Sopra i presenti motti di guerra in Friuli
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Discorso di Euandrofilace
ACADEMICO
SOLITARIO
Sopra i presenti motti di Guerra nel Friuli.
Trà la Serenissima Republica di Venezia,
& gli Arciducali.
Discorso di Evandrofilace Academico solitario.
Par nondimeno, come che tutto ciò sia vero, che nei motti d’armi, che tra Prencipi si destano, sia come impossibile il tener ristretto l’humano intelletto si che ei non discorra, e si prenda licenza di osservare i loro progressi; quasi Cielo turbato, che minacci grandine, ò furia d’acqua, e di venti, onde gli huomini raccolti in se medesimi paurosi stanno attendendo, ove cader debba la rovina de tanta procella, et perciò con varij discorsi procurano di penetrare nella cagione di tante turbulenze, hora consolando se stessi nel divisar le cose a loro favore, attristandosi all’incontro quando anno temenza di futuro danno, quello fuggendo, et abborrendo à tutto loro potere. Quindi nascono i varij giudicij in prò, et incontro: quindi gli interessi risorgono, che abbagliano con le proprie passioni, et sovente ancora con malizia, gli intelletti humani, li quali scorti da cieca guida, et da giudicio infermo, non è meraviglia se di leggieri precipitano in errori gravissimi, et per il più inemendabili.
Per la qual cosa non deve parere strano, se nella mossa d’armi, che hà fatta la Serenissima Republica di Venezia nel contado di Gorizia uno de gli stati del Sig. Arciduca Ferdinando d’Austria, molti mal animati, e di poca fede siano sudditi, ò pure stranieri sospinti d’alcuni loro mal fondati divisi, ne dicono molto male, et par loro di conchiudere, che per occasione de gli Uscochi, come che abbiano dati molti danni alla Republica si offenda nondimeno contra il diritto gli stati di quella Altezza, stringendo, come hora si fà d’assedio Gradisca; et campeggiandosi con essercito per sorprendere tutti quei contorni.
Questi discorsi usciti dalla voce, ò dalla penna d’huomini sì particolari, che Prencipi certo non sono, perche i Principi non parlano, ne scrivono in cotal guisa, anno à me fatto rompere quel silenzio che mi havea proposto, conciosiache, si come quando i Principi parlano, i particolari devono tacere, et obedire, cosi quando i particolari parlano, et divolgano scritture, et libelli, stimo io necessario, che da particolari ancora si abbia da rispondere, specialmente in difesa della verità, et della giustizia, la qual cosa tanto più agevolmente mi deve essere concessa, quanto che la Serenissima Republica non ha tempo di badare à simili ciancie, ne deve, per suo decoro prender briga con huomini tali, non curando ella, come si dice, l’abbaiare de piccioi cani mi iscusi adunque, chiunque si sia, se in materia cosi grande io ho avuto ardire di porvi la mano, che anzi stimarei di far grave ingiuria alla mia fedeltà, che tanta debbo alla Serenissima Republica di cui son huomo ligio, et divotissimo soggetto, quando non impiegassi quel poco di talento datomi dal Sign. Dio, oltre le fatiche de miei studij, rispondendo, come particolare, à particolare, in difesa di così giusta, et pietosa causa, e crederei parimente di far torto à tanti valorosi soldati, che in campo à favore del mio Principe guerreggiano con le forze del corpo, se poiche lo stato mio mel vieta di poter ciò fare con la persona, non guerreggiasse almeno con quelle dell’intelletto. Ma perche coloro, che anno preso il gaggio per difesa de gli Uscocchi, huomini fierissimi, più che Barbari, et di crudeltà inaudita, et senza essempio, participaranno forsi anch’essi della loro ostinata natura, ne vorranno in niuna cosa discredere ai loro tenaci pensieri, anzi porransi alla contesa di quell’ancora, che ogni gentile intelletto, avvenga, che duro avversario mi fosse, mi sarebbe nondimeno cortese, ho proposto in questa mia difesa di caminare di passo in passo, cominciandomi da quelle premesse, che mi pareranno necessarie, riducendole à suoi principij, che è il vero modo di conoscere, et d’imparare, quelle addattando poi alla materia controversa per meglio accertar nel vero, e non dar adito se sia possibile a materia straniera, e fuori del caso. E perche dalle cagioni nascono gli effetti, e cosa troppo chiara, che nella presente contesa d’armi, la cagione de tutti i moti sono gli Uscocchi, per i danni, prede, ruine, incursioni fatte in Mare, et in terra nello stato della Sereniss. Rep. le quali sono tanto manifeste, che ne fa fede non solo l’occhio, ma il testimonio ancora di tutta Europa, onde non anno dibisogno di prova, perche ogni negativa, che si facesse sarebbe buggiarda. Et tra molti enormi essempi di barbara ferità, non addurrò altro, che quello del Giovanne Veniero di nobilissima, et Ill. Famiglia, il quale mentre se ne stava senza timore d’alcuno, soprasalto, fu da loro preso insieme con la Galera, di cui era governatore, et non satiandosi della sola morte di lui, che pur di tanto si contenta ogni cuore nemico, passò tanto oltre la loro immanità, che sventrato, et tagliato a pezzi, a guisa d’Antropofaghi nei loro sozzi conviti lo divorarono, et con barbarico fasto posero il teschio sopra le mense, et in quello affissero una candela ad’ardere, quasi che il vero valore consistesse in far operazioni da fiere, e non nella baldanza, et intrepidezza del cuore franco, et invitto, nemico