Signorine povere/Seconda parte/III
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III.
Gli sposi viaggiavano. Prima di partire, Augusto Klein aveva condotto i parenti e gli amici al ristorante Ccinetta, allora in auge, dove li attendeva una succulenta colazione. Tra i parenti, oltre i Pagliardi arrivati da Pavia coll’Antonietta, vi erano pure due cugini di Malgrate, due vecchietti arzilli, smaniosi di ritornare al paese e paurosi di perdere la corsa vedendo clic la colazione andava troppo in lungo. Tra gli amici: Faustino Belli, testimonio dello sposo e il dottor Monti, della sposa; poi Luciano Monti, gli inevitabili Ermondi e alcuni rappresentanti della stampa cittadina, invitati sagacemente dal Klein per fare allegria e perchè la spesa non fosse di puro lusso, ma fruttasse almeno un pochino di réclame al negoziante di belle arti. Si diceva che egli volesse aprire anche in Milano un grandioso negozio, come succursale dei suoi magazzini di Berlino e di Vienna. Comunque fosse, egli si mostrava in ogni occasione molto amabile verso i signori pubblicisti, che gli ricambiavano la cortesia stampando spesso il suo nome nelle colonne dei giornali. Così la colazione aveva avuto i suoi brindisi letterari e semi-politici, nei quali si parlava con molto entusiasmo della bellezza di Eugenia, dei meriti patriottici dei Valmeroni, e quindi del simpatico negoziante di belle arti, amico dell’Italia, e ammiratore sincero delle sue bellezze. Alcuni di questi brindisi dovevano trovar posto nella „cronaca“ di qualche giornale; e Augusto Klein aveva raccomandato ai parenti che gli mandassero quei giornali a Firenze, prima tappa della sua luna di miele.
Riuniti nel loro elegante salotto, rimesso quasi completamente a nuovo, i Valmeroni e i loro parenti e amici, reduci dal banchetto nuziale e dalla stazione, dove avevano accompagnato gli sposi, digerivano lo sciampagna che il tedesco aveva distribuito senza economia. Le insolite commozioni dell’animo e l’avere sconvolto l’ordine della giornata mangiando fuori d’ora, bevendo e chiacchierando più del bisogno, li rendeva tutti un po’ nervosi, eccitati c affranti nel medesimo tempo. Faustino Belli si era staccato da loro in piazza del Duomo promettendo di farsi vedere nella serata; i cugini di Malgrate erano scomparsi alla stazione senza salutare; Riccardo aveva trovato alcuni amici e si era unito a quelli; il dottor Monti era scappato per fare qualche visita ai suoi ammalati. Luciano invece pareva non potersi staccare dai Valmeroni, e se ne stava lì seduto ad ascoltare dalla bocca di Leonardo la ripetizione delle cose che aveva vedute con i propri occhi. Molto eccitato per la vendita dei suoi quadri e per qualche brindisi troppo ripetuto, commosso dalla partenza di Eugenia, contento e malcontento insieme di ciò che gli accadeva, il buon Leonardo aveva una parlantina insolita.
E decantava su tutti i toni la bellezza di sua figlia, la bontà e la fortuna commerciale di suo genero; poi veniva la volta della folla che si pigiava per vederli alla stazione. E quel coupé di prima classe pieno di fiori, riservato agli sposi?... e la colazione?... che squisitezza!... E i brindisi?... Bravi ragazzi quei giornalisti! come sapevano bene le gesta dei Valmeroni, le loro glorie, i loro meriti patriottici!... e intanto, Eugenia era partita: aveva lasciato i suoi parenti... povera, cara Eugenia!... Ma i Valmeroni finalmente risorgevano...
Tutto a un tratto si ricordò della sua povera nonna e pensando che se fosse vissuta ancora alcuni mesi avrebbe assistito a tanti avvenimenti, s’intenerì fino alle lagrime.
