Scritti (Serra)/Notizia sugli scritti di Renato Serra
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N O T I Z I A
SUGLI SCRITTI DI RENATO SERRA
secondo la presente edizione
a cura di ALFREDO GRILLI
1909.
GIOVANNI PASCOLI.
(Vol. I, pagg. 1-47).
Questo saggio fu pubblicato la prima volta ne La Romagna, rivista mensile di storia e di lettere, diretta dal prof. Gaetano Gasperoni, che nel 1909 si stampava a Forlì nello Stabilimento tipografico romagnolo. Poichè lo studio era piuttosto lungo per una rassegna mensile, quindici pagine (65-79) comparvero, come articolo di fondo, nel fascicolo II, serie III dell’anno VI (febbraio 1909), e venti allo stesso modo (121-142) nel fascicolo seguente (marzo 1909).
La prima notizia del lavoro presente si trova nella lettera del dicembre 1908 a Luigi Ambrosini, dotto e carissimo amico di Renato Serra. «Dovrò fare una serie, dice Gasperoni, di medaglioni romagnoli: Panzini, Pascoli, per i quali ho piena libertà. Farò forse Albertazzi. Non molto di più; perchè se no si seccano e non me lo stampano» (Cfr. Epistolario di R. Serra, Le Monnier, pag. 230). Riscrivendone, nel gennaio del ’09 allo stesso amico, precisa il suo pensiero sull’argomento: «Anche quel che vedrai di Pascoli non sarà altro: problema tecnico, sciolto per mia soddisfazione, e buttato giù alla meglio per empir le pagine che mancano a quella povera Romagna. Articoli veri e propri non ne farò, se non uno: quello di Panzini. E dato poi che Gasperoni si prenda la cura di scrivergli e di fornirmene i materiali. E se no, non importa» (Ep., 238). Il 6 febbraio dell’anno suddetto comunica all’Ambrosini che lavora intorno all’argomento già annunziato: «Ora son dietro, — anzi ho già fatto ma mi tocca di farne due puntate, squarciando e mutando, — son dietro a Pascoli. Sarà una cosa arida e fastidiosa; ma non volgare. Mi è mancato il tempo di cavar fuori lo studio. Ma per la Rom. è anche troppo» (Ep., 243).
Il discorso sul Pascoli continua ancora in una lettera della Pasqua 1909, scritta a Plinio Carli, che al Cesenate era stato compagno carissimo nel 1907-08, anno di Perfezionamento all’Istituto di studi superiori di Firenze: «Te ne manderò [della Romagna, «la quale accenna a diventare un po’ meno clandestina»] fra qualche giorno due fascicoli in cui è uno studio mio sul Pascoli e varie altre cosette; della prima puntata m’hanno scritto parecchi, fra gli altri Prezzolini (quello della Voce) da Firenze, con parole e profferte in vero troppo grandi, ma con una simpatia che m’ha fatto piacere» (Ep., 259-60).
Siccome poi La Romagna era spesso nelle sue pubblicazioni arretrata e, qualche volta, di parecchio, così il Serra non possedeva altro in aprile che il fascicolo del febbraio 1909, come si rileva dalla promessa che fa al Carli, e soprattutto dalla lettera del 6 aprile all’Ambrosini: «Quanto a me, io ti ringrazio molto del buon viso che hai fatto al mio P.; poichè vedo che ti fa piacere, ti manderò le bozze della 2ª parte e vedremo di farne qualche cosa meno indegna delle tue accoglienze. Forse forse, anch’io comincio a prenderci gusto. Ma non è questo il lavoro in cui io mi possa sfogare a pieno» (Ep., 268).
Intanto all’Ambrosini stesso, che lo sollecitava da Firenze, il 28 aprile rispondeva il Serra in un poscritto: «Pubblicare sulla Voce qualche cosa del mio Pasc.? Non solo non mi dispiacerebbe, ma l’avrei caro. Tuttavia, non credo che nella 2ª puntata ci sien pagine che si possano staccare sì da render piena la misura del mio lavoro. Io sono prolisso, ondeggiante, timido e disuguale un poco per abito naturale, un poco, in quelle pagine, per la forza delle circostanze. Mi dispiacerebbe che il giornale ci facesse una figura poco bella: le presentazioni di gente nuova son sempre un poco come il parto della montagna....» (Ep., 272).
