Signorine povere/Seconda parte/II
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II.
Il dì appresso, ritornando dalla scuola, Maria trovò nella casella della posta una lettera al suo indirizzo. La calligrafia ferma e slanciata le fece battere il cuore.
— E’ lui — pensò.
Nascose la lettera e andò a chiudersi nella sua camera. Con un coltellino tagliò delicatamente la busta da un lato e ne cavò fuori il foglio scritto da tutte le parti. Lo contemplò alcuni istanti cercando di dominare il turbamento che le davano quei caratteri. Quando ella si sentì un po’ più calma cominciò a leggere. Non era la solita lettera d’amore. Faustino Belli esordiva con frasi pacatamente affettuose, quasi paterne. Pareva che non cercasse l’amore della giovinetta; se pure vi aspirava, non osava dirlo, e si limitava a chiederle la sua fiducia e una dolce corrispondenza amichevole. Voleva proteggerla contro i pericoli che minacciavano la sua giovinezza, vegliare su lei, aiutarla a conquistare un posto elevato nella migliore società. Con la sua bellezza, il suo spirito, la sua educazione, ella meritava di uscire dall’ombra in cui viveva. Non si lasciasse sedurre dalla simpatia e dalla bellezza di Riccardo Valmeroni: non era un partito buono per lei e non l’avrebbe resa felice. I Valmeroni avevano tutti, purtroppo, un grano di pazzia; Riccardo poi mancava di cuore; era scettico, pessimista.
„Voi meritate ben altro, o Maria. Conosco io un uomo che sarebbe degno di voi: un uomo che unisce alle più nobili doti dell’animo un aspetto piacevole e un vistoso patrimonio. Se avrete fiducia in me, ve lo farò conoscere da qui a qualche tempo. Voi sarete molto più ricca di Eugenia, senza fare come lei un matrimonio sproporzionato. O Maria, voi forse stupite di sentirmi parlare così; forse leggendo il mio doloroso segreto nei mici occhi che vi cercano continuamente, avete temuto che io pretendessi di legarvi a me... Rassicuratevi, divina creatura, io non sono tanto egoista. Io vi amo, sì, lasciatemelo dire, vi adoro: ma non mi illudo io: non sono come quel povero Augusto Klein..; povero e fortunato, del resto, poichè la sua illusione lo rende felice. Io non posso illudermi e poi... vi amo troppo... Voi dovete essere in alto davanti a me, affinchè io possa adorarvi in ginocchio. Ecco perchè vi contenderò sempre a Riccardo, che vi trascinerebbe giù giù nella miseria e nel dolore. Ma lo farò solo per il vostro bene, non già per legarvi a me, che ho vent’anni più di voi e sono poco meno povero di Riccardo. Avrete fiducia in me? Crederete che nell’anima mia esista ancora qualche cosa di nobile, d’incorrotto che aspira a risorgere, a rivivere per opera vostra?... Oh, povero me, se voi non mi credete, poichè nessun’altra creatura al mondo potrà avere sull’anima mia il potere divino che voi avete. Siete l’Ideale per la mia povera anima inaridita dagli anni e dagli attriti della società: io mi rivolgo a voi come a un simbolo di virtù e di purezza: vi sogno e v’invoco, come il prigioniero invoca la luce e la libertà. Ma non chiedo nulla, Maria, non pretendo nulla. Fatemi soltanto la carità di credere alla mia devozione, di pensare qualche volta a me con affetto. Voi sarete felice; un uomo giovane e degno di voi vi amerà e sarà vostro sposo. Voi lo amerete — oh! sì, Maria, l’amerete — e io rispetterò la vostra felicità, pago di pensare che la dovrete a me. Sarò il vostro amico, se vorrete; ma in realtà non sarò che il vostro povero (tutte le signore hanno un povero al quale non negano mai l’elemosina) e attenderò pazientemente la carità di uno sguardo, di una parola, di un sorriso. E sarò pure il vostro schiavo — lo sono già, Maria — il vostro cane fedele, pronto a dare la vita per voi ed a gettarmi ferocemente su chiunque osasse toccarvi...“
La lettera continuava per un’altra mezza pagina piena di follia e di passione sensuale mal mascherata da un esagerato e falso sentimentalismo. Finiva con la preghiera d’una risposta.
La prima impressione di Maria fu di dolore e di dispetto. Un vero disinganno. Vi contava forse Faustino Belli? Vi sono disinganni e dispetti che aprono più prontamente il cuore alla tenerezza; e Faustino era esperto conoscitore dei cuori femminili. Maria fu assai triste quella sera e taciturna fuor dell’usato. Ma parlavano tanto le altre donne intorno a lei, che non ebbero tempo di accorgersi del suo silenzio. Ferveva tra loro una gran discussione a proposito dell’abito di nozze dell’Eugenia e del velo bianco e dei fiori d’arancio. La signora Elisa consigliava un abito di raso bianco e i fiori d’arancio; lo sposo inclinava per una moire antique, rosa pallido, che avevano veduto alla Industria Serica. Poi si trattava di fissare se conveniva andare al municipio col velo ed i fiori d’arancio; o in abito da viaggio.
— Andremo prima in chiesa — diceva Augusto Klein. — Dopo la cerimonia religiosa verremo a casa a vestirci da viaggio.
— Prima in chiesa?,..
— Certo. E’ più bello. Così, dopo la cerimonia civile si fa colazione, e si parte subito.
La signora Elisa non approvava.
In municipio abbondavano i curiosi e la sposa doveva mostrarsi in tutta la sua bellezza. L’abito da viaggio toglieva solennità alla cerimonia. Oppure bisognerebbe che l’abito da viaggio fosse sfarzoso; per esempio, un panno bianco con ricami in oro.
Durante queste chiacchiere Riccardo solo notò l’abbattimento di Maria, ma non osò interrogarla.
A un certo punto ella disse che le doleva il capo e si ritirò.
Prima di coricarsi, sola nella sua camera, ella rilesse la lettera di Faustino e pianse.
„Non mi ama, non mi ama!“ ripeteva perdutamente, volgendo e rivolgendo nelle sue carni l’acuta spina che la dilacerava. Ha indovinato il mio segreto; i miei occhi glielo hanno detto; ed egli mi rifiuta, mi respinge, non mi vuole!... Le altre frasi non contano: sono le carezze che si fanno al bimbo quando deve subire una dolorosa operazione... Io sono il misero bimbo ed egli ha creduto di addormentarmi con la sua dolce canzone, mentre mi feriva così crudelmente... Avrebbe fatto meglio a tacere. Non io avrei parlato. Di che ha temuto? Che io mi attaccassi a lui suo malgrado?... Così vile mi crede... Oh! quanto sono infelice, quanto sono disgraziata!...“
E le lagrime tornavano a irrigarle il volto, copiose, cocenti lagrime. Cercava ancora di dominarsi; voleva rassegnarsi, essere forte. Pensava: „Egli è generoso: ha voluto togliermi al mio inganno, impedirmi di coltivare una speranza che non sarebbe mai appagata. Per non avvilirmi, ha soggiunto che mi ama... che mi sarà sempre amico... perchè io non sogni che egli mi voglia sposare... Ma chi gli ha detto che io lo sognassi?... I miei occhi?... Oh, che vergogna!“
E ricominciava a piangere. Così la sua anima semplice e retta aveva intuito la falsità delle proteste amorose dell’astuto seduttore, ma non potendo indovinare il movente perverso, lo stimava guidato da un sentimento generoso di pietà e di delicatezza per la povera fanciulla che ingenuamente lo amava. Accade talvolta nel nostro mondo, dove gli ingenui sono quasi sempre vittime dei tristi, che la suprema malizia sia frustrata e delusa dalla ingenua bontà. Ma guai se la inesperta creatura non rimane ferma nel suo primo giudizio; guai a lei se si allontana da quel primo sentimento che è l’istinto di difesa della sua anima incorrotta.
Alla prima e alla seconda lettura di quella lettera un solo fatto aveva attirata l’attenzione e colpito il cuore della fanciulla: Faustino Belli non voleva sposarla e neppur sedurla — lo protestava altamente: — „non vi chiedo nulla“ diceva egli. E le parlava di un altro uomo che l’avrebbe resa felice. Dunque non l’amava. Le altre parole d’amore, le proteste di adorazione disperata, le aveva lette di sfuggita, quasi senza fermarvisi su, senza ben comprenderle, come parole di un linguaggio a lei ignoto. Dal momento che egli non la voleva nè moglie nè amante, che valore potevano avere quelle proteste? Nessuno, per lei. Pietosi conforti, raffinati complimenti. Vi sono persone che strappano certe lettere in un impeto di collera, e ne disperdono i lembi avvelenati. Se Maria avesse lacerata la lettera del cavaliere non sarebbe più ritornata su quel primo giudizio. Ella invece l’aveva messa sotto il guanciale e la sua mano febbrile la cercava di tratto in tratto nella veglia notturna: la stringeva fremendo, o la premeva contro le sue guance ardenti, o ne aspirava delirando la sottile fragranza. A poco a poco quella fragranza delicata penetrò nel suo essere, accarezzandole i sensi, intenerendole il cuore con una dolcezza infinita. Nella nuova attitudine del suo essere, ella provò ardentissimo il desiderio di rivedere quei caratteri, di rileggere quelle parole. Forse le riuscirebbe di penetrar meglio nel riposto pensiero di Faustino, ora che si sentiva più calma. Forse l’aveva frainteso, forse vi era più verità in quella parte della lettera da lei trascurata.