La signora Elisa, anche lei sufficientemente esaltata, parlava di Eugenia come di una principessa, mostrando all’Ersilia e all’Antonietta alcuni capi del corredo non ancora chiuso nelle casse. Erano camicie di batista, finissime, guernite di ricami, di trine, di nastri; calze di seta; sottane di moire bianco; accappatoi di una eleganza squisita.
— Le prime case di Milano hanno lavorato per lei, e Augusto sceglieva le cose più belle, le più eleganti...
— E pagare? — domandò rudemente l’avvocato Pagliardi, mescendo il suo ghigno satirico al lirismo dei suoi cognati. — Chi lo paga il corredo?
— Son domande da farsi? Chi fa il corredo alle figliole?
— Dunque il vostro caro genero sceglieva la roba più costosa per farla pagare a voialtri?... Benissimo!...
— Oh, come sei maligno. Bisogna vedere i regali che ci ha fatto... questo divano e queste poltrone me li ha regalati lui, e poi ha dato a Eugenia cinquemila lire per contribuire alle spese del suo corredo.
— Allora è un altro paio di maniche... Devi dire che ha pagato lui.
Angelica, che aveva bevuto veramente troppo sciampagna alla colazione ed ascoltava quei discorsi con le guance in fiamme, esclamò d’improvviso:
— Il corredo è splendido, i denari son tanti, ma stamattina quando è rientrata dalla chiesa per cambiarsi d’abito, Eugenia era pallida come una morta e ha detto queste parole: „Io sono una vittima, m’hanno sacrificata: vorrei essere una stracciona e avere la libertà di sposare chi mi piace!“
Fu una doccia gelata. Al momento nessuno fiatò. Primo il Pagliardi si lasciò sfuggire una risatina; poi, Leonardo, un singhiozzo. Luciano Monti balzò in piedi dimenando le braccia, pallido come uno spettro; poscia ricadde sui guanciali del divano. Passato il primo sbalordimento, l’Elisa si buttò su quella sbarazzina di Angelica e si die’ a picchiarla come una lavandaia, senza alcun rispetto per il bel vestito di crespo bianco della fanciulla, nè per il proprio, elegantissimo di moire verde mirto. Angelica strillava nuove insolenze.
Il Pagliardi, indignato, afferrò sua cognata per la vita, la trascinò via, le ordinò di quietarsi.
In quel momento arrivò il dottor Monti e si fermò sulla soglia intontito. La signora Ersilia, aiutata da Antonietta e Maria, cercava di far tacere l’Angelica che si dibatteva disperatamente in una crisi di nervi. Leonardo guardava la brutta scena con gli occhi sbarrati, paralizzato dallo sgomento.
— Canaglia! — gridava la madre, mortalmente offesa nel suo orgoglio come se le avessero gettato in viso una manata di fango nell’ora del massimo trionfo. — Canaglia! Son tutte menzogne! Tutte invenzioni tue!...
— Non è vero! Non invento nulla. E la verità. Si strappò il velo dal capo e lo lacerò; buttò i fiori d’arancio sotto il letto. E non voleva saperne di andare in Municipio. Era sente anche Maria... Lo può dire... Io non invento. Eppoi il velo lacerato e i fiori sgualciti son là... parlano!...
Gridava, singhiozzava, presa dal convulso, si strappava le trine del vestito.
— Taci, taci! Quetati!...
— Sii buona... basta.
— Andiamo di là, via! — le comandò il dottore trascinandola a viva forza fuori del salotto. La portarono nella sua camera. Antonietta e Maria la spogliarono; il dottore mandò a prendere un calmante.
— È lo sciampagna — diceva egli intanto. — Ho visto bene che beveva troppo.
Intanto in sala la signora Elisa era svenuta.
Chiamarono il dottore. Ma prima che egli arrivasse, il Pagliardi la fece rinvenire spruzzandole allegramente l’acqua fresca sulla faccia.