Ma ne La Voce, che lo sappia, nessun brano dello studio pascoliano comparve, (di esso il Serra doveva aver fatto, terminata la pubblicazione su La Romagna, anche un «estratto», come pare debbasi intendere dal poscritto della lettera del 1° settembre 1910 all’Ambrosini: «Non t’è mica rimasta quella copia del mio Pascoli che ti spedii? Io non ne ho altre»). Invece nella lettera suddetta all’Ambrosini si comincia a far parola del volume che doveva pubblicare La Voce: «Prezzolini (che migliora a occhio) mi chiede un volumetto per una sua serie: ristampa di Beltramelli, Pascoli, Machiavelli; più una cosa inedita: 200 lire. — Quanto mi farebbero bene! Ma mi secca tornar fuori con quella roba oramai vecchia non è elegante, è contro tutti i miei istinti. Ma ho una gran paura che finirò accettando. Gli ho scritto che aspetto il tuo consiglio: mandamene» (Ep., 335).
Nello stesso tempo, con lettera del 2 settembre 1910, domandava in proposito consiglio anche al prof. Emilio Lovarini, suo stimatissimo e amato insegnante d’italiano nel Liceo di Cesena: «Mi si offre di ristampare, per una collezione fiorentina, quelle mie note su Beltramelli, Pascoli e qualche altra; se vi unissi il Panzini, e terminassi l’Albertazzi che ho abbozzato? A Lei che ne sembra?» (Ep., 337).
E finì proprio accettando l’offerta del Prezzolini. Onde il Giovanni Pascoli fu il primo studio dei quattro compresi nel Quaderno sesto della Voce, dicembre 1910, Firenze; e il primo del volume I delle Opere di R. S., ristampate dalla Soc. An. Ed. La Voce, in Roma 1919, del quale furono tirate copie venticinque su carta distinta numerate, al prezzo di lire 8 ciascuna.
La prima stesura dello studio ne La Romagna si differenzia notevolmente dalla ristampa, riveduta dall’autore, del Quaderno sesto della Voce: periodi modificati, aggiunti, tolti; note soppresse, espressioni attenuate; non tali però da cambiare il pensiero fondamentale del critico. Il saggio fu quindi riprodotto dal Quaderno della Voce nel primo volume delle Opere di R. S. edizione suddetta curata dal Prezzolini, come afferma una Nota bibliografica in fondo al libro, e tale quale si ristampa oggi per la terza volta nel volume primo della presente edizione Le Monnier.
1909.
ANTONIO BELTRAMELLI.
(Vol. I. pagg. 49-69).
Con questo studio su Antonio Beltramelli, e dopo poche righe del direttore prof. Gasperoni, dal titolo «La Romagna» ai suoi lettori, in cui velatamente e sotto voce si accennava alla ottenuta collaborazione di Renato Serra («a noi vennero, desiderosi di portare il loro contributo d’ingegno e di dottrina, giovani che aprirono anch’essi il cuore ad una lieta speranza.... Studî di argomento storico, letterario e artistico inoltre renderanno più vario, dilettevole utile il periodico»), si apriva il nuovo anno della rivista La Romagna (a. VI, serie III, fasc. I, gennaio 1909, pp. 5-20).
Questo scritto serriano precede dunque, almeno nella stampa, quello su Giovanni Pascoli, e si ha notizia di lui nella stessa lettera del dicembre 1908 a Luigi Ambrosini: «Vedrai nel Genn. della Romagna uno studio mio su Beltramelli, finito (messo insieme: non finito) quasi negli ultimi giorni: e un gruppo di recensioni R. S. Roba da Romagna: anche due righe su Ringhi Tinghi. Mia la pagina sulla canzone del Carroccio. Tutto quest’anno seguiterò a gittare in quelle pagine articoli e recensioni, tanto per avere un mucchio di estratti da presentare nell’autunno, quando si metterà a concorso l’italiano per la scuola normale» (Ep., 229-30). (Quantunque a noi non ne sia rimasta copia, ad eccezione dello scritto sul Panzini, è dunque evidente che anche di questo studio, come di quello sul Pascoli, il Serra dovette ordinare un certo numero di estratti).