ben della paura, ma dotato però da mente humana, et non bestiale. Mà delli fatti di questi huomini non si ha da durar fatica, ne per estendergli, che sarebbe cosa troppo lunga, e quasi una Iliade de mali, ne meno per farli vedere fa bisogno di più larga prova, poscia che non pur non si negano le operazioni loro malvagie, ma gloriandosi gli Uscocchi le confessano, e come dice il salmo di simiglianti generazion d'huomini, Lætantur cum malè fecerint, et exultant, in rebus pessimis. Del fatto adunque tanto basti, che altrove ancora me ne riserbo a dire. Abbiamo hora da vedere se esso è sofficiente, et giusta cagione de questi moti. Qui gli avversarij improntano, et costantissimamente negano, onde per reprimer l’orgoglio di quei tali, che vanno spargendo cotai voci, che scrittura ancora, che di ciò ne favelli non mi è pervenuta alle mani, dico, che trattandosi di Giustizia, quella non si può ben conoscere, se non dalle cagioni, che rendono l’atto giusto, et essendo questa mossa d’armi una operatione di Principe assoluto, come è la Rep. fa di mestiero, che andiamo indagando quali siano quelle operationi di Principe, che giuste devono appellarsi. Se riguardiamo alle leggi, che di ciò ne trattano, saranno oltra quelli (della religione, che devesi sempre) presumere, che li Principi l’abbiano in riverenza, le prime quelle, che si deducono dai fonti della natura, poi quelle, che i Principi fra se medesimi si anno prescritto, et quelle finalmente, che per patto, ò per convenzione, ò vogliamo dire capitulazione fra di loro si abbiano fermate. E quanto alle leggi, che chiamansi civili, ò communi poco si stimano se non in quanto servino per estensioni di ragione, ò di simile per interpretare le loro convenzioni, ò patti, perche Iustiniano, che compilò i Digesti non hebbe mira di decider le contese di Principi, ma di reggere i suoi popoli, et Provincie, et però disse egli, che non legavano se non quelli, che in orbe Romano vivebant. Vaneggia dunque per mio aviso, chiunque si sia, che voglia con altre regole, et con altri indirizzi maneggiare le materie de Principi, ne credo, che alcuno sia di cosi riotoso, e pertinace intelletto, che sia per negarmelo. Con queste adunque andiamo tentando il guado per ritrovare questo giusto, che noi cerchiamo, ma con pretesto però che non intendo di parlare, ne di patti, ne di capitulazioni del mio Principe, ne di suoi segreti, che io non gli sò, ne studio di saperli, percioche quando io ciò facessi, stimarei di partirmi dal debito della oedienza, che io gli sono tenuto, volendo egli, che si stieno nascosti; ma discorrerò di quelle cose, che sono patenti al senso universale, et palesi ad’ogni uno, et ne discorrerò con maniera da filosofo, et da legista insieme. Diciamo dunque, che l’operazioni del Principe overo anno relazione ai suoi populi, overo à Principe straniero, se con questo, overo sarà in tempo di pace, overo di guerra, se di pace, girerà ogni negozio circa il buon vicinare, che sia senza danno, ne onta d’alcuna delle parti, anzi con iscambieno li officij, et favori. Se sarà in tempo di guerra, bisognerà prima vedere quali siano quelle cagioni, che giustamente muover la possano. Hora comminciamo cosi. Il Principe come Principe è un nome, che non risguarda se stesso come un particolare, ma come governatore de popoli, consideratolo dunque con tal relazione à suoi vassali, dovendo il suo governo esser buono, tutti i suoi pensieri doveranno essere indiritti alla salvezza di quelli; et al loro giovamento, et che metta tutta la sua cura, et che impieghi tutto il suo valore in conservarli, et accrescerli et difenderli in guisa, che non sieno offesi, et oltraggiati, ma ciò non si può fare, se non introducendovi la quiete, et la tranquillità, rimovendo dal suo stato tutte quelle cose, che turbar la ponno. Ma tutto quello, che può turbar la quiete nasce, ò per cagione de’ moti interni dello stato, overo dai moti esterni, gli interni si cagionano, ò perchè ai sudditi mancano le cose necessarie, et le honorevoli, ò perche non possono godere, come conviensi le loro facoltà; ma questo ultimo difetto si emenda, co con con l’essercitar la giustizia, tenendo gli arditi, et sediziosi in officio co’l castigo, dando nel rimanente a d’ogniuno quanto gli si deve; ma se mancano le cose necessarie, et le honorevoli è impossibile, che lungamente duri cotal Principato, conciosiache non si trova maggior infelicità in un Principe quanto l’avere il suddito pauroso, percioche essendo necessario per conservazione de gli Stati, non solo aver li sudditi fedeli ma è di mestieri ancora, che si riponga da parte, oltra le cose necessarie, molti danari per i publici bisogni, il che non può farsi se il suddito è povero, onde ne nascono tumulti et turbulenze, et se pur ciò non avviene, che è quasi impossibile, rimane il Principe cosi debole per non aver forza, che è poco apprezzato et è esposto alle ingiurie de ogni Principe. Per riparare a questi mali è necessaria l’abbondanza, la quale non si può conseguire, se non ò dalla fertilità dello Stato proprio, overo dall’arte, et industrie, et particolarmente dalla mercanzia, che queste sono le madri, et le nutrici de’ popoli, et sono quelle, che fanno ricchi, agiati, et commodi i soggetti, e col mmezzo di queste mettonsi in avanzo molti thesori per le pubbliche occorenze.