Ella scattò con un grido:
— Il mio vestito!... — E si scrollava di dosso l’acqua che poteva sciupare quel colore delicato.
— Ah! così va bene! Avevo ragione io di non spaventarmi.
— Anche tu?... Oh quanto soffro!... Tutti contro di me...
Si guardò intorno, e non vedendo più l’Angelica, respirò.
— Oh! che dolore mi ha dato quella birichina!... Ma sapete che se fosse vero quello che ha osato dire, se fosse vero che la mia Eugenia è infelice, sacrificata, io non potrei più vivere! Era così bella, poco fa, e mi pareva tanto contenta. Povera me se mi fossi ingannata.
Una commozione intensa l’agitava, le lagrime le serravano la gola e non poteva piangere.
— Calmati, calmati, Elisa — le suggeriva dolcemente l’Ersilia. — Tu hai fatto tutto per il meglio, sii tranquilla.
— Che commedia — mormorava il Pagliardi allontanandosi col dottor Monti.
Il dottore scrollò il capo.
— V’ingannate. Vostra cognata è sincera. Innamorata dei gioielli e del lusso, ha creduto in buona fede che Eugenia potesse essere felicissima solo perchè è diventata ricca. Se potesse supporre d’essersi ingannata non avrebbe più pace. Per fortuna non lo crederà mai. Non può entrare nella sua piccola testa che il lusso e i divertimenti non bastino alla felicità.
Arrivò Riccardo, serio e di pessimo umore; e subito domandò:
— Cosa è stato?... Si sente male la mamma?
Gli rispose il Pagliardi:
— Una cosa da nulla; è già passata.
Il dottor Monti lo guardava.
— E tu cos’hai, Riccardo?
— Io... Oh, ne ho sentita una... Ma è meglio che non ve la racconti. Il babbo ha la faccia triste; la mamma si sente male...
— Parla, parla... Hai detto troppo; non puoi più tacere. Si tratta di Eugenia?... — domandò Leonardo.
— Di Eugenia?... No... Non so nulla di lei. Non l'abbiamo veduta partire in mezzo ai fiori e alla gioia?
Vi era un filo d’ironia nel suo accento, ma nessuno credè opportuno di rilevarlo.
Antonietta e Maria apparvero sulla soglia.
Tutti le guardarono.
— Ebbene? si è addormentata? Ha fatto effetto il calmante?
— Sì. Ma pare che sogni. Si agita, geme...
— Naturale. Digerisce. Domani starà benissimo.
— Dunque, Riccardo, racconta. Cosa hai saputo di così terribile?
— Oh, tu, zio, ne avrai gusto... Cioè, avrai gusto perchè si tratta di smascherare uno che tu detesti.
— Faustino Belli?...
— L’ hai detto.
— Smascherare Faustino Belli?... Dunque lo credete un indegno?... Saranno calunnie. Non possono essere che calunnie.
— Oh, babbo, se tu sapessi...
— Non voglio sapere.
— Questo è degno di te! — esclamò il Pagliardi. — Invece bisogna sapere.
— Ebbene, sentiamo. Parla pure, Riccardo. Di’ tutto quello che sai. Io ti dico fin d’ora che se sono cose indegne del mio amico, del mio migliore amico, non ti crederò. Faustino Belli non è capace di commettere un’azione indegna.
— Io ho le prove di quello che dirò: ho i testimoni.
— Parla.
— Vi ricordate del quadro del Ferminola che Augusto fece portar via circa un mese fa?
— Sì. Lo mandava a Vienna dove sperava di poterlo vendere.
— Quanto lo ha calcolato nell’insieme?
— Mille lire.
— Va bene. Era per Faustino Belli, in compenso di avergli fatto ottenere la mano di mia sorella...
— Un regalo. Che male c’è?
— Non un regalo: un compenso fissato prima.