Il Serra riparla poi all’Ambrosini, nella lettera del 6 febbraio 1909, del suo lavoro beltramelliano: «Non t’ho mandato la Rom. con Ringhi-T. perchè n’è restato fuori, con altre cosette già impaginate. Se ti capita, da’ un’occhiata a un Beltramelli; un po’ secco, ma come tecnica-critica non mi dispiace» (Ep., 243). Un ultimo accenno è nelle lettere già citate (Ep., 335 e 337) all’Ambrosini (1⁰ settembre 1910) e al Lovarini (2 settembre 1910), quando scrive loro, domandando consiglio intorno al volumetto da pubblicare per invito di Prezzolini nei Quaderni della Voce; nel quale, in un primo tempo, egli pensava di includere gli scritti sul Machiavelli (di cui si parlerà per il secondo volume di questa edizione), sul Panzini, e magari un ritratto di Albertazzi, più «una nota sulla Romagna letteraria in genere, che sarebbe l’inedito, oltre appendici e pentimenti vari, da aggiungere sulle bozze» (Ep., 336). Sappiamo poi che il volumetto riuscì composto ben altrimenti. Tuttavia lo studio beltramelliano fu il secondo nel Quaderno degli Scritti critici e il secondo nel volume primo delle Opere di R. S. per cura del Prezzolini, come il secondo rimane nella presente nostra edizione.
Anche qui si riscontrano differenze tra l’originale de La Romagna e la ristampa del Quaderno e le altre due che da questo discendono. Periodi tolti o modificati, espressioni attenuate, come, press’a poco, nello scritto precedente intorno al Pascoli: effetti della revisione nuova per la edizione in volume.
1910.
PER UN CATALOGO.
(Vol. I, pagg. 71-99).
Dello scritto Per un catalogo le ultime nove pagine del sesto Quaderno della Voce — eccetto quindici righe della fine — , furono stampate col titolo Carducci e Croce nella prima facciata de La Voce giornale, del 22 dicembre 1910 (a. II, n. 54). Le presentava con una breve nota anonima, supponiamo, il Prezzolini; il quale, alludendo alla cosiddetta «Polemica carducciana» che si svolgeva allora su parecchi periodici con la partecipazione di scrittori di varie tendenze, scriveva, tra l’altro: «Dunque entriamo anche noi nella contesa? Nemmen per sogno. Se pubblichiamo questo scritto di Renato Serra, che risale al settembre, è per dare un saggio del sesto dei Quaderni della Voce in corso di stampa».
Di questo studio, che per il Serra significava la fatica e il pensiero di parecchi mesi, e doveva rappresentare la parte inedita del Quaderno (e per le prime diciotto pagine infatti la rappresentò), si hanno frequenti accenni nell’Epistolario. Il Serra ne scrive, il 1° settembre 1910, a Luigi Ambrosini, che preparava una rivista di letteratura — «letteratura di umanisti o meglio di dilettanti», come commentava Serra al Croce (Ep., 331) — per l’editore Bocca di Torino, proponendogli per parte sua, tra l’altro, anche uno scritto su «Scrittori d’Italia, Croce e Carducci, e il nostro punto di partenza: venti cartelle scritte (a pezzi e frammenti), il resto apparecchiato nella mente» (Ep., 334). E così ne fa cenno, per quanto fuggevole, nella lettera del 3 settembre (Ep., 337), e molto più distesamente in quella del 10 settembre, sempre indirizzate all’Ambrosini.
Il 1° novembre 1910, essendo già la rivista di Ambrosini «andata in fumo», Serra scrive del saggio su ricordato a Benedetto Croce, al quale pare che l’Ambrosini stesso avesse già inviato il manoscritto serriano (Ep., 347), e lo ringrazia dell’offerta per la stampa presso Laterza forse di questo e di altri scritti, per quanto gli riesca impossibile approfittarne.
Intanto si pubblica ne La Voce il saggio, di cui abbiamo parlato, e subito Serra, nello stesso 22 dicembre in cui esce il giornale fiorentino, sente il bisogno di rivolgersi al Croce, come se temesse che qualche cosa potesse dispiacere al maestro napoletano, poichè egli nello scrivere aveva cercato di solo rendere quel che sentiva, senza por mente mai all’effetto o alla risonanza di nessuna parola (Ep., 347): «Mi son visto sulla Voce d’oggi stampato, con un senso un po’ strano. Certo qualche cosa manca là dentro. L’espressione chiara della mia reverenza e affezione per Lei. Ma non mi dispiace di averla tolta al pascolo del pubblico. Così a me resta più grata; e quanto a Lei, spero di potergliela mostrare meglio che con un articolo» (Ep., 352).