Ma perche tutti gli Stati non godono della fecondità de’ terreni, à questi tali fà di bisogno doppiamente procacciarsi le ricchezze, et le commodità con le arti, et con la mercanzia, et quelli deve con ogni essatissimo pensiero mantenere, et accrescere, come quelle che sono l’anima, et essenza del Principato, et quando che violenza straniera, come nel caso nostro, contra gli Uscocchi vorrà impedirla, deve à quella opponer si con ogni sforzo per conservazione delle cose sue et per viversi in pace, che è il maggior bene, che l’huomo aver possa in terra, et godersi le sue fatiche. Fin quì dalle cose, che noi abbiamo discorso si deduce, che l’officio del buon Principe sia di conservar li suoi popoli, tenerli in quiete, che godano il suo, che siano ricchi et commodi, il che si fà con la giustizia, con l’arte, e con la mercanzia. Per tornar donque al tempo di guerra, riusciranno dalle cose dedotte vere tutte le seguenti proposizioni, che li moti d’arme, che fanno i Prencipi giusti saranno ò per necessità, ò per propria difesa, ò per conservazion dei loro Stati, ò per ributtar le ingiurie, ò per sollevazione de’ loro soggetti, ò finalmente per ripararsi da qualche danno imminente, che gli minacciasse grave rovina. Queste fermamente, overo altre di simil natura, credo che siano quelle cagioni, che debbano far mover le armi, et si è pienamente provato, che si deducono da i fonti della natura, et dalla ragion delle genti, dalle quali deriva ancora il Principato. Oltr’a cio, niuno potrà negare, che prevedendo alcuno il suo danno à quello non debba porger riparo con ogni poter suo; giuste dunque saranno quelle armi, che fu il nostro intento, che saranno promosse da alcuna delle ragioni di sopradette, et ingiuste all’incontro saranno quelle, che le si opponeranno, conciosiache il giusto tra due parti, che s’azzuffano, non può essere, che da un canto solo, et è di mestieri, che se una parte ha ragione, l’altra abbia torto. Hora che la Giustizia sia dal canto de’ Sig. Veneziani, è pur troppo manifesto, secondo essi la guerra, spinti da tutte le predette cagioni. E prima per necessità, perche non avendosi mai potuto trovar riparo che gli Uscocchi non usciscano à depredare nelli Stati della Republica necessario era con la forza ributtar tanta insolenza. Nam que verbis componi non possunt, disse Herodoto, armis decernuntur. Affermata ancora da Tullo Rè, come racconta Dionisio, nelle sue istorie. Quindi nasce la propria difesa, che è il secondo capo, verificasi la terza, che è per conservazione delli sudditi dalli Uscocchi danneggiati, e cosi la Quarta, per ributtar le ingiurie, la Quinta per sollevatione dei soggetti, essendo loro da questi barbari impedito il corso delle mercanzie, che per Mare, et per terra vengono, et si partono da Venezia, et offese medesimamente tutte quelle nazioni, che trafficano nello Stato della Serenissima Rep. Risulta ancora vero l’ultimo Capo da noi proposto, cioè di remediare ai danni, che è un impedir l’utile, che come disse Livio, utilis difensio, et ipsa iuita, tanto maggiormente quanto che il Turco si à protestato di venir con armata in questi Mari per ovviare à tante depredazioni, il che di quanto danno sarebbe, non è cosi ottuso intelletto, che non lo vegga, et quivi come l’istesso Livio, anzi l’istessa natura l’additta. Che expectare non debemus præsentem vim, si futuræ occurrimus tutius. E provasi ancora per ragion Civile, conciosia cosa che, se ben ogni uno in casa sua, et nel suo Stato può far quello, che più gli piace, perche unusquisque in re sua est moderator, et arbitrer. Nondimeno si si si si deve intendere, che vicini conditio peior non fiat. Come afferma Quinto Muzio nel Tit. de acqui. plu. nelle Pandette. A questo si aggiunge, che huomini dottissimi con gagliardi fondamenti hanno provato, che sia lecito ad un Prencipe porger aiuto ad’un altro Principe, benche ingiustamente si difenda dall’armi altrui, quando pensi che la sua condizione si muti, facendosi Patrone un’altro, hor quanto più si concederà la difesa in causa giusta, che come disse Dionisio nelle sue historie, ne nocere possit, ratio imperiorum est, et Ammiano nel 23. lex inquit una, et perpetua, salutem omni ratione defendere. Restami appresso di considerare un’altro capo non posto di sopra, ma concesso però da tutto il mondo, anzi da Dio pur commandato, cioè il conservare la propria reputazione, perche è una specie d’imperio l’essere stimato. E veramente la Repub. l’avvrebbe diminuita molto, quando non si avesse risentita di tanti affronti, et divenuta, come nel antico adagio, præda etiam Mysiorum, verificandosi il detto di Mimmo. Qui veterem patitur iniuriam, invitat novam. come ne abbia per sola benignità dissimulate molte. Tanto grande è il desiderio di lei di viver in pace. All’incontro gl’Uscocchi non hanno mai avuto cagione non che necessità di muover le loro armi, perchioche se si fossero ritenuti entro i loro territorij, et non infestar quelli della Rep. non avrebbono mai provato le armi, ne meno i debiti riscentimenti di lei. Da tutto ciò si raccoglie, che gli Uscocchi sono stati essi la cagione, onde giuste saranno l’armi promosse, et con ogni Giustizia sarà stato raunato l’esercito, et anco devesi sperare con l’aiuto del sig. Dio felicissimi successi, come quello, che essendo il fonte di ogni grazia sia per favorire ancora le giuste nostre pretensioni et difese.