A queste parole scattò il Pagliardi:
— Oh! Faustino Belli, se si è fatto pagare per i suoi buoni uffici, non si sarà accontentato di un quadro del Ferramola! Tu sbagli, figliuolo.
— Non sbaglio. Bisogna sapere che il Belli era sicuro di rivenderlo subito quel quadro per seicento sterline: quindici mila franchi.
— Oh!...
— Eh! Eh!
— Le spari grosse, stasera.
Riccardo scrollò le spalle.
— Vi dico che è così. Fu comperato per un museo di Londra, che, nella collezione dei pittori italiani, non aveva nulla del Ferramola. Mandarono a posta un incaricato in Italia; e il Belli che sta attento a tutto, lo seppe, e seppe condurre le cose in modo da avere lui tutto il guadagno. Vi pare un’azione da amico? Son quattordici mila franchi rubati a noi!...
Il dottor Monti intervenne.
Secondo lui la parola „rubati“ era eccessiva. Si doveva parlare tutt’al più di una mancanza di riguardo verso un amico; di furto, no; perchè in commercio queste cose si fanno tutti i giorni. Egli non era amico del Belli, tutt’altro; ma certe esagerazioni lo urtavano. Riccardo giudicava da poeta e non s’intendeva di commercio.
— Sono felice di questa mia ignoranza — rispose Riccardo sdegnoso. — Il commercio che giustifica un’azione come questa del Belli, io lo giudicherò finchè vivo un commercio disonesto. Sarebbe diverso se egli avesse comprato il quadro prima, per aiutare papà quando si trovava in bisogno, rischiando qualche migliaio di lire; e più tardi, inaspettatamente, gli fosse capitato di venderlo con tanto guadagno. Anche in questo caso, trattandosi di un vecchio amico nelle condizioni del babbo, il suo dovere sarebbe stato di dirgli: „Tò, ho avuto questa fortuna: facciamo a mezzo.“ Invece egli sapeva tutto prima e fece tutto di nascosto, ingannando Augusto e noi insieme. Augusto per altro si è lasciato ingannare perchè in quel momento gli premeva di avere il suo appoggio. Sentii io qui, in questa sala, uno scambio di frasi che mi parvero sospette, e di cui ora capisco tutto il significato.
— Che frasi? — domandò Leonardo con la voce resa fioca dalla commozione.
— Ricordo bene questa, detta da Klein: “..... se un altro mi facesse questa richiesta, direi: è un capriccio. Trattandosi di voi, sono certo che avete pronto un compratore che ve lo pagherà il doppio, e forse più...“ Faustino protestò. Sentii il nome del Ferramola e capii che parlavano del nostro quadro. E quando Klein lo fece portar via, seppi dal facchino che l’aveva portato a casa del cavalicr Belli. Era dunque il patto promesso; la mediazione.
— Non un dono però. Dall’insieme delle frasi che tu hai udite, pare che Faustino lo dovesse pagare al Klein.
— E vero, zio. Ma ad un prezzo assai basso; mentre tutt’e due sapevano che il quadro poteva esser venduto assai più caro.
— Capisco. E tu, come hai saputo il resto?
— Per caso. Ho incontrato un amico che studia in Brera. S’è parlato di mia sorella, poi della nostra galleria. Allora egli mi ha chiesto se tra i nostri quadri c’era un Ferramola. Ho detto di sì; e che Klein doveva averlo donato o venduto a Faustino Belli. „Va bene!“ ha esclamato il mio amico. „È il quadro che è andato a Londra. Ero a Brera io quando il signor Belli è venuto là con un forestiero per far bollare una cassa che spedivano a un museo di Londra. E siccome il segretario ha voluto vedere il quadro, hanno aperta la cassa: era un Ferramola. La dichiarazione di valore diceva: seicento sterline.“ Così ha raccontato il mio amico, che posso far venir qui, se volete.