Nella prima quindicina del gennaio 1911, il Croce, in una nota dal titolo: «Il Carducci come maestro», comparsa prima ne La Tribuna di Roma, poi ne La Critica, e quindi nel volume Pagine sparse, lodava «le belle pagine di Renato Serra sul Carducci» e le commentava benevolmente con quattro brevissime postille. E il Serra il 15 gennaio 1911 (Ep., 354-55) ringrazia il Croce delle sue parole, ne accetta le osservazioni e spiega il suo pensiero, fino ad annunziare le Retractationes che seguono, nel Quaderno sesto della Foce e nel primo volume della ristampa delle Opere per cura di Prezzolini, il saggio Per un catalogo: «Quelle poche righe che Ella vedrà forse nel quaderno sotto il titolo di retractatio mostrano solo il punto a cui io volevo riuscire» (Ep., 355).
Il 26 febbraio 1911 riscrive al Croce sulle retractationes: «Quelle poche righe di retractationes mi uscirono di mano mentre ero impedito dall’influenza; e badai solo a non mandar confuse le mie parole con le chiacchiere di certa gente. Se avessi voluto tornar sopra all’ultimo articolo, e dire tutto quello che mi poteva occorrere, anche su un punto solo, su gli scrittori d’Italia, com’erano usciti frattanto, avrei dovuto scrivere troppo. E forse era inutile» (Ep., 368).
Poi di tutto il volume degli Scritti critici, ma specialmente de «l’ultimo scritto, che forse è la cosa meno cattiva», ed «esprime molto imperfettamente il mio animo», parla a lungo a Emilio Lovarini, in una lettera bella e degna di ogni attenzione del 2 marzo 1911, nella quale riprende a chiarire le ragioni del suo atteggiamento, tenendo conto solo di un termine di paragone: Croce-Carducci (Ep., 373).
Sulla copertina del Quaderno sesto il titolo dello studio era Carducci e Croce, e nell’interno e nell’indice Per un catalogo; nella ristampa delle Opere di R. S. per cura del Prezzolini, così nella copertina come nell’interno e nell’indice, erano compresi tutti e due: «Per un catalogo (Carducci e Croce)». Nella nostra edizione si riprende il solo titolo Per un catalogo. Le Retractationes, che nelle due prime edizioni, con titolo ad occhietto e a pagina bianca, formavano un nuovo articolo in corsivo, nella presente edizione seguono subito il testo di Per un catalogo, in carattere tondo più piccolo del testo stesso.
Con questo quarto scritto delle Retractationes si compiva il sesto Quaderno della Voce, che procurò la prima reputazione letteraria a Renato, e del quale peraltro non si hanno grandi echi nell’Epistolario, eccetto che per parte del Croce, Lovarini, Lesca, Ambrosini, e forse di nessun altro. Ma veramente sembra che Serra stesso non si curasse troppo di diffondere il libro e che se ne parlasse, come scriveva a Luigi Ambrosini il 18 febbraio 1911; mentre d’altra parte egli poi era il primo a riconoscerne l’eccellenza: «Non mi curo che se ne parli molto. Lasciamo stare il mio animo come sia disposto ora. Ma quel libretto vale più di tutto per me: ci sono certe pagine e certi movimenti di stile che mi consolano, e mi dànno cuore a scrivere ancora per passar tempo e sfogare l’animo. Il resto importa poco. Non lo manderò quasi a nessuno, fuor che per ricordo» (Ep., 365-66).
1910.
ALFREDO PANZINI.
(Vol. I, pagg. 101-147).
Poichè il Serra, in un primo tempo, aveva manifestato l’idea di voler raccogliere, con gli altri studi del volume vociano degli Scritti critici, anche le pagine sul Panzini; così tale nome risuona spesso nell’Epistolario insieme con quelli di Pascoli, Beltramelli, Albertazzi, Machiavelli, e, in un altro senso, con quelli ancora di Gasperoni, Ambrosini, Grilli, Carli, Croce, Prezzolini, Lovarini, ai quali Renato o domandava consiglio o, in certo modo, incitamento al lavoro.
