Scritti politici e autobiografici/Giornale di un miliziano
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GIORNALE D’UN MILIZIANO1
Al termine di un immenso viale lussuoso e deserto, addossata alle colline che fanno corona al Tibidabo, ecco Pedralbes, la grande caserma di fanteria di Barcellona. Da Pedralbes partì, il 19 luglio, la rivolta. Ma i soldati non ubbidirono e gli ufficiali sopravvissuti furono trasportati sull’Uruguay, prigione navigante. Oggi Pedralbes è il centro di formazione delle milizie popolari, delle colonne anarchiche Ascaso, Aguiluchos, Royo y Negro. Durruti è già partito. Sperava di entrare a Saragozza prima che la resistenza si organizzasse. Invece i primi reparti, attaccati sulla strada dall’aviazione, dovettero fermarsi.
Non ha nulla della caserma, Pedralbes, benché sia una caserma modello. È un immenso castello rococò, diviso in vari edifici e torrioni, che fa pensare a uno scenario di cartone e stucco. Sarebbe orrendo, se non si adagiasse su questi colli, immerso nel sole allucinante e nell’azzurro mediterraneo.
Il terrazzo e il portico d’ingresso brulicano di gioventù. Per chi sale a Pedralbes coi ricordi di una grigia caserma piemontese, è il capogiro, il carnevale, tale è il tumulto di gente che va e viene, senza meta apparente. Comunione non solo morale, ma fisica. Si vive, ci si tocca, ci si urta, ci si sposta in gruppo. La vita del singolo resta inghiottita dalla moltitudine. Ma che vita.
Anche lo scalone che a destra porta al comando rigurgita di umanità. Abiti civili, tute marroni grigie bleu; guerrieri col fucile, pistolone, pugnale; uomini fatti, ragazzi, indiziane, col fazzoletto rosso e nero al collo, e bandiera della F.A.I. e C.N.T.
Di tanto in tanto una grossa automobile arriva rombando e strombazzando per incorporarsi nella folla. Ecco Santillan, l’improvvisato capo delle milizie. Non ha nulla di militare, nonostante la severità del lungo viso e i cuoi del cinturone che disegnano sulla bianca camicia geometriche figure. Difatti Santillan è un intellettuale, uno dei rari intellettuali sindacalisti anarchici. Sale la scala accompagnato da cento compañeros.
— Escucha, Santillan... Cuando se sale?... Santillan, Santillan... Più che una caserma, Pedralbes sembra un collegio all’ora della ricreazione.
Migliaia di volontari vivono, mangiano, dormono, fanno istruzione ultra sommaria, a Pedralbes. Il tapum dei Mauser, che si provano al tiro a segno nel cortile adiacente, traversa, spesso, il baccano. Ma è raro che il miliziano, cioè l’operaio trasformato in soldato, riesca a tirare qualche colpo di fucile a salve prima di partire per il fronte.
— Sparerete lassù. Lassù vi daranno tutto, cartucce, cartuccere, elmi, calze, scarpe, bombe, piatti, cucchiai.
Invece «lassù» non c’è niente, o c’è poco. Appena un camion di fucili arriva, una colonna parte.
Sembra che la guerra sfugga di mano. La guerra che si immagina con occhi cittadini, come barricata e insurrezione.
— Quando, ma quando si parte?
— Mañana (domani).
Mañana, la parola fatidica, la formula-chiave della psicologia e della tecnica di questo popolo adorabile, ma lento e disorganizzato. Con la musica ampia dei suoi tre a, mañana sembra spalancare tutto l’avvenire.
Dal cortile giunge un fragore umano. Grida, applausi, inni. Poi, nell’improvviso silenzio, un discorso impetuoso. È un comizio nell’immenso cortile, è il saluto della colonna Ascaso che parte.
Parte la colonna Ascaso su tre fila. I compañeros si tengono a non marciare al passo, fanno uno sforzo per non marciare al passo. Non vogliono essere confusi coi militari, loro. Si canta, si drizza il pugno. La gioia dei partenti è visibile come il corruccio dei restanti.
Evidentemente questo non è un esercito, o non è ancora un esercito. È popolo che parte per una dimostrazione armata, per portare la rivoluzione a Saragozza, senza esperienza, senza tecnici, senza artiglieria, senza mitraglie. Una, due, tre, dieci, venti colonne. Se la Francia ufficiale non si fosse autolesionata con la dichiarazione di non-intervento delle armi, Franco sarebbe già liquidato. Invece sarà un’impresa lunga. Quanto? Un mese, pensano i miei compagni ottimisti.