Allora in mezzo al silenzio costernato della famiglia, Leonardo Valmeroni si accostò a suo figlio e, con la sua maniera ingenuamente solenne, pronunciò queste parole:
— Io non credo che Faustino Belli abbia commesso un’azione così indegna di lui, per quanto usata in commercio e permessa dal codice. Non si deve mai credere, senza la prova dei fatti, alle cattive azioni dei nostri amici. Ci sarà un equivoco in quello che ti hanno raccontato; oppure, se la cosa fosse vera, vuol dire che Faustino non avrà potuto agire diversamente.
Riccardo chinò il capo.
— Eccoti servito! — gli disse il Pagliardi ridendo. — Hai avuto la tua lezione.
Riccardo non gli badò. Le parole di suo padre l’avevano profondamente commosso; capiva di avergli dato un gran dolore inutile, e se ne pentiva. Perchè aveva parlato, egli che stentava tanto a uscire dalla sua abituale riserva? Sapeva pure che suo padre doveva essere rispettato anche nelle debolezze, compensate dalla infinita bontà: sapeva che non si poteva strappargli le sue illusioni senza ferirlo mortalmente. Perchè aveva parlato, appunto quel giorno in cui al povero uomo brillava un lampo di gioia dopo tante amarezze?...
„Avrò bevuto anch’io come Angelica — pensò mordendosi le labbra. — E dire che mi son sempre creduto un uomo forte. Bamboccio!“
Leonardo intanto si era ritirato nel suo cantuccio e rimaneva assorto nei suoi pensieri.
E così pure se ne stava soletto Luciano Monti: sempre annuvolato c estraneo a quanto accadeva intorno a lui, dopo la rivelazione di Angelica.
Maria guardava Leonardo quasi con invidia, dicendo a sè stessa con amaro rimprovero: „Egli non ha dubitato; egli ha difeso l’assente; io, invece, non ho saputo chiudere l’anima al sospetto: io ho dubitato... Io dubito!...“
Presso alla finestra dalla quale entrava l’aria dolce e la poetica luce del lungo crepuscolo di maggio, la signora Elisa e Flora Ermondi discorrevano ancora delle nozze di Eugenia, della colazione, del corredo. Esse avevano prestata poca attenzione alle parole di Riccardo e sapevano soltanto che si trattava di un’accusa contro il Belli. Se Flora taceva un istante, la signora tornava sul fatto dell’Angelica, e non si saziava di ripetere che quella sfacciata aveva mentito per far colpo, per il gusto maligno di turbare la pace della famiglia. Ma Fiora la distraeva abilmente con qualche osservazione di questo genere: — Era tanto bella Eugenia oggi, si vedeva ch’era contenta. Oppure: — Che bellezza quel vestito di panno bianco con quelle incrostazioni di velluto e quei ricami in oro!
Subito l’Elisa si faceva ridente e ripeteva per la millesima volta, che quel vestito era un modello venuto da Parigi.
Nel mezzo della sala, intorno al tavolino, sul quale era una scatola di sigarette, un portacenere e un porta-fiammiferi, sedevano e chiacchieravano il dottor Monti, l’avvocato Pagliardi, l’Ersilia e Antonietta. Riccardo passeggiava in lungo e in largo, Maria scorreva una rivista che aveva trovato sul pianoforte.
Il Pagliardi raccontava di uno zio di Faustino Belli, antico tavoleggiante, quindi ricco banchiere, poi fallito; concludendo che tra il padre c lo zio, Faustino aveva ricevuto dei buoni esempi.
— Perchè dovrebbe dirazzare?
Riccardo s’accostò al tavolino e disse a bassa voce:
— Vorrei che non si parlasse più di questa cosa: vorrei che mio padre la dimenticasse. È stato un dolore troppo grande per lui. Guardate come è oppresso.
Si udirono dei passi e delle voci nell’anticamera.
— I ragazzi: la Bergamini.
— Avanti... avanti!...