Ma il primo esplicito accenno allo scritto panziniano è del 26 luglio 1909, quando mi scriveva: «Sto preparando un articolo su Panzini e tre recensioni letterarie alquanto ampie: fatta ragione della calura e dell’ozio che n’è consigliato, spero prima della fine del mese di averli inviati dallo stampatore: se vi convengono» (Ep., 283).
Ma passa quasi un anno senza che altro se ne sappia. Finchè il 7 giugno 1910 mi giungeva una nuova assicurazione da parte del Serra: «Alla Romagna manderò il Panzini compiuto, che sarà lungo: altre 20-25 cartelle dopo quelle che son già in tipografia (farò qualche taglio, per altro) e due recensioni» (Ep., 323). E scrive all’Ambrosini di essersi dovuto rimettere intorno al Panzini dal 14 giugno (Ep., 325); e assicurava il Croce (2 agosto 1910), il quale forse gli ricordava la promessa fattagli di uno studio sulla Cultura romagnola e bolognese, che «quell’articolo stampato ultimamente sulla Romagna era stato incominciato in dicembre dell’anno scorso; e s’è trascinato sul mio tavolino per molti mesi prima che mi bastasse il tempo e l’animo di finirlo; e già non l’avrei finito se non per compiacere quegli amici che mi richiedevano» (Ep., 330-31).
In breve, l’articolo con firma Renato Serra, fu stampato ne La Romagna (a. VII, serie III, fasc. 5-6, maggio-giugno 1910), e comprendeva le prime trentasei pagine del numero doppio (pp. 177-212). Dello stesso studio che, secondo la lettera del 10 settembre 1910 all’Ambrosini, pareva forse al Serra che non fosse apprezzato abbastanza, se Panzini non gli aveva scritto nulla, e neanche altri, e il Trovanelli cesenate, amico ed estimatore del Serra, l’aveva trovato «un po’ disordinato» dello stesso studio fu fatto un estratto di quaranta pagine, con copertina e frontespizio interno; opuscolo che, come si rileva dall’Epistolario, fu distribuito a molti; per esempio, a Plinio Carli, all’Ambrosini, al Borgese, al Bignone. Tale saggio comparve poi nel volume secondo delle Opere di R. S., a cura di Giuseppe Prezzolini (Roma-Firenze, 1919-1923).
1911.
SEVERINO FERRARI.
(Vol. I, pagg. 149-178).
Severino! Ecco un grande affetto di Renato Serra, e, del resto, di quanti, attorno al 1900 e poco dopo, furono studenti dell’Ateneo bolognese. «Chi parla degli scolari di Carducci, incontra questo nome». E però nell’Epistolario del Serra, il quale è stato amorevole illustratore e studioso attento e sagace del Maestro e della sua scuola, il nome del Ferrari ricorre assai presto e ripetute volte.
Renato Serra si era proposto di scrivere sul Ferrari già nell’estate del 1910 (Ep., 323); e, come nel giugno ne aveva parlato a me, promettendomi lo studio per La Romagna, così nel settembre dello stesso anno ne scrive all’Ambrosini, riserbandosi, per la rivista in progetto presso il Bocca di Torino, tra gli altri, il seguente argomento: «Severino Ferrari — 1: figurina. 2: un capitolo della mia storia spirituale (abbozzato; una cosa. leggera, aneddotica, senza conchiusione....») (Ep., 335). Il 10 settembre riprende il discorso con l’Ambrosini (Ep., 340), ne fa cenno col Lovarini nell’ottobre (Ep., 343), ancora con l’Ambrosini nei primi mesi del 1911 (Ep., 360); finchè ne scrive apertamente al Croce il 28 febbraio 1911: «Ho composto uno scritto che avevo preparato fin dall’anno scorso intorno a Severino Ferrari. In fine ho detto qualche cosa, in una nota, di alcuni scritti intorno a lui. Ma non mi riesce di ricordarmi se anche il Pascoli abbia fatto un discorso, che sarebbe. stato stampato sul Carlino; mi par certo e vorrei esser sicuro» (Ep., 370). Chiedeva quindi informazione alle note bibliografiche del Croce.