Dicono prima, che per quello, che anno operato gli Uscocchi nel Golfo non hà ragione la Republica di vendicarlo, si perche l’offesa sarebbe di altre nazioni, à cui tocca il risentirsene, si perche il Mare è libero à tutti per ragione delle genti, e quantunque fosse danneggiato qualche suddito Veneto, ciò sarebbe stato à propria difesa, essendo stati assaliti, ò impediti di non poter usar il commercio de mercatura, che à tutti è lecito.
Secondo portano che la cagione de danni dati da gli Uscocchi è proceduta da’ governatori, et capi di guerra di Veneziani, specialmente pochi anni sono, percioche essendosi capitulato, che gli Uscocchi potessero navigare per certi luoghi di Dalmazia, fossero poi contra le forme de’ Capitoli, stati assaliti, et prese molte loro Barche, levando loro le Merci, che in esse avevano.
Terzo aggiungono, che se anno fatto danno a i sudditi Veneti, l’anno fatto in tempo, che prima erano stati offesi, et perciò era lecito loro il vendicarsi, con altre represaglie, come usanza è di quelli, che sono stati offesi ingiustamente.
Quarto oppongono, che non si doveva con essercito assalir gli Stati del Sereniss. Arciduca, come che si hà fatto, non essendo egli soprano Signor di Segna, et altri luoghi, residenza de gli Uscocchi, ma solo Governatore, aspettando l’alto dominio alla Maestà dell’Imperatore, come Re di Ungheria, di cui sono membri Segna, et què contorni.
Quinto dicono che pretendendo pur la Republica di essere offesa dall’Arciduca doveva prima intimarli la guerra secondo l’antico costume delle genti, et non improvisamente assalire i suoi Stati, come si è fatto.
Per risolver queste opposizioni, ò altre che s’introducessero, ci gioverà molto l’haver proceduto con quella maniera che abbiamo fatto di sopra nel fondar le ragioni della Republica dove di passo in passo s’anno con dimostrazioni, et non con sofismi dilucidate tutte le proposte in che non haveremmo più occasione di rittocare se non le conclusioni.
Al primo dunque dove gli Uscocchi affermano che quanto anno fatto in mare fu diffesa simplice per esser loro impedita la navigazione, et per consequenza, il comerzio, et il mercantare, essendo, che il Golfo è libero à tutti.
Credo che questo capriccio l’abbiano fondato sopra un certo discorso, che già pochi anni sono venne in luce, intitolato Mare liberum, fatto da persona per difesa della sua Patria, che pretende che ne da Porteghesi, ne da Gastigliani le possa essere impedita la Navigazione, per l’Oceano all’Indie. Et se quell’auttore ingenioso in vero, et di molta erudizione fosse stato dentro i termini delle sue pretensioni, et non avesse fuori dal caso suo parlato de’ Veneziani, et del loro Mare, poca ansa averebbe datta a gli aversarij, nel farli arditi di negar quello, che da tutti non interessati mi sarebbe concesso, cio è che il Golfo del Mar Adriatico sia di Ragione della Rep. Sarà dunque necessario, avanti che si proceda più oltre, che risolutamo gli argomenti di questo Auttore, quelli però che saranno al proposito della presente contesa, percioche non è mia intentione, di predigiucare ne alle ragioni di que’ popoli, se ne hanno da navigar all’Indie, ne meno di difender i Porteghesi, ò Castigliani, si come non intendo medesimamente discorrer, ne far più vive le ragioni dei Signori Veneziani, essendo pur troppo chiara la loro patronìa del Colfo, per verità d’Istorie, per assenso di tutte le genti, eccettuatone i nemici, per vittorie conseguite, per giurisdizione sempre usata, per protezione avuta, per difesa, contra cui l’ha infestato, overo pretesavi ragione in esso, et finalmente per li continuati essercitij di dominio, di possesso, di tenervi entro sempre armata, de imposte, de Datij, riscossi et questo già tanti centinaia d’anni, non mai interrotti, che il rivocar in dubio cotal Signoria sarebbe opera superflua et come si dice, aggiunger con le facelle lume al Sole. Intendo solo di risolver gli argomenti di quell’Auttore, che asserisce il Mare esser libero, che servirà parimente ad’altri, che leggendo quel discorso, et non mirando attentamente a i fondamenti, si persuadessero, che egli avesse detto gran cose, che pur sono apparenze, et artificij.
Porta, per restringer molte cose insieme, tre argomenti, due discorsivi, et l’altro appoggiato all’auttorità. Dice prima, che l’impedire la Navigazione sarebbe un impedir il commercio, et chi impedisce il commercio, impedisce la società humana, che è errore troppo grande, havendo voluto Dio, che l’huomo communichi con l’altro huomo, et per questo ha egli fatto molte Provincie abbondanti di alcune cose, et de altre manchevoli, accio che l’una potesse sovvenire a i bisogni dell’altra con quello, che le abbonda.
Il secondo argomento è tale. Quelle cose che sono state fatte in maniera dalla natura, che usandole uno, servono non di meno scambievolmente, et senza alcuna diminutione ad’altri ancora, queste per testimonio, come egli dice di Cicerone, sono a tutti communi, perche si possono usare senza danno alcuno. Tale dice egli, è il Mare, che non manca mai, ne diminuisce, et è infinito, adunque à tutti deve esser libero.
Il Terzo argomento è con l’auttorità di Giustiniano Giustiniano Imperatore nelle sue Instituttioni, et de’ Giurisconsulti antichi compilati nelle Pandette nel Tit. de rerum divis. Che dicono il Mare esser libero de Iure gentium, et in bonis nullius, adunque dice questo auttore che non può essere possesso, ne manco per certe sue deduzioni prescritto et per consequenza non può essere nel dominio altrui. Queste sono tutte quelle ragioni, che da quella Scrittura possono esser addotte contra la Repub. perche l’altre tutte anno la mira di fondar le pretensioni di quella nazione, ò di indebellire quelle de’ Portughesi, et di Castigliani.
A me pare, se io non mi inganno, che questi argomenti non concludano l’intento de gli oppositori, ò non offendono le ragioni della Rep. oltra che noi non siamo nel caso, che porta quello auttore, ma in un totalmente diverso.
Il primo non conclude, perche non si intende levar il Commercio. E quantunque ad alcuni Popoli fosse levata la navigazione all’Indie, non per questo cessarebbe il commercio, ne sarebbe impedita la società humana, non avendo alcun obligo di aver commercio e in tutti, ma con cui più gli agrada. Il mezo termine adunque non fa conchiudere quello, che vorrebbe l’auttore. Ma dechiaramola meglio. Saranno alcune nazioni, che per grazia d’essempio, non vorranno, diremo cosi, la prattica, ne di Fiamenghi, ne d’Inglesi, per questo, dirassi che siano disociabili, communicando non solo fra se stessi, in copia di millioni d’huomini, ma con molte altre nazioni vicine, e lontane, non già? ma mi dirà alcuno, tu offendi me, perche tu non mi dai la prattica, et impedisci il beneficio, che io ti voglio far, et parimente lievi à me quello che io pretendo con il mio commercio di ricever da te. Questa instanza non è di alcun valore, anzi col mezo termine del beneficio, sopra il quale si fonda, rimane pienamente risolta, conciosiache per non partirsi dalla division fatta, ò mi vuoi far beneficio, ò lo vuoi ricevere da me con questo tuo commercio. Se mi vuoi far beneficio, io ti dico, che non ho ne ò bisogno, et ti ringrazio della tua buona volontà, se lo vuoi ricevere da me, ti dico che non mi torna conto, che porti l'utile fuori del mio paese, volendo che rimanga appresso i miei, et sarà finita la contesa. E se pure rimanesse fisso in opinione, gli direi. Overo tu porti danari per investirli nel mio Stato, ò porti merci per venderle, ò cambiarle con altre: La prima mi dà danno, perche non voglio, che uscisca robba, accioche i miei ne abbiano in maggior abbondanza, che è meglio haver le cose, che il danaro, poiche il danaro fu trovato per le cose. L'a medesima risposta serve alla permuta delle robbe, et ancora al venderle.
E se di questa risoluzione non si contentasse, allegherei quello, che la isperienza ci insegna, non voglio tue merci, accioche i miei popoli si essercitino à fabricarne ancor essi, come fai tu, et abbiamo occasione di commercio più stretto l'uno con l'altro, et participino per tal cagione gli utili, et i commodi insieme, come fanno molte altre Città, et provincie, che prohibiscono alcune merci, acciò che i popoli si facciano più industrij et più diligenti. E se pur tu hai tanta voglia della mia società, viene ad habitare nel mio paese, che d'alcuno non ti sarà vietato, et all'hora riceverai i medesimi beneficij, ma se ciò ricuse, non la mia società, ò dissocietà haverai da allegare, ma il solo desiderio del tuo utile, che ti spinge à venire nel mio paese. Non si conchiude dunque l'intento dell'auttore, che il mare debba esser libero per tal cagione i mezi termini sono atti à far cotale conclusione.
Il Secondo argomento di quell'auttore non è di alcun peso, si perche non conchiude, come perche egli scambia i termini. Dice, che la navigazione non nuoce ad alcuno, et io ho provato, che nuoce molto. E quanto a quel suo detto, di non diminuire, et di non consummarsi il mare, il medesimo si potrebbe dire delle strade publiche, le quali non si impediscono ad alcuno, ne si consummano per caminarvi sopra, e pur si vede, che si vietano, quando cosi hà parso à quelli, che governano per i suoi riguardi, et suoi sospetti. Scambia poi termini, perche argomenta dal simplice navigare, et conchiude col mercantare. Il navigare à niuno si vieta, potendosi ogni uno andarsi spazando pel Mare a sua voglia, et ritornarsene à casa sua, ma il punto stà, che non si naviga à fin solo di navigare, ma per andar in porta d'altri, et ivi mercantare, però. Ex diversis non infertur.