La signora Elisa si alzò e andò incontro alla sua buona vicina che aveva avuto in custodia i due piccoli per tutta la giornata.
Erminia e Giorgetto si precipitarono nella sala correndo e ciarlando; poi, avendo scorto lo zio Amilcare, rimasero immobili.
— Ebbene? Che fate? Non si saluta?
Silenzio completo.
Le tre signore si riunirono sul canapè e i ragazzi scapparono in cucina. Flora, Antonietta e Maria si affacciarono alla finestra.
Leonardo si scosse, si alzò e s’accostò al tavolino, presso al quale era rimasto il Pagliardi col Monti e con Riccardo.
Le ragazze chiacchierarono un poco della primavera, dei fiori, di Eugenia... di un giovane giornalista che si era trovato vicino a Flora alla colazione.
Questa finalmente si congedò: aveva alcune faccende da sbrigare in casa. Sarebbe tornata giù più tardi, nella serata.
— Desinate, voi altri? — domandò Antonietta.
— Oh, no! Si è mangiato troppo a colazione. Erano le tre quando ci siamo alzati da tavola. Forse mio fratello cenerà.
— Anche qui hanno intenzione di cenare.
— Bene, a rivederci.
— Addio, Flora — disse Antonietta. — Noi partiamo.
— Partite? Addio, dunque. Addio!
— E Isidoro? — domandava Maria a sua cugina, appena furono sole.
— Siamo sempre allo stesso punto.
— Vale a dire?...
— Quando è vicino a me, pare che mi muoia dietro; poi se ne va e basta. Bisognerà finirla in qualche modo.
— Cosa vuoi fare?
— Andarmene.
— Dove?
Antonietta fece un gesto vago.
Una voce maschia disse di sulla soglia:
— Buona sera, signori.
— Oh, Faustino!
— Buona sera, ingegnere.
— Buona sera.
Maria e Antonietta si erano voltate e avevano ricambiato il saluto, senza avvicinarsi.
Maria tremava.
— Sei commossa — le susurrò Antonietta. — Tu l’ami.
— No. L’ho amato, ma non l’amo più.
Antonietta sospirò.
Calmo, disinvolto, con un bel sorriso che gli risplendeva negli occhi, con la voce limpida e sonora, Faustino disse all’amico del suo cuore:
— Sai una cosa?... Ho rivenduto il tuo Ferramola che avevo comperato da Klein.
Leonardo non fiatò. Un rossore fugace gli colorò la fronte. L’altro continuò imperturbato:
— Ho fatto un buon affare. Figurati, io l’avevo comperato da Augusto per tenerlo, perchè c’era quella figura della santa che mi piaceva immensamente. Quand’è, cinque giorni fa, mentre qui eravate nel massimo daffare per i preparativi di nozze, capita a trovarmi un amico di Londra, un bravo giovane, romano di nascita, ma naturalizzato inglese. Si può immaginare dopo tanti anni quanti discorsi. Sei qui per diporto? — gli chiedo. — No, per affari; ma posso anche divertirmi un poco. — Basta, si fa qualche escursione insieme; di sera ci si ritrova a teatro, o al Cova, o al Biffi. Si parla di tutto fuorchè dei suoi affari, naturalmente. L’altra mattina, di punto in bianco, viene fuori a dirmi che era in Italia per conto del museo, dov’è impiegato, per comprare un quadro del Ferramola... mancando questo pittore alla collezione del museo. A questo nome io non so trattenere una piccola esclamazione. Egli vi si attacca. Insiste per avere un indizio. Gli farei un enorme favore, perchè non è riescito a trovar nulla di buono fra le cose vendibili, neppure a Brescia. Come si fa a resistere. Gli confessai che io ne avevo uno e che mi pareva bello. Volle vederlo e se ne innamorò. Io resistevo. Egli mi offrì prima duecento sterline, poi trecento e infine quattrocento: diecimila franchi. Allora pensai che non avevo diritto di respingere tale offerta... poichè, insomma, si trattava di te, e io non potevo, per mio capriccio, farti perdere diecimila franchi...
