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per non marciare al passo. Non vogliono essere confusi coi militari, loro. Si canta, si drizza il pugno. La gioia dei partenti è visibile come il corruccio dei restanti.

Evidentemente questo non è un esercito, o non è ancora un esercito. È popolo che parte per una dimostrazione armata, per portare la rivoluzione a Saragozza, senza esperienza, senza tecnici, senza artiglieria, senza mitraglie. Una, due, tre, dieci, venti colonne. Se la Francia ufficiale non si fosse autolesionata con la dichiarazione di non-intervento delle armi, Franco sarebbe già liquidato. Invece sarà un’impresa lunga. Quanto? Un mese, pensano i miei compagni ottimisti.

Miracolo di Pedralbes. Sotto il caos comincia a spuntare un ordine nuovo. I servizi della caserma funzionano. Funzionano le cucine. Non ci sono liti, non incidenti. Si crea la routine senza trombe e ufficiali di giornata.

Dalle finestre si abbraccia la metropoli, il cerchio delle colline, gli alberi e i fiori preziosi del parco reale, il mare, dominato dal Montjuich che solo per associazione di ricordi è fosco.

Pedralbes, strano e dolce nome per una caserma. Qui la rivoluzione si sente meglio che a Barcellona, dove il vecchio mondo moribondo coesiste tuttavia col nuovo. La città sta sospesa come tra due tempi e se le signore hanno soppresso il cappello e i borghesi il colletto e la cravatta, naturalmente si riconoscono. Umanità rivelatrice dei drappi bianchi ap-


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