Miracolo di Pedralbes. Sotto il caos comincia a spuntare un ordine nuovo. I servizi della caserma funzionano. Funzionano le cucine. Non ci sono liti, non incidenti. Si crea la routine senza trombe e ufficiali di giornata.
Dalle finestre si abbraccia la metropoli, il cerchio delle colline, gli alberi e i fiori preziosi del parco reale, il mare, dominato dal Montjuich che solo per associazione di ricordi è fosco.
Pedralbes, strano e dolce nome per una caserma. Qui la rivoluzione si sente meglio che a Barcellona, dove il vecchio mondo moribondo coesiste tuttavia col nuovo. La città sta sospesa come tra due tempi e se le signore hanno soppresso il cappello e i borghesi il colletto e la cravatta, naturalmente si riconoscono. Umanità rivelatrice dei drappi bianchi appesi alle finestre degli appartamenti di lusso sul viale che porta a Pedralbes; nei quartieri popolari di drappi bianchi ce n’è pochi. Buono rivoluzionario. Invece qui è un tempo solo, un cuore solo, soprattutto una smania sola.
La giovinezza della rivoluzione, tutto il suo idealismo e tutta la sua innocenza. Il popolo gioca alla guerra come un bambino.
— Compañeros, onde stan los italianos?
Il compañero sorride, ricambia energico la stretta di mano e accenna un gesto. Non è sicuro, ma crede che stiano laggiù, in fondo al cortile, a sinistra, nel caseggiato, los italianos emigrati accorsi dalla Francia, dal Belgio, dalla Svizzera, dall’Algeria.
— Salve, compagni.
Spasimano anche loro per la partenza che non viene. Ma accolgono festosamente il nuovo arrivato.
— Anche tu? Sì, anch’io.
Per fortuna c’è Angeloni che ci farà partire.
Solo il genio anonimo della rivoluzione poteva inventare questa straordinaria ma al tempo stesso naturale divisa: la tuta.
La guerra dei lavoratori si farà in uniforme da lavoro. Il 19 luglio non ci fu tempo per spogliarsi. Gli operai uscirono dalle fabbriche in tuta per lanciarsi contro le colonne militari. Cinquecento sono morti. Ma la rivoluzione ha vinto in città e ora l’officina stende la sua sovranità sulla caserma.
L’operaio anarchico avrebbe rifiutato la divisa. Indossa, invece, senza sforzo, la tuta, il suo vestito di tutti i giorni.
Fascisti, che studiate minuziosamente composizione e colori della divisa, Hitler, che racconta in Mein Kampf di averla discussa giornate intere col sarto, e voi, troppo programmatici rivoluzionari insurrezionisti, ecco come salta fuori l’uniforme nuova. Carlyle potrebbe aggiungere una nota al Sartor Resartus. Sì, l’abito fa la rivoluzione.
L’intellettuale che s’infila per la prima volta la tuta prova un sentimento ineffabile di letizia.
— Ecco, mi spoglio del mio passato, delle mie abitudini e necessità borghesi per consacrarmi alla causa dei lavoratori. Entro nella rivoluzione col solo corpo e l’anima. Saremo fratelli, compagni in tuta. Ogni distinzione è sparita, come ogni grado.
19 agosto — sera
Partiamo dopo la estenuante attesa. Non solo i fucili ci hanno dato, ma quattro mitragliatrici che dobbiamo guardare a vista. La sezione italiana parte per prima, con 18 muli e una cucina da campo. Siamo di tutti i partiti. Anarchici, giellisti, comunisti. Due ali di popolo salutano lungo il percorso fino alla stazione i vecchi soldati che marciano al passo e cantano.
Il treno-tradotta fa fatica a partire. Addio Barcellona, addio civile Europa, vecchia politica e famiglietta giovane. Andiamo in Aragona, verso la pietrosa, infuocata Aragona. Racconti di bambini e ricordi di un viaggio lontano da Barcellona a Madrid si intrecciano confusamente. Ora i canti della partenza si sono quietati. Scomparse le ultime luci della metropoli, la notte meridionale ci avvolge mentre il treno sale lentissimo e ansimante. I corpi si rilasciano, le teste penzolano e il sonno lega in pose strane e tra respiri grevi i dieci compagni del compartimento. Magrini, con le coscie larghe e il viso baffuto professorale, dorme sul piccolo Tulli, rincantucciato. Sino a pochi giorni fa Magrini coltivava amorosamente Cézanne, tra riproduzioni e libri. È goffo nella sua tuta grigio polvere. Ma è bella la sua decisione di partire, miope e impacciato com’è. Sfuggirà così al destino filisteo, che sembrava designarlo professore. Anche Ernesto, comunista livornese emigrato a Marsiglia, inesauribile conversatore, pronto alla celia e alla risposta, si è appisolato per mancanza di vittime.