Il soggiunger, che non e giusto, che si impedisca l'entrar nei Porti, è fallaccia troppo grande, concinsia cosa che se ben è vero, che l'huomo battuto dalla furia, et dalla tempesta del Mare per fuggir la morte può far forza contra coloro, che gli vietassero il Porto, poiche ciascuno contra il morire s'aita, non và però la consequenza, adunque per mercantare posso entrare in Porto, anco per forza, che cio si denegha per le ragioni da noi di sopra addotte, et comprobate. E si come è vero per fuggere il naufragio, cosi è falso nel rimanente. Ne rileva punto l'opinione del Vittoria portata dal detto auttore, che vuole, che gli Spagnuoli pottessero combattere cogli Indi, vietando loro i porti. Perche l'intese, come l'intendo io, ò se pur egli hebbe diversa opinione sia detto con pace di cosi grande huomo, che onoro le sue ceneri, non fu buona, come dalli sopradetti nostri discorsi si può conoscere. E sarebbe miglior ragione il dire, che li Spagnuoli potevano sforzare gl'Indiani a lasciar ivi predicare la nostra fede ma non già sforzarli à riceverla, che ciò non admettono i Theologhi, che in vero non si può, non solo per quello, che scrisse Lattanzio, che sola conscientia. Non dominatur. Ma perchè è dono di Dio, e senza lui, ne con forza, ne con dottrina può introdurvisi. Ma perchè questo non è nostro proposito, bastando à me di aver risolto gli argomenti del Vittoria, ripiglio il terzo argomento dell'auttorità di Giustiniano, et de gli antichi Giurisconsulti. Questi dicono, che il Mare è publico. De iure gentium, et in nullius Bonis, adunque non si può possedere, ne prescrivere, nascendo la prescrittione secondo i Legisti dal lungo possesso. Io non credo, che questo autore ne altri, che anno vaghezza di tenere questa opinione abbiano bene speculato, ne voluto intendere questa materia, ne quelle decisioni imperiali, et che sia ciò vero, mettiamolo alle essame, et vederemo se riuscirà ò buon argomento, ò sofisma. Consideriamo prima quel Ius gentium, che è primevo, ò secondario, come tengono tutti gli interpreti, et alcuni affermano, che l'uno, et l'altro sia immutabile, il che non è vero, ma il primevo solamente, come si può provare. Hor col Ius gentium, che il mare sia libero, et in nullius bonis vedendosi con gli effetti il contrario? io non trovo ragione, che mi persuada. Se stanno sul detto della scrittura. Dominami ni piscibus maris, et c. non fa al loro proposito, perche dice il medesimo della terra, che pur si possiede. Che vi sia altra decisione divina, io non l'ho letta, se con auttorità, di che poi parleremo, questa non lega gli humani intelletti, perche se essi furono huomini, al presente ve ne sono ancora, et discorsovi, et di ottimo ingegno. Se intendono de Iure gentium, secundario, cioè, Quod omnes homines utuntur, meno, che meno, perche in vigor de questo, bona vacua fiunt occupantium, et bello acquiruntur. Il dir dunque che non può possedersi è falso, ma qual maggior possesso può mai desiderarsi, quanto che il metter imposte, riscuoter gabelle, far prohibizioni già tanti, et tanti anni. Vero è, che in altra maniera si possiede la terra, et in altra in Mare, ma però l’uno, et l’altro si possiede. La terra si possiede da’ particolari col cavarne i frutti. Li Principi lo possedono con la giurisdizione co’l commandare, con riscuotter gabelle, et Datij. Il Mare dai particolari si possiede col far Sale, col pescare, col navigare. Dal Principe si possiede il Mare col mettervi entro Armate e, vietare, che altri non vengano ostilmente, ne con Imperio, essercitamdo la sua giurisdizione civile, et criminale, cavandone di più Datij, Portorij, et passaggi, cosi sempre si hà fatto, et sarassi per l'avvenire ancora se le leggi Civili chiamano publico il Mare, che altro vogliono dire, se non che sia da qualche Principe, overo università possesso? Ma che risponderemo alle auttorità de cosi grande Imperatore, et huomini cosi rinomati come Vulpiano, Papiniano, Paulo et altri? che si sieno ingannati, non certo? Ora che diremo? che essi hanno parlato secondo la soggetta materia, che avevano per le mani, cioè della divisione delle cose, et del Dominio de sudditi, che In orbe Romano, vivebant, che di altri populi non intesero mai.
Havendo adunque detto, che altri beni sono de particolari, altri publichi, cioè di questa, ò di quell'altra Città, altri dedicati a Dio, che Amplius in humanos usus reverti non possunt altri dissero In bonis nullius, come il Mare, vollero decidere che i Mari non fossero di quelle particolar provincie solamente, ove bagnano i lidi di quelle, ma di quell’altre ancora fra terra, che erano soggette all’Imperio, si che sottratolo a’ particolari Regni, lo concesse a tutti, vietando in questa maniera, che alcune Provincie sole lo pretendessero, ne alcuno potesse dire In bonis meis ma in bonis, nullius. Et se avesse inteso altramente, se avrebbe contradetto, chiamando il Mare, hora publicum, hora commune. Oltra di ciò come potrebbe aver giurisdizione in Mare, che pur la conciede l’auttore del Mare liberum, et parimente la protezione di esso, che pur è parola, che denota possesso, se fosse in bonis nullius? Che queste sarebbono contrarietà troppo manifeste, il che non è da dire d’huomini cosi avveduti, et cosi prudenti? Mare, per dirla più chiara, è come l’intese Giustiniano è a guisa di quelli beni, che si danno a godere alle Città, che il Principe si ritiene tutto il Dominio, così in Mare tutti vi navigano, et non è In bonis alicuius, ma nullius, cioè non è di chi naviga, ma del Principe solo.