Non poteva essere? Accese il lume. I suoi occhi brillavano; aveva le labbra rosse, il viso pallido soffuso di languore. Una dolcissima voluttà serpeggiava nelle sue vene.
Leggeva. E man mano che i suoi occhi scorrevano quelle linee, le sue labbra pronunciavano a mezza voce le frasi appassionate, le pareva che una gran luce si facesse nella sua anima.
Egli l’amava!... Era geloso di Riccardo... Perchè le avrebbe scritto così se non l’avesse amata? Come era stata stupida a non capire... Ma ora capiva, per fortuna. Il suo intelletto si era rischiarato nel dolore. Faustino Belli si esprimeva così perchè era un uomo di quarant’anni, e rivolgendosi ad una giovinetta non osava esprimersi francamente come un giovane; e cercava d’insinuarsi nell’anima di lei per la via piana dell’amicizia e della riconoscenza. Ma l’amava. Voleva essere il suo schiavo, il suo cane fedele... E come era geloso! L’altro personaggio, il presunto sposo che egli le avrebbe trovato, era lui, lui stesso, che non voleva esporsi per timore ch’ella lo trovasse troppo vecchio e lo respingesse. Chi sa quanto aveva sofferto scrivendole così. „Povero Faustino! Povero caro!!... Come mi sarà facile consolarlo!... E Riccardo?... Ma che! Gli voglio bene come a un fratello, niente di più. O Faustino!... Non amo che te!“
Le sue labbra ardenti si posavano sulla carta fine e lucida, dal profumo penetrante, che si era sviluppato con maggiore acutezza nel calore del letto. Era il profumo di lui, dei suoi abiti, delle sue mani.
Maria rimase ancora un pezzo sveglia beandosi delle più dolci visioni, pregustando una felicità completa, fino a che i suoi occhi stanchi si chiusero e il sonno la vinse.
All’alba, le campane di San Babila la fecero sussultare. Alzò la testa stupita; si sollevò sulle coltri, appoggiando un gomito sul guanciale, e guardò la finestra tutta bianca della luce mattutina. Un brivido di freddo le corse le spalle nude, rosate, di una rotondità delicata, sulle quali cadevano mollemente le trecce mezzo disfatte dei suoi magnifici capelli. Sentì un senso di gelo improvviso penetrarla fino al cuore. Si ricoricò sotto le coltri e cercò di raccogliere i suoi pensieri confusi e dispersi. Che aveva? Era malata?... Perchè quel triste risveglio? Si era addormita con un gran dolore nell’anima?... o non piuttosto con una speranza? Riflette. I fatti del dì innanzi le si riaffacciarono nitidamente. Rivide la lettera di Faustino Belli nel casellario della portineria, ricordò l’emozione che aveva provata nel contemplarne la soprascritta, l’impazienza di aprirla, di leggerla, e la prima, straziante delusione, dopo di averla letta. Si rivide disperata, affranta, e rabbrividì. Cosa era avvenuto poi? Perchè aveva finito con l’addormentarsi così dolcemente in una cara speranza?... Ah, sì; una luce si era fatta in lei e il significato della lettera le era apparso tutto diverso. Una grande luce...
Sorrise amaramente. Non le riesciva di trovarla quella luce: rivedeva tutto buio, tutto triste come alla prima impressione. Anche peggio.
Riprese la lettera di sotto al guanciale, la guardò lungamente e ne aspirò il profumo che le parve acre e le diede una leggera nausea. Ebbe un principio di vertigine, da cui si riebbe sollevandosi con tutto il busto e appoggiando la testa e la schiena all’alta spalliera del letto. Si mise a scorrere la lettera fermandosi con attenzione ai punti più salienti. La sapeva a memoria quasi da cima a fondo. Dopo alcuni minuti la lasciò cadere scoraggiata. Ora, la prima impressione le pareva la vera. Come mai quelle frasi lambiccate avevano potuto illuderla, farla sognare, sperare? Chinò la fronte confusa e un lieve rossore le tinse le gote. La voce interna le diceva: „Tu pensi troppo all’amore: lo desideri troppo intensamente; e Faustino Belli che ha capito il tuo debole, crede...“
— E chi sa cosa crede! — esclamò la fanciulla coprendosi la faccia con le mani.