Chi sa se dorme Calosso? Ha voluto viaggiare dentro la Ford, che abbiamo caricato assieme su un carro merci agganciato al treno. Calosso è il nostro grande letterato, paradossale e scintillante nella cultura, nello stile, nell’arguzia. A venti anni dette alle stampe un libro sull’Anarchia di Alfieri, che lo rivelò finissimo critico. Ora siamo all’anarchia di Calosso che ben più pazientemente di Alfieri sopporta le incongruenze in una rivoluzione.
Un testone di capelli irsuti, una fronte bassissima da cui si stacca un nasone doppiato dall’eterna pipa, e dietro gli occhiali un paio di occhietti vivacissimi che contrastano con la rotondità soave della pancia che la tuta rivela. Con l’elmetto in testa Calosso oscilla tra Sancho Pancia e il vecchio fante. Invece è un Don Chisciotte ironico che sogghigna sulla nostra avventura.
Il pensiero torna a concentrarsi sul suo inevitabile centro, io. Bilancio di dieci anni tra prigioni, deportazioni, evasioni, esilii e lotta clandestina. Ma è naturale, è giusto; è necessario. Dopo aver predicato la necessità dell’intervento, bisogna partecipare in persona prima noi, gli intellettuali, senza domandarci se la nostra attività avrebbe reso meglio altrove. Vale, del resto, più questa esperienza umana e questo sforzo di coerenza di ogni più alta missione politica.
Scivola anche la mia testa sul compagno di destra. Treno, procedi. Esperienza, procedi.
La notte inghiotte anche me.
È l’una. Siamo fermi in una stazione. Una folla enorme, compatta — sono migliaia e migliaia — ha invaso il marciapiede, i binari. Grida, applaude, si arrampica sul vagone. Presto, afferra. Dal finestrino dove sta già un gruzzolo di compagni, penetra ogni ben di Dio. Meloni, cocomeri, pane, prosciutti, salami, vino, formaggi.
— Viva la rivoluzione,
— Viva la Spagna.
— Viva l’Italia.
È l’offerta di Tarrasa ai partenti. Le donne sono le più entusiaste.
Durante dieci minuti è un colloquio frenetico tra treno e stazione, tra volontari e popolo. La città di Tarrasa è tutta in stazione a salutare i volontari italiani. Tutta. Il grosso borgo industriale non dorme più da quindici giorni. Ogni notte va a salutare i treni, va a festeggiare i volontari.
Tarrasa, Tarrasa! Il coro si spezza. Le conversazioni si fanno più particolari. Il compagno ha trovato una compagna.
Ora il treno sta per partire.
Un oratore del comitato ci saluta. Rispondi, mi gridano i compagni. Grido il nostro grazie e il nostro augurio, in un italiano spagnolizzato.
Il treno si muove, la folla è presa da un fremito, i miei compagni cantano a squarciagola per coprire la commozione, io pure ho le lacrime, eccola dunque la rivoluzione nel suo momento di fraternità immensa, oh Spagna, come vale la pena di battersi per te, oh come si può essere disposti, dopo Tarrasa, per Tarrasa, per tutte le infinite Tarrase grige, monotone, salariate, oppresse d’Europa, a dare la vita.
L’angoscia segreta della partenza è sparita sul viso di tutti. Nella notte il treno ospita un’esplosione di vita. Ci battiamo le spalle, gridiamo, ci guardiamo negli occhi umidi fin nel profondo, e tra una fetta di cocomero e un panino imbottito confessiamo senza ritegno la fede.
Sì, vale la pena. La nostra Dulcinea si chiamerà ormai Tarrasa.
20 agosto
Dopo Lerida, ultimo capoluogo catalano, la piana si allarga e comincia l’Aragona. Sparisce la vite, sparisce l’olivo, spariscono gli orti, gli alberi si diradano, il verde si fa più raro, mentre il sole infuoca.