E ben l’auttore di quel discorso conobbe tutto ciò, che noi habbiamo detto, come che procurasse di fuggirlo, sapendo, che chi ha giurisdizione, et protezione ha ancora il ius, conciosiacosa che in un altro discorso, dise che non parla del Mare interiore, ò mediteraneo, ne de suoi seni, ò Golfi, che conciede, che se abbiamo in Dominio, ma parla per usare, le sue parole, non de Mare interiori, Sed de Oceano quęritur, quem immensum, infinitum, rerum parentem, Cælo conterminum antiquitas vocat. E parimente ad’un altro passo allegando Alfonso de Castro Theologo Spagnuolo, dice, che chi volesse prescrivere le ragioni del Mare, bisognarebbe, che dimostrasse un essercitio fatto in esso oltra ogni memoria d’huomini, e che niuno altro in questo tempo l’havesse fatto, se non ò per concessione di colui, clandestinamente, et oltra di ciò, che egli avesse vietato à ciascuno, che ne avesse pretensione, qualità, che tutte concorrono per fondare meglio le ragioni della Republica, et la Signoria di lei sopra di lui, avendole tutte. Io credo di avere ottimamente dilegguata la nebbia, che teneva offuscata la mente di coloro, che stimavano buona l'opinione di quest'Auttore, et se quell'altro, cui che si fosse, che già parlò con tanta licenza contro lo sposar del Mare, che puro Simbolo di Dominio, come la Corona d'un Regno, et la Mitra d'un Voscovato, avesse con occhio discorsivo et non temerario ben considerato queste cose non averebbe certo lasciato scritto, ò inauditam dementiam desponsare elementa, à cui ottimamente calciarebbe tal risposta. O quam stultum teme rè effutire verbiale blatterare sermones. Con la risoluzione de gli argomenti di quel discorso, rimane risolto ancora l'argomento prima formato à favore de gli Uscocchi, quando però averemo dimostrato, che siamo in caso totalmente diverso, il che provaremo con le ragioni del medesimo auttore. Dice egli, che i Portughesi ingiustamente impediscono alla sua Patria il navigare all'Indie, et per suo fondamento adduce, che i Portughesi non sono Patroni di quei populi, e provincie, per la qual cosa non avendo alcun Dominio, ne possesso, ne giurisdizione non possono far tal prohibizione. Il caso dunque è diverso dal nostro, perche come si è detto, Li Signori Veneziani hanno Dominio, et possesso, et riscuotono li suoi diritti dai naviganti. Porta l'istesso auttore un'altro fondamento, che la navigazione debet habere manus innocuas, cioè senza danno, et adduce l'esempio di Virgilio, littusque rogamus innocuum, che non è così ne gli Uscocchi, che ovunque vanno, vi lasciano il segno della loro malvagità. Il caso adunque, come habbiamo detto, non è simile ma molto diverso.
Ove poi dicono, pur nella loro prima opposizione. Che i Venetiani non anno azione di vendicar l'ingiurie fatte in Golfo ad altre nazioni, che vengono, et che vanno per occasion di commercio a Venezia, questo rimane pienamente risolto, havendo noi fermato che il Mare non è libero, ma proprio della Sereniss. Republica, et che perciò ella è tenuta di vendicar le offese, come fatte nel suo stato, et nella sua giurisdizione, et in luogo soggetto alla sua Prottezione, et quanto alle ingiurie fatte alli sudditi Veneti, non fu difesa quella degli Uscocchi, come essi allegano, ma fu onta, et ingiustizia.
Vengo alla seconda opposizione, nella quale gli Uscocchi asseriscono di essere stati offesi, contra la forma delle Capitulazioni, che concedevano loro la navigazione con quelli altri particolari, che si portano, si risponde, che questa è una falsità manifestissima.
Al Terzo, che se hanno gli Uscocchi fatto alcun danno, questo sarà stato in tempo che prima erano stati offesi da Veneziani, et perciò era loro lecito il vendicarsene, per ragion di represaglia. Si risponde con verità, che questa parimente è una loro menzogna, perche gli Uscocchi sono stati essi sempre i primi, ne giamai essi proveranno, che sia stato altrimenti et se alcuno potesse rimaner in dubbio di questa nostra negativa, cioè chi fosse stato il primo et ne volesse prova più evidente, vagliasi della regola di quel valente buono, che diceva ne i casi dubbij, is fecit, cui prodest. Chi può dire, che torni utile alla Rep. l'haver briga con quella razza di huomini. E che cosa hanno essi al mondo, che loro si possa invidiare, ne pur bramate? Questi ne per fertilità di terrenno, ne per bellezza di sito, ne per ricchezze, et thesori, che tenessero riposti, ne per merci, che avessero, ò che trafficassero, ne per arte, od'industria, che essercitassero, ne per copia de genti, o d'animali, che possedessero, possono eccittare l'appetito non dirò à guerreggiargli, ma ne meno à mirarli. E pur sono queste le sole cagioni, che con solleciti invitti ponno agguzzare la cupidigia altrui à procurarle, et a conseguirle: delli quali ben assolutamente sono privi gli Uscocchi, perciocche essi hanno il loro contado aspero sterile selvaggio, il sito alpestre, balze innaccessibili, diruppi altissimi, et sollo horror di natura, abitando non già stanze ma tane, e covigli di fiere, mendici, miserabili, ignudi, rozi, incivili, incapaci d'ogni industria, et d'ogni buon'arte, pochi di numero, et bisognevoli d'ogni cosa, in somma da fuggirsi come fiere, et più d'ogni venenoso animale; onde il porsi à volontaria contesa con loro non sarebbe altro, che pescare pesci minuti, et vili con l'hamo d'oro, che una perdita, et vi e maggiore di mille guadagni, percioche se si vendessero tutti gli Uscocchi, come schiavi, et se si mettesse insieme tutto il valore di quei paesi non si pagherebbero un centesimo de' danni, che ha ricevuto la Republica. Buggiarde adunque sono le accuse degli Uscocchi, et le loro difese sono non pure mal fondate, ma irragionevoli.
La quarta opposizione non ha fondamento, che vaglia et ha solo un ombra di apparenza, conciosiache, essendo manifesto, che gli Uscocchi, come inimici danneggiano la Republica sarà per ogni debito di giustizia, et honore, et per riparar à tanti danni lecito, anzi necessario à perseguitarli, et esterminarli in ogni luogho, ove essi rifuggano.