— Cosa c’entro io? — esclamò Leonardo agitato da un tremito, che non riesciva a dominare, non già per il denaro, ma per la riabilitazione dell’amico diletto, davanti al suo accusatore e a tutti coloro che avevano udita l’accusa. — Cosa c’entro io? — replicò.
— Tò! Vuoi che io guadagni su un quadro tuo, comperato a vil prezzo da uno speculatore? Non avrei più coraggio di guardarti in faccia. Raccontai al mio romano-inglese come stavano le cose e lo pregai di aggiungere altri duemila franchi per il mio rimborso; ciò che egli fece senza difficoltà. Qui sono le diecimila lire italiane e l’aggio... che egli ha calcolato a circa quattrocento lire... Vedrai, del resto, c’è unito il conto.
Così dicendo, con la più grande semplicità e un sorriso di profonda soddisfazione, egli porse all’amico un fascio di biglietti, da mille... da cento... componenti la somma.
Il buon Leonardo non li voleva assolutamente.
— Ma no, ma ti pare?... Non è giusto!...
— E giustissimo invece; e mi offenderesti mortalmente se tu non accettassi...
— Facciamo almeno a metà; giacchè tu vuoi assolutamente.
— No, no. Se io fossi un uomo d’affari, sì; ma io non sono uomo d’affari, io. Sono il tuo amico e voglio restare sempre il tuo migliore amico. Ho tante volte desiderato inutilmente un’occasione simile e dovrei lasciarmela sfuggire adesso?... Son troppo felice che almeno uno dei tuoi preziosi quadri sia stato pagato degnamente, e per opera mia.
Leonardo prese finalmente i biglietti, e abbracciò il suo diletto amico, lagrimando e sorridendo in una soavissima ebbrezza.
La signora Elisa pareva in estasi. I suoi occhi pieni di languore guardavano l’eroe di quella scena, con adorazione. Avendo incontrato per un istante lo sguardo di Riccardo, quegli occhi languidi ebbero un lampo d’orrore.
Ora tutti circondavano Faustino Belli, il quale parlava tranquillamente dei musei di Londra e delle meraviglie che essi contengono. Anche il Pagliardi era stato a Londra in gioventù e anche i suoi ricordi erano vivi.
— Sono le nove — disse a un tratto la signora Ersilia. — L’ultima corsa è alle nove e mezzo.
— Volete proprio andarvene? Potreste dormire qui; oltre la solita camera c’è anche quella di Eugenia.
Ma i Pagliardi protestarono che dovevano trovarsi a Pavia la sera stessa; e non dissero neppure di lasciare l’Antonietta come Maria sperava. Le due fanciulle si abbracciarono con raccoglimento e si lasciarono con angoscia, quasi presaghe di dolorosi avvenimenti.
— Guardati da quell’uomo — aveva detto Antonietta all’orecchio dell’amica nell’ ultimo saluto: — è un commediante abilissimo e pericoloso.
Riccardo andò ad accompagnare i suoi zii alla stazione. I Monti, padre e figlio, si congedarono. Maria andò con la Bergamini a mettere a letto i ragazzi, senza salutare Faustino. Sperando che ritornasse, questi l’aspettò fino alle dieci.
La Caterina venne ad avvertire la signora che la cena era pronta.
— Cenate con noi, ingegnere, ci fate un favore?
Egli accettò sperando di rivedere Maria almeno a cena. La fanciulla invece incaricò la Bergamini di presentare le sue scuse. Non aveva fame ed era molto stanca.
Così il cavalier Belli dovè sopportare la noia di una cena intima con Leonardo, Elisa e la signora Bergamini. Ma egli era contento di sè, del proprio trionfo, e aspettava altri compensi. Si rassegnò alla momentanea disdetta e fu amabilissimo come il solito.