La terra, come il viso e le case dei contadini, è risecchita, grigia, tormentata da rughe, da rilievi dolorosi e strani. Il fumo del treno resta sospeso nella caligine. Il sole è avvolto in un velo. È un caldo compatto, visibile, oltre che sensibile, che grava sulla natura immobile. L’unica cosa viva nel deserto pietroso siamo noi, è il treno che caccia ogni tanto un lamento inutile! Melancolia dei piccoli alberelli di stazione, sorrisi sudati e saluti di ferrovieri stanchi. Qui si capisce il mañana, il tira a campar. Il treno, avvicinandosi alla meta, si inoltra in un terreno più accidentato, tra pareti di tufo rosso e sagome stranissime di monti marrone-scuro seghettati e tagliuzzati su cui si incastrano vecchissimi paesi desolati. In lontananza la Sierra Guara.
Disperazione di questo orizzonte carico di luce, inutilità di questa terra. Perché disputarsela? Ci incrociamo con un treno ospedale. A Monzon alcuni carri merci carichi di biada. È tutta la guerra che abbiamo visto sinora.
A Grañen scendiamo.
Nell’attesa dei camions, ci gettiamo sporchi e gocciolanti sul selciato della stazione. Sono le due, cinquantacinque gradi al sole, acqua non ce n’è, ma polvere in compenso molta, sospesa nell’aria, veicolo dell’altipiano.
Pochi giorni or sono a Parigi pioveva e il termometro segnava quindici gradi. Un bel salto. Qualche compagno soffre, io pure non godo. Ho sempre odiato il caldo e volontariamente mi arruolo in Aragona. Siamo pari, fascisti di casa. Voi l’Abissinia, noi l’Aragona.
Parto in un camion, gremito, avvolto in una nube. Ma due dei tre camions si guastano immediatamente. Metà dei compagni dovranno proseguire a piedi per diciotto chilometri. Noi marceremo la sera, in una direzione vaga.
Attenzione al bivio: Huesca a destra. Vicien a sinistra. A Huesca ci sono i fascisti.
Procediamo lenti, a tentoni, in un alto silenzio. Dove sia il nemico e dove siano gli amici, non sappiamo. Abbiamo caricato il fucile. Una foltissima nube si avanza, carica di fetore. Un gregge.
Ogni tanto guazziamo nell’acqua di un ruscello che attraversa la strada.
21 agosto
Finalmente dopo due ore giungiamo al quartier generale. Vicien. Pochi casolari sconsolati, a malapena intravisti nel buio assoluto. Una piazzetta ingombra di vetture, camions, carri, bestie, uomini. Chiedo il comando, mi dirigono al comitato che siede in un antro fumoso. Alla luce di una candela si disegnano contro il muro sporco alcuni miliziani intenti a mangiare. È tardi. Noi non abbiamo mangiato da stamattina. E la sete è orribile. Ma prima di mangiare, bisogna cercare di Ascaso, uno dei comandanti della colonna a cui siamo aggregati, il fratello del famoso espropriatore, morto da eroe il 19 luglio.
Giriamo da una casa all’altra. Finalmente lo trovo, seduto in fondo a un camino, circondato da alcuni fidi. Perché tacerlo? Mi è sembrato di trovarmi dinanzi al capo brigante.
Ascaso è piccolo, ma robusto; un pistolone gli pende alla cintura; gli occhi neri sarebbero vivacissimi se non fosse per... che gli dà un’espressione sulle prime torva. Ma mi accoglie bene. Conosce il francese, avendo vissuto lunghi anni come emigrato, e parla discretamente l’italiano.
Per il mangiare mi indica l’antro. E per il dormire?
Si stringe nelle spalle.
— Una casa?
— Stasera è impossibile. Buttatevi sui pagliai, ci sono dei pagliai fuori del villaggio.
Al commiato, mi batte fraternamente la mano sulla spalla e mi grida:
— Mañana se parte en batalla...
— Ma siamo stanchi morti. Molti compagni sono arrivati ieri e non conoscono neppure il fucile. Dateci, se potete, due, tre giorni per organizzarci.
Un sorriso.
— No, no. Mañana se parte en batalla...
Più tardi otterrò i tre giorni indispensabili. Avevo dimenticato il significato di mañana.
Notte indimenticabile di Vicien, cercando la cuccia all’aperto dove almeno non si soffoca come nell’antro dove ci hanno dato un pezzo di pane e una minestra. Con Calosso riesco finalmente a sistemarmi sul divano della Ford, ancorata in piazza. Il quadro di quell’accampamento di briganti schilleriani, che avrebbe forse depresso molti altri, provoca in me un riso pazzo. Il riso dell’avventura, il riso che mi ha sempre sorretto sotto gli occhi dei carabinieri per fuggire in Francia, quando nuotavo verso la barca salvatrice all’isola della deportazione, quando mi trovavo in gabbia coi compagni, senza possibilità di negativa, confuso dalle prove schiaccianti. Per un’avventura è un’avventura. Sino a ieri rispettabile profugo, professore in ritiro, giornalista. E tu, Calosso, insegnante nelle rigide scuole anglosassoni. Eccoci qui, ora, in capo al mondo, anzi in fondo al mondo, a fare la guerriglia in Aragona.
Contro uno sportello è addossato un mulo. Sul predellino di destra sono seduti due compagni. Tra la fiera, il circo e l’accampamento. Ridi Calosso. Gioventù nostra non sei finita, la vita ci offre un supplemento. Non c’è nulla di più inebriante che il sentirsi capaci di trasformazione, di evasione dal monotono quotidiano, autori e attori assieme del proprio destino contro ogni regola e logica. Ci bombardiamo di frizzi e paradossi, poi il discorso si fa più serio, la Spagna, Unamuno, l’universalismo spagnolo, la sua tragicità ma anche il suo effimero, la necessità di passare dalla guerriglia alla guerra, dal crepuscolo alla coscienza.
Ogni tanto lo sportello si apre, qualcuno cerca di entrare; tramestìo di corpi e di armi.
Sonno di bambini sulla piazza di Vicien, quartier generale della colonna Ascaso.
Alle quattro giriamo con la tuta a metà rovesciata sulle spalle alla ricerca di un piccolo rigagnolo dove centinaia di miliziani si lavano visi, mani, piedi.
Vicien non è un gruppo di casolari. È un Comune di 200 anime. I contadini hanno proclamato il comunismo libertario. Alcuni proprietari sono stati fucilati.
Huesca è a sei chilometri. Sentiamo il cannone.
Ricognizione con Ascaso al nostro futuro fronte. Fronte per modo di dire perché la zona è res nullius. Fu nostra, fu loro, ora provvisoriamente è inoccupata. Missione: tagliare l’unica grande strada di comunicazione tra Saragozza e Huesca. Nemico a destra e nemico a sinistra. Posizione sandwich, posizione in aria.
Da una superba Buick passiamo a una faticosissima marcia sulle zolle dei campi abbandonati e bruciati dal solleone. La bocca diventa pastosa, i fiati grossi. Ci precede una pattuglia di miliziani seminudi che evolve e si inerpica con una abilità consumata.
Eccoci infine sopra la cresta. Scelta la posizione, precipitiamo al piano in direzione di un’oasi di verde al cui centro sta un piccolo lago. Mi calo nell’acqua con l’orologio e in un successivo tuffo di testa mi slogo una mano contro un tronco d’albero del fondo. Soddisfazione intensa per non essermi rotto la testa.
Sull’imbrunire concentriamo la colonna nei pressi del cimitero di Vicien per un’esperienza con le bombe a mano che sono di modello sconosciuto. Il campanile di Huesca spicca contro le montagne della Sierra Guara, parallela ai Pirenei. Due immensi torrioni di roccia rossa sembrano l’ingresso dell’inferno. A sinistra Almudebar tra le fiamme del tramonto. Pace della campagna che comincia a farsi meno nemica. Orizzonte rosa, viola, livido. E il bombardamento non viene. Finalmente arriva con tre bombe. Due non scoppiano. La terza scoppia, ma pochi hanno potuto rendersi conto del modo col quale va messo l’innesto.
Domattina all’alba andremo in linea, o meglio ci faremo la linea.
La stalla di Vicien sembra una reggia in confronto della sassaia dove andremo a collocarci. Amen.
22 agosto.
Siamo arrivati. Il caldo è terribile. Non v’è un albero, un ciuffo d’erba. Il sole a picco schianta anche i più resistenti. Non ho mai provata un’impressione simile. Mi sembra che non solo i piedi ma anche le scarpe brucino. E la nausea complica le cose. Tuttavia ci preoccupiamo del servizio. Organizzazione della posizione e rifornimenti. La richiesta d’acqua si fa accanita e non c’è un filo d’acqua nei dintorni né una casa con pozzo. Solo verso le due arrivano i muli coi rifornimenti. L’acqua è calda e sporca, ma chi se ne preoccupa? Il rancio è abbondante ma a base di montone. Pochi riescono a mangiare. Un vino grosso di venti gradi mi libera dalla nausea, ma dopo pochi minuti ho non solo i piedi ma anche la testa in fiamme. Eppure non ho bevuto che pochi sorsi. Le discussioni si accendono tra i militi e dobbiamo intervenire e sorvegliare il vino.
(Un reparto può essere formato di dei. Ma gli dei in un reparto tornano bambini).
Cominciamo a scavare, a fissar guardie, a tagliare la strada. L’ordine è di guardarsi da un’incursione proveniente da Huesca.
Davanti a noi, sulla nostra sinistra, dovrebbero trovarsi 300 spagnoli. Ma per ora non ne vediamo la traccia.
Notte dal 22 al 23 agosto.
La notte è scesa veloce. Dopo il gran fuoco del giorno l’aria ha un che di morbido e di palpabile. Una brezza lieve soffia da occidente sull’oceano di terra umida, carezzando il viso e asciugando il corpo affranto.
Immensamente lunga ci è sembrata questa prima giornata vissuta tra terra e sole: giornata - barriera verso il nostro passato. Siamo soli, in cento su una piega dell’altipiano, stretti da una solidarietà necessaria e totale. Il bene che voglio ai compagni diventa istintivo, quasi fisico. Essi sono tutta l’umanità. Lungo la trincea, attorno alle improvvisate cuccie circolano ombre; e il timido sussurrìo delle ultime conversazioni rispettose della notte è commovente. Ogni tanto una, due ombre filano contro il cielo e le montagne, personaggi strani del mondo notturno.
La profondità densa del cielo rende straordinariamente luminose le stelle. Migliaia, milioni di stelle intrecciate in costellazioni capricciose per i nostri occhi ignoranti. Fissandole, il ritmo della loro luce sembra un respiro. Miseria notturna della terra in cospetto a questa ricchezza inesplorata del cielo.
Ma ecco che a levante si scoprono delle luci, tre grandi luci geometricamente allineate. Huesca. A occidente, altre luci corrispondono in direzione di Almudebar. E tra quelle luci si inizia uno strano linguaggio di segnali. Sono i nemici assediati che corrispondono. Una nuova luce si accende improvvisa nella pianura sottostante, nella nostra zona. Un’altra ancora, più lontana, fa pensare a un faro fisso. Entrano entrambe nel colloquio notturno, luci spie, luci traditrici, che raccontano quello che hanno veduto durante il giorno lungo le strade polverose, nei villaggi sporchi e congestionati, e quello che hanno ascoltato dalla ingenua confidenza dei miliziani o attraverso il filo dei rari telefoni.
La conversazione si complica, si allarga. Una, due, tre stelle filanti tagliano veloci il cielo con una semplicità sicura ed elegante. A destra delle luci di Almudebar si accende una piccola costellazione tremolante e ci rivela un villaggio. Più lontano un’altra costellazione, un altro villaggio. È come una musica di luci col tema fisso delle segnalazioni e l’accompagnamento ritmico delle costellazioni.
Al chiarore di una lampadina cerco sulla carta Michelin — l’unica esistente — il nome. Non c’è dubbio. La prima costellazione è Alcalà de Gurrea. Ma la seconda? Sulla carta non sono segnati nelle vicinanze altri paesi. Evidentemente non interessano nonostante il nome grandiloquente. Eppure nella notte sono questi paesi che ci ricollegano alla vita del nostro mondo abituale, luci multicolori di Parigi, Marsiglia, Barcellona, confusione di réclames e torrenti di vetture sui boulevards e i Campi Elisi. Ci vuole un certo sforzo per ricordarsi la guerra. Dov’è la guerra? Solo il grido insistente e triste delle civette rompe il silenzio.
Ora la brezza si è trasformata in vento forte, violento, che arriva a ondate trasportando un carico vario di detriti che disturba gli occhi.
Sulla cresta si sta a mala pena in piedi e si ha quasi freddo.
Muoviamoci dunque per la prima ronda alle sentinelle.
— Salute, compagno. Come va la guardia?
— Va bene. Hai visto quei lumi laggiù?
— Sì. Probabilmente sono segnali. Domani ci informeremo, manderemo magari una pattuglia.
Alle raccomandazioni di buona guardia, risponde un sorriso franco, giovane. Qualche scambio di impressioni, qualche ricordo ancora, e poi la ronda continua.
— Ohè! Chi è? Ho urtato un corpo avvolto nella coperta.
— Niente, sono io, Perrone. Come va la mitragliatrice? A posto?
— A posto.
Il capo mitraglia si avvicina.
— Senti un rumore? Mi sembra un motore.
Scrutiamo insieme la notte.
— Non ti sembra di vedere delle luci di camions?
— Già, sembra. Forse sono camions che vanno da Almudebar a Huesca. Rinforzi di Saragozza.
— Buona notte.
— Buona notte.
Conversazioni ellittiche in cui il giuoco della voce è tutto.
La ronda è finita. Sotto la cresta su cui corre la trincea c’è uno spiazzato breve. Là mi stendo vicino ad alcuni compagni. E dormo fino alla prossima ronda.
(Fronte d’Huesca) 23-26 agosto.
Giornate di organizzazione e di lavoro duro. Dobbiamo guardarci su tre fronti e non abbiamo collegamenti. Temo un attacco di sorpresa dai valloni tortuosi che salgono da Almudebar. E per l’appunto in quella direzione il nostro fronte è più sguarnito. Angeloni che comanda la compagnia mitragliatrice, vuole tenersi alla consegna, che è di sbarrare la strada. Io, che comando la compagnia fucilieri, non sono convinto e chiedo uno spostamento delle mitragliatrici. Alla fine ottengo che una delle mitragliatrici si porti sul nostro fronte.
Non è facile tenere i compagni sulla posizione durante il giorno. La lontananza del nemico e la scarsità d’acqua inducono all’esplorazione dei dintorni. Chi va per recipienti e mezzi di trasporto, chi per semplice spirito d’avventura. Senza contare il lago.
Il terreno e il sole comandano la guerra. Da quanto ho potuto capire nelle conversazioni avute con militi spagnoli, la guerra qui si fa fino alle nove del mattino; solo in casi straordinari sino alle dieci. Dopo, il caldo e l’arsura impediscono ogni combattimento. Sacre poi sono, da una parte e dall’altra, le ore della comida, del pasto. Quando c’è battaglia, il combattimento, sospeso per la comida, riprende verso le quattro del pomeriggio e si svolge quasi sempre intorno alle cascine e alle rare ville o ai ciuffi d’alberi. La fortificazione è ignota. Quando la pressione nemica è troppo forte si abbandona la posizione, salvo riattaccarla al momento opportuno.
Ma la posizione che ci è affidata — l’unica del settore senza una casa, un albero, un rifugio ombroso — non si può abbandonare, senza scoprire alle spalle le colonne che investono Huesca. Perciò prolunghiamo la trincea, la prima di tutto il fronte.
27 agosto.
Siamo partiti all’alba per la terza esplorazione, appunto verso Almudebar. Angeloni con una pattuglia esplora i valloni sulla sinistra della strada; io con un’altra esploro il terreno alberato sulla destra.
Per quattro lunghi chilometri nulla e nessuno. Vigneti e mandorleti cintati, casupole abbandonate. In vista di Almudebar l’altra pattuglia ci raggiunge. Le rovine ciclopiche di un castello dominano il mazzo delle casupole. Tutto il fianco destro del paese è di case trogloditiche ritagliate nella collina. Nella piana antistante si scorge il nemico e la sua rete di piccoli posti appoggiati a una collinetta conica fortificata. Vediamo delle artiglierie. Nonostante fossimo nascosti in una cava di pietre, il nemico ci ha avvistati. L’allarme è evidente. Un gruppo di soldati corre verso il villaggio, un altro esce verso la strada. Ma non spariamo. È inutile. Completati i rilievi, sempre con l’occhio alla strada di dove potrebbe venire un’incursione avvolgente, ci ritiriamo.
È difficile prendere sul serio questa guerra.
Note
- ↑ Questo diario fu ritrovato, interrotto, tra le carte di Carlo Rosselli, che stava redigendolo su ricordi al momento della sua partenza per Bagnoles de l’Orne, dove venne assassinato. Si riferisce ai primissimi momenti della sua permanenza in Spagna.
Dal libro «Oggi in Spagna, domani in Italia». (Barcellona) 12 agosto 1936