Onde se il Signor Arciduca gli protegge, et gli ricetta nel contado di Gorizia, ciò fa, ò come suoi overo come stranieri, se come suoi, et consente, che questi commettino tanti eccessi et cosi nefandi sceleraggini, deve essere sottoposto alla medesima pena, non avendo voluto porvi rimedio, e se egli gli favorisce come stranieri, questo è molto peggio, perche dimostra con tal maniera di spreggiare, la reputazione della Republica, et aver gusto de' suoi danni. E mantenendo come fa, et dando ricetto à ladroni nemici di lei, ha giustamente provocata la sua ira. A queste due ragioni si atterra l'aver prima gli Uscocchi danneggiata l'Istria, et trappassati in Friuli anno abbruggiato le ville fino à Monfalcone, et fermatisi come nemici in quei contorni. Per la qual cosa nulla rileva l'addurre che l'Imperatore sia Signor Soprano, et l'Arciduca abbia il governo, percioche noi non siamo adesso sul piattire alle civile, che si vanno ventilando le parole, ma se ha da guardare ai fatti, si hà da mirare cui offende, et dove si ricoverino gli offensori, sia governatore colui, che gli raccoglie ò feudatario, ò pur protettore, come si manifesta il Sign. Arciduca, non si diversifica però la causa della Rep. si che giustamente non gli perseguiti ovunque si siano. Ne l'imperatore ha da dolersene perche se ha concesso al Sig. Arciduca il posesso assoluto, et perpetuo de gli Uscocchi, et raccomandato le sue ragioni à Principe che consente che i vicini Principi siano da suoi sudditi infestati, non ha da querelarsi, se non di se medesimo, secondo la decisione di Giustiniano suo antecessore, nelle sue Institutioni.
Qui negligenti amico, dice egli, Rem custodiendam tradidit, se res perit, sibi imputet, non alijs. A ciò si aggiunge, che se i luoghi sacri, che pur si hanno in tanto riguardo non sono sicuro tempio a tal sorte di huomini, che quindi si caverebbono all'ultimo supplicio, poiche i luoghi di devotione, et di pietà, ove con puro, et innocente cuore adora il Signor Iddio non proteggono huomini impuri, et d'animo cosi distemperato, che se arrecano a gloria, et affiggono per Trofei l'arder le Chiese, profanar gli altari, calpestrare il Santissimo Sacramento, tagliar i membri a' Sacerdoti, deturpar loro la faccia, et ancora ucciderli, et che stimano trionfi, et Palme gloriose, scannar gl'innocenti Bambini nelle culle, et nelle braccia delle misere madri l'uno, et l'altra occidendo pascendosi di carne humana. Dirassi hora che il contado di Gorizia sia Sacrosanto et di maggior auttorità, et di più alta riverenza della stessa maggiore del Sig. Dio, ove egli soggiorna, et riceve il suo culto, si che coloro, à cui sua Divina Maestà ricusa la prottezione nel proprio albergo, trovino un Prencipe terreno, che gli tenga fidati, difesi, et inviolabili? Fornisco questo punto, co'l dire questo solo, che gli Stati de' Principi giusti come li professa, devono essere ricetto et propugnaculo del ius, et non della ingiuria.
Passiamo all'ultima oppositione, che è di non averli denonciata la guerra, à cui si risponde in una parola, che non si aveva obligo, perche quando vengono fatte le ingiurie ostilmente, come sempre anno fatto gli Uscocchi, contra la Republica non è necessaria alcuna intimazione secondo l'assiomazione legale. Che iura violanti ius redditur, se ius non præstatur. Et se il Sig. Arciduca non ha voluto rimediare, avendo il commando sopra gli Uscocchi essendo palese à tutti i danni fatti da loro non occoreva denonciar quello, che ei permetteva, che nemicamente si facesse. Onde Pirro, come referisce Plutarcho, disse à Lacedenovij, che si dolevano, che non avesse loro intimata la guerra, che ne anco essi denonciavano ad altri quello, che intendevano di fare. E dove si lesse, ò intese giamai, che à Corsari, ne à ladroni si intimasse la guerra? la Republica Romana, che mandò Pompeo contra Corsari, che con tante navi infestavano il mediterraneo non intimò già la guerra, il simigliante fece contra Marcantonio dechiarandolo ladrone, et ciò fece con gran giustizia, perche questi tali, come nimici del genere humano sono diffidati da tutti le leggi, ne anno il ius belli.
A queste raggioni, che tanto basterebbono, si aggiunge, che quando le risse vano multiplicando, eziandio contra coloro, che avessero il Ius belli, et vannosi di ogni giorno in giorno accrescendo le forze et secondo le occasioni si combatte quasi à giusta giornata, come nel caso nostro non è di mestieri di far altra intimazione. Quia come dice la regola di ragione, Factum ius notar, è come dicono i Giuriconsulti, Dies solvendi, vel aliquid agendi interpellat pro homine.
E che maggior intimazione può farsi, quanto l'aver tanti anni sono, tenuto armate tre Galere contra di loro, et con Proveditore, che che per tale effetto è denominato Capitano contra Uscocchi.
Frivole dunque sono tutte le cose opposte et per quanto io credo, et credo non ingannarmi, ottimamente risolse, e quando pur gli oppositori non si aquietassero à tante ragioni, et a tante dimostrazioni, daranno indizio ò di essere di natura di Uscochi, piu ferini che umani, overo d'intelletto poco ragionevole ò almeno sofistico nel qual caso, se pure staranno fissi nelle loro albagie, sarà l'orgoglio de gli Uscocchi con l'aiuto Divino non meno rintuzzato con l'armi di quello, che replicando gli oppositori con nuovi sofismi rimaneranno confusi con la penna.