Nello stesso giorno scriveva a me di aver compiuto quel suo «vecchio e caro Severino», e di volerlo mandare a La Romagna, «più quieta, e dove ho ricordi cari», nonostante che Prezzolini glie lo avesse chiesto già per La Voce. «Lo scritto è di circa 35 cartelle piccole, ma alquanto fitte: non so quante pagine possano fare. Forse 18-20. Per la Voce mi toccherebbe tagliare» (Ep., 370-71). Voleva sbrigarsene presto, perchè era cosa che si trascinava dietro da assai tempo, e però il manoscritto fu spedito direttamente alla Coop. Tip. Galeati d’Imola, dove allora si stampava la rivista (Ep., 376), senza passare per la direzione; chè c’era ben ragione di fidarsi del Serra.
Invece alla lettura delle bozze ci fu qualche cosa da ridire, cioè qualche osservazione da fare da parte del direttore prof. G. Gasperoni. Come abbiamo riferito, il Serra scriveva al Croce di aver detto in fine dell’articolo, in una nota, qualche cosa di alcuni scritti intorno al Ferrari. Questo «qualche cosa», se ben ricordiamo, era di sapore un po’ acerbo, specialmente nei riguardi del Pascoli, che il Serra non aveva più tanto, almeno allora, nella sua buona reputazione; e ciò rilevasi chiaramente da una lettera del 20 maggio diretta a me, che gli domandavo una recensione non so più per qual libro pascoliano che doveva essere uscito da poco: «Non ti mando la recensione del Pascoli: mi pare che il silenzio sia quasi un obbligo, oggi, di rispetto e di gratitudine al passato di un uomo, che ha pur fatto cose veramente belle. Ma io non saprei non esser sincero, se dovessi parlare di questi vaneggiamenti di una vecchiaia ambiziosa e querula» (Ep., 383).
E certo il Serra era troppo severo; come tale parve anche al Gasperoni, quando gli scrisse di modificare o attenuare la nota bibliografica in calce allo studio sul Ferrari. E il Serra, sempre nella lettera del 20 maggio a me diretta, rispondeva al Gasperoni per il tramite mio: «Rispondo ora a te per brevità. Rimando le bozze corrette; nella prima revisione troppe cose m’erano sfuggite, e anche ora forse restano. Ma non ho tempo nè molta voglia per badare alle minuzie di uno scritto vecchio; mi toccherebbe, se cominciassi, ritoccare e rifare ogni cosa. Riconosco la opportunità delle osservazioni di Gasperoni, intorno alla nota finale; avrei pensato di toglierla dalla Rivista, lasciandola, se è possibile, nell’estratto» (Ep., 383).
Infatti, nella rivista, dopo le parole «il Pascoli d’allora....», seguono puntini, e di qui comincia la parte levata. Non abbiamo sotto mano l’estratto, ma è da ritenere che anche in quello si mantenesse la sospensione, che si ritrova tuttavia nelle ristampe posteriori. Lo studio, firmato Renato Serra, mentre il N. B. della bibliografia, in carattere più piccolo, aveva solo le iniziali R. S., comprendeva ne La Romagna (a. VIII, serie IV, fasc. 2-3, marzo-aprile 1911) pagine ventidue (pp. 77-98). Fu riprodotto nel volume secondo delle Opere di R. S., curate dal Prezzolini (Roma-Firenze, 1919-1923).
Ancora due volte, se abbiamo guardato bene, si fa menzione del Ferrari nell’Epistolario serriano. La prima, il 16 giugno 1911, quando il Serra scrive al Prezzolini: «Ti mando qualche copia del mio Severino, uscito solo oggi. Ne ho fatto tirar poche, perchè venderne non mi garbava» (Ep., 393). Lo studio usciva dunque in estratto con molto ritardo, come in ritardo doveva essere comparso nella rivista, la quale per tante ragioni non era mai puntuale, per quanto portasse la data dei mesi di marzo-aprile. La seconda ed ultima volta, che si fa cenno del Ferrari, è nella risposta ad una lettera di Ambrosini del 19 giugno, in cui Serra scriveva: «Quanti Severini potrei fare, se volessi! Io non sono contento di niente in quel bozzetto, fuor che della pazienza con cui fu scritto, nascondendo l’affezione e raggiungendo, mi pare, una certa somiglianza. A ogni modo, ringrazio te della lettura amica» (Ep., 397).
1911.
«LA FATTURA».
Episodio di uno studio intorno a Gabriele D’Annunzio.
(Vol. I, pagg. 179-201).
Il nome e l’opera di Gabriele D’Annunzio sono, com’è naturale, frequentemente citati nell’Epistolario serriano. Ma un accenno vero e proprio all’argomento dello studio presente si ha solo nella lettera del 15 giugno 1910 all’Ambrosini, quando gli parla degli spunti o marginalia che potevano prepararsi per la progettata rivista presso il Bocca: tra cui questo: «III. A proposito di realize e di classicità: come il D’A. ha scritto la novella di Calandrino e del Porco. Qual’era l’interesse del Boccaccio e in che forme stilistiche si esprimeva....» (Ep., 325-26).
Questi marginali dovevano esaminare l’opera del D’Annunzio sotto diversi aspetti, in confronto con letterati nostri e stranieri, antichi e moderni: «Se ne potrebbe fare una serie: di marginalia e alla fine D’Ann. si troverebbe circoscritto» (Ep., 325). Di tale possibilità di «circoscrivere» D’Annunzio, di tale «disegno di circumizione dannunz.», si fa cenno altre volte nell’Epistolario, e Serra assicura l’amico «che alla fine ne resta fuori poco, del nostro uomo» (Ep., 329). Quale poi fosse in sintesi il concetto serriano sul D’Annunzio, lo troverete esposto all’Ambrosini nella lettera del 10 settembre 1910: «Il principio mio, e credo anche il tuo, è questo; che in D’Annunzio è una gran felicità di eloquio, dalla natura: e potenza di esprimere nella parola tutto quello che alla parola, come per sè stante e sonante, si può chiedere. Ma l’animo è vano e piccino, quando egli si sta a sentire...» (Ep., 338).
Fallita l’idea della rivista torinese, i marginali rimasero spersi e interrotti, spesso come assaggi e come appunti. Ecco perchè il Serra, pubblicando ne La Voce del Prezzolini (a. III, n. 14, 6 aprile 1911), lo studio su La Fattura, lo presentava nel sottotitolo come un «episodio di uno studio intorno a G. D’A.». Episodio che restò tale, e a cui si riferiva quasi certamente il Serra il 12 luglio 1910, scrivendo all’Ambrosini: «Ti mando, com’è caduto dalla penna nel primo incorso, il primo Marginale. Ci sarà molto da togliere, da pulire. Ma tutt’insieme non mi pare una cosa cattiva. O il calore dello scrivere mi toglie lume, o, Dio mi perdoni, non c’è molta gente oggi intorno, capace di buttar giù così d’un fiato venti pagine di critica, che valgano meglio di queste; per chi se ne intende» (Ep., 328).
L’ultimo accenno allo studio in parola è del 5 aprile 1911, in una lettera al solito amico: «Domani vedrai sulla V. la mia Fattura, che non ho potuto correggere. Ma con pochi ritocchi (e qualche uncino per altri episodi) può riuscir bene» (Ep., 381-82).
La Fattura, per una strana dimenticanza, non fu compresa nell’edizione delle Opere di R. S. curata dal Prezzolini (Roma-Firenze, 1919-1923).
1914.
RINGRAZIAMENTO
A UNA BALLATA DI PAUL FORT.
(Vol. I, pagg. 203-236).
A proposito di Paul Fort, c’è una pagina serriana nella lunga lettera del 7 aprile 1914 a Giuseppe De Robertis, la quale è non solo magnifica, ma direi capitale, e merita di essere ricordata, prima di accingersi alla lettura del Ringraziamento; quella che comincia: «Ecco, io vorrei fare della critica come in un saggio che buttai giù l’altra mattina su una ballata di Paul Fort — era tanto che aspettavo di rileggerla» (Ep., 491-92). Non la riportiamo qui, perchè al caso nostro sarebbe troppo lunga; ma chi voglia conoscere Serra e la sua critica e la sua arte luminosa e profonda, non può dimenticarla; se ami vedere come il Cesenate, col leggere e rileggere e col confessarsi, esauriti tutti gli episodi e tutti i particolari vani delle cose, riesca poi a fermare gran parte di ciò che è intimo ed essenziale.
Il saggio su Paul Fort era già nel pensiero di Serra destinato a La Voce, la piccola rivista, ora, dalla copertina gialla, che gli tornava «a piacere come cosa più seria e che potrà andare avanti», e nella quale fu poi stampato con sua firma il 28 giugno 1914 (a. VI, n. 12, pp. 13-39). Dai primi d’aprile si era dunque arrivati alla fine di giugno, quasi tre mesi, prima che il manoscritto fosse pubblicato. «È una storia lunga, — scriveva al De Robertis il 30 maggio ’14 — e sì che ho tagliato e riassunto; massime della prima parte, che m’era riuscita una specie di confessione complicata ed esorbitante; adesso poi, per attenuarne la personalità, l’ho ridotta in certi tratti fra contorti e di maniera, che non finiscono di piacermi; e pur non so rassegnarmi a reciderli francamente» (Ep., 498-99). E domandava consiglio al Prezzolini e anche al De Robertis, se fosse il caso di stampar tutto o un pezzo solo del lungo manoscritto.
Poi, del saggio più nulla; eccetto una domanda che Renato rivolge il 1° agosto al De Robertis: «E mi dica anche — lo chiedevo in una di quelle cartoline, mi pare, — se ha sentito nessun giudizio intorno a quel mio Ringr. a Paul Fort; a me, fuor che Lei, non ne ha parlato nessuno. Forse nessuno l’ha notato» (Ep., 516).
E il 7 novembre 1914 rispondeva a Prezzolini, che gli chiedeva il ritratto e qualche cosa per l’Almanacco della Voce: «E preferisci un saggio o frammenti critici; o ti contenteresti di qualche pezzetto d’analisi e d’impressione personale, (sul genere del Paul Fort, primi paragrafi)?» (Ep., 530). Il che vuol dire che dunque quello scritto, per cui il Serra era stato qualche momento incerto, non dispiaceva infine all’incontentabile autore; sebbene, mandando questo «scrittarello» suo a Carlo Linati nell’agosto 1914, lo giudicasse «tentativo imperfetto, molto sommario e imperfetto di una maniera di impressioni critiche che forse seguiterò....» (Ep., 518).
Anche questo notevolissimo saggio, per una dimenticanza ancor più inqualificabile, non fu incluso nell’edizione delle Opere di R. S., curata dal Prezzolini (Roma-Firenze, 1919-1923).
1914.
LE LETTERE.
(Vol. I, pagg. 237-390).
Il volume de Le Lettere ha lunga eco e ripetuta in quasi cento pagine dell’Epistolario. Conviene dunque spigolare e accennare per sommi capi.
Il primo annunzio del lavoro in preparazione è, come spesso, all’amico Luigi Ambrosini, il 18 marzo 1913: «Di molte cose ti dirò una, per cui ho bisogno di qualche consiglio, aiuto. M’è stato commesso da Comandini, per la sua casa ed. (Bontempelli e Invernizzi), un volumetto in una serie di monografie; — l’Italia d’oggi, o press’a poco — ; pare una cosa abbastanza seria» (Ep., 473-74). E continua a lungo, facendo il nome di altri collaboratori della collezione, esponendo i suoi criteri nella compilazione del volumetto, di cui già aveva pronto uno schema, da portare a Roma a fine mese. Carattere principale del lavoro, in queste due parole: «Non voglio statistiche; ma impressioni».
Nel maggio seguente sappiamo che già lavora intorno al volumetto, poi ne abbiamo più larga notizia quasi un anno dopo, quando il 13 marzo del ’14 scrive a Giuseppe De Robertis: «Così ho potuto ricordare con giustizia il suo nome in un libretto che sto terminando, molto frettolosamente, su le lettere nell’Italia d’oggi: i limiti dello spazio mi hanno imposto un disegno sommario, a tratti, senza gli episodi e le parentesi (che forse sarebbero la mia parte meno cattiva); e così ho dovuto tacere molti nomi, di gente a cui voglio bene anche, e che stimo; ma che non avevano in chiaro o in oscuro, abbastanza rilievo, per formare il quadro» (Ep., 484).
Più tardi, sempre al De Robertis comunica di aver dovuto formulare alcune impressