolo IV, i Caraffi di lui nipoti, che
tanto abusarono del lor potere, e i loro ministri: ma che intorno a ciò non mi è avvenuto
di ritrovare più distinte notizie. Qui V. P. reverendissima facendo, per dirlo alla francese, un [p. 970modifica]97°.
eruditissimo galimatias sulle notizie più distinte, men distinte e confuse, mi biasima, perchè
senza fondamento ho interpretate nel detto
modo le parole del Ruscelli, le quali a lei sembra che non indichino Paolo IV. Perchè non
ha V. P. reverendissima spinte più oltre le sue
ricerche, e non ci ha più chiaramente spiegato
il senso di quello scrittore? Io, i cui occhi son
tanto meno penetranti, ho creduto che non si
potessero rovinar castelli, nè togliere le entrate
nello Stato pontificio senza comando del papa;
e avendo osservato che il Ruscelli morì nel 1566,
appena cominciato il pontificato di S. Pio V,
che perciò le persecuzioni dell’Ersilia dopo la
morte di Giulio III debbono appartenere al
pontificato o di Paolo IV, o di Pio IV, e veggendo dal Ruscelli indicarsi la molta vecchiezza, persone che potevano in supremo grado, ec.,
ho creduto che s1 indicassero i tempi di Paolo IV. Se V. P. reverendissima, a spese di Pio IV,
vuol giustificar Paolo IV, ella ne saprà i motivi. Ma spero che converrà meco, che senza
abusare dell1 autorità di un pontefice, non potevasi maltrattare Ersilia nel modo dal Ruscelli
indicato.
Felici i papi, se avesser sempre difensori zelanti al pari di V. P. reverendissima! Quante
calunnie si vedrebbono dileguate e smentite l
Io ho riferito a pag. 101 ciò che dell’Ariosto
si narra; cioè che papa Giulio II sdegnato contro di esso, perchè difendeva la causa del duca
Alfonso I suo signore, lo volle far trarre in mare, come narra Virginio di lui figliuolo. Quanto è [p. 971modifica]971
robusta la difesa eli’ ella qui fa del pontefice! La
testimonianza di Virginio, dice ella (e lo stesso
dovrà dirsi delle testimonianze di più altri scrittori di que’ tempi, citati dal dottore Barotti
nella Vita dell’Ariosto), è fondata sulle ciarle,
che pur troppo da’ malevoli si andavano spargendo contro Giulio II. E non basta egli che
V. P. reverendissima lo affermi, perchè senza
più gliel crediamo?
Un1 altra nota piena di teologica erudizione
io trovo a pag. 155 , ove avendo io osservato
a qual impudenza fosse giunto il teatro italiano
al principio del secolo xvi, ella ci schiera innanzi un gran numero di papi e di concilii che
divietarono severamente cotali spettacoli, notizia nuova e interessante che in niun modo
doveasi da me ommettere.
Il zelo di V. P. reverendissima pel buon nome
de’ romani pontefici torna in campo a pag. 162,
ove riportando io un passo del Giovio, in cui
narra che Leon X si prendeva trastullo degli
uomini sciocchi e prosontuosi, ella gravemente
decide che il Giovio al suo solito esagera secondando la sua passione, ed eccedendo i limiti del vero e del giusto. Taluno pretenderebbe
per avventura che di questa taccia data al
Giovio ella avesse recato qualche autorevole
fondamento. Ma è ella forse tenuta a render
ragione del suo pensare?
L’ultima delle note a questo tomo aggiunte,
più ancor che le altre, richiede la mia riconoscenza, perciocchè avendo io biasimata a p. 419
la soverchia libertà con cui D. Callisto piacentino parlò in una sua predica di Leon X, ella [p. 972modifica]972
si compiace di far eco a’ miei detti, e di aggiugnere che la morte di quel pontefice fu pianta
dagli uomini più dotti e più pii di que’ tempi,
e specialmente da F. Sante Pagnino. *
Ed eccomi finalmente giunto al tomo VIII,
in cui la mia Storia si chiude. Io mi lusingava
che qui ancora dovesse il zelo di V: P. reverendissima avere ampio campo in cui esercitarsi. Ma io temo che a danno mio e de’ lettori
della mia Storia esso siasi illanguidito. Perciocchè, oltre la nota sul sistema copernicano già
da me indicata, un1 altra sola notarella vi ho
io trovata a pag. 4 »9- Ivi ho accennate le controversie che il P. Mazzarini ebbe con S. Carlo
in Milano, nate all’occasione di quelle che
questi avea allora in Milano co’ regii ministri
intorno all’immunità ecclesiastica; ho confessato che il P. Mazzarini fu degno di biasimo,
perchè mancò al rispetto al santo cardinale
dovuto, ma ho aggiunto che dopo un formale
processo ei fu dichiarato innocente riguardo a’
sospetti che intorno alla sua Fede si eran formati: e ho conchiuso che mi bastava l’aver
di ciò dato un cenno per non ritoccare questioni pericolose al pari che inutili, sulle quali,
più ancora che non conveniva, si è scritto alcuni anni addietro. Or ecco la bella nota che
V. P. reverendissima a questo passo ha aggiunta: Non veggo, come si abbiano a rappresentare come inutili quelle quistioni che da
gran luminari del Cristianesimo furono gloriosamente trattate, come da S. J tonasi o, da Osio
di Cordova, da S. Ilario, da S. Ambrogio, da
S. Gio. Grisostomo, e da vari altri che lungo [p. 973modifica]sarebbe il numerare. Ma di grazia, P. reverendissimo , che è mai ciò? S. Atanasio, Osio,
S. Ilario, S. Ambrogio, S. Gio. Grisostomo
hanno dunque trattato delle controversie che il
P. Mazzarini ebbe con S. Carlo? Certo son queste
le controversie di cui io ragiono, e ciò è evidente da tutto il contesto, in cui io non tratto
che dell’imprudenza di quel focoso predicatore , del processo fattogli per opera di S. Carlo,
della sua assoluzione, ec., e le controversie
sull’immunità ecclesiastica non son nominate
che di passaggio per l’occasion che diedero a
quelle tra ’l P. Mazzarini e S. Carlo; ed è ancor più evidente che le quistioni pericolose al
pari che inutili, delle quali io ragiono, son
quelle del mentovato processo, quando si rifletta ch’io aggiungo: sulle quali, più ancora
che non conveniva, si è scritto alcuni anni
addietro; espressione che sarebbe ridicola parlando delle quistioni sull’immunità ecclesiastica,
delle quali si è scritto non alcuni anni addietro, ma già da molti secoli, e si scrive tuttora, e si scriverà ancora probabilmente per lungo
tempo, ma che è ben adattata alle controversie
di S. Carlo col P. Mazzarini, sulle quali si aggirano molti libri stampati alcuni anni addietro , cioè le Lettere di S. Carlo stampate in Lugano, l’esame di dette lettere, e più altri libri
in quell’occasion pubblicati, e ne’ quali dell’immunità ecclesiastica si parla tanto quanto
dell’elettricità e del magnetismo.
Ma comunque sia evidente che in quest’ultima nota, come anche a’ più grand uomini
accade talvolta, V. P. reverendissima non ha [p. 974modifica]troppo felicemente rilevato il senso delle mie
parole, io non lascio perciò di protestarmi sommamente tenuto alla pietosa intenzione ch’ella
ha avuto di correggermi e d’illuminarmi. E io
la prego perciò, quando mai qualche altra mia
opera venisse a ristamparsi costì, a voler aggiugnere ad essa ancora le erudite sue annotazioni, ch’io le rinnoverò allora i miei più sinceri ringraziamenti, e avrò una nuova occasione
di attestarle quella viva riconoscenza e quel
riverente ossequio con cui mi protesto
Di V. P. Reverendissima
Modena, 18 agosto 1785.
Divotiss. obbligali ss. servidore
Girolamo Tiraboschi.
FINE [p. 975modifica]Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo VIII, parte 2, Classici italiani, 1824, XV.djvu/451