Grosse lagrime le empirono gli occhi; e in quell’ora mattinale, in quell’ora candida e fredda, ella ebbe vergogna e pietà di se stessa.
Volle alzarsi, distruggere quella lettera: dimenticare, dimenticare. Si vestì rapidamente. Accese una candela e bruciò la lettera dall’acre profumo. Si affacciò alla finestra per respirare un’aria più pura. Il cielo grigio, latteo si stendeva come un lenzuolo mortuario sulle case grige, sulla strada solitaria. Gli spazzini finivano di scopare laggiù verso il Corso; le campane della chiesa sonavano a morto. Ella non si era sentita mai così triste, così sola.
La vita che doveva ancora vivere si stendeva dinanzi a lei e prendeva ai suoi occhi l’aspetto di un deserto di sabbia. Su quella sabbia mobile e stridente ella doveva trascinarsi, affondando il piede, scivolando, cadendo, rialzandosi per cadere ancora, finchè vi rimanesse sepolta. Eppure, in altri momenti, ella aveva pensato di attraversare quel deserto a testa alta, fiera e sicura, aiutando e proteggendo i deboli che incontrerebbe sul suo cammino.
Invece era lei che aveva necessità di conforto, di appoggio: era lei la più debole, la più fragile. Non osava dire la più infelice: no: le sarebbe parso troppo grande orgoglio nella sua colpevole debolezza. Tuttavia le pareva che tra i più infelici fossero quelli che, al pari di lei, conoscevano e odiavano la propria debolezza.
Ella non sapeva ancora che il suo male era il trionfo e il martirio della sua femminilità evoluta: la lotta disperata che la donna intellettuale sostiene contro gli uomini, contro la società e innanzi tutto contro se stessa; poichè essa non vuol cedere il possesso del suo cuore, nè del suo corpo se non in cambio di un amore alto, forte, completo, un amore nel quale possa concretarsi il suo più puro ideale della vita; e non trovandolo, ella tenta d’irrigidirsi e giura di chiudersi in austera solitudine, mentre il suo sangue giovane, il suo sangue ardente le sferza le vene e il suo cuore spasima di tenerezza e di voluttà soffocate; mal soffocate; e i suoi occhi cercano affannosamente l’eletto, che non riescono a discernere, e che forse non esiste. Orribile strazio questo della donna evoluta nella moderna società; ineffabile martirio. Intanto fugge la bella giovinezza e la povera vittima, se non si atrofizza miseramente, o se non muore consunta dal fuoco che l’abbrucia, smarrisce a poco a poco il ricordo dei suoi fieri propositi, dei suoi alti ideali, e accecata dalla passione, infralita dall’inutile attesa, si abbandona fatalmente a un tardo e spesso funesto errore.
Senza avere un’idea chiara dello stato psicologico e fisiologico proprio e delle sue simili, Maria sentiva che una legge fatale pesava su lei e sovra numerosissime donne e fanciulle della sua condizione. Così ella vedeva Eugenia, meno intellettuale, meno altera, ma sensibilissima e stanca di languire, e tuttavia paurosa di un errore irreparabile, legarsi in un matrimonio quasi abbietto per sottrarsi a un male maggiore. E vedeva Antonietta, oppressa dalla stessa paurosa vertigine, rifiutarsi ostinatamente all’amato che pure tanto l’amava. E nella figurazione del pensiero vedeva invece la sua povera mamma perdersi per un traditore. E finalmente sè stessa vedeva, incapace d’illudersi fino alla cecità che assolve, e incapace di respingere completamente, con determinata volontà, la inebriante illusione. Le pareva come se un muro si fosse drizzato nel mezzo della via ch’ella doveva percorrere: un muro alto, nero, poderoso. Ed ella non avrebbe mai il coraggio, nè la capacità di scalarlo, nè la forza di aprirvi una breccia, nè la suprema sagacia di voltargli le spalle. A pie’ del muro, nell’incertezza eterna, nell’inerzia invincibile, condannata a consumare miseramente la sua inutile esistenza.
Così triste fu per Maria Clementi la visione dell’avvenire in quella mattina di maggio, dopo il fiero turbamento e le angosce e i contrasti che la lettera di Faustino Belli aveva destato in tutto il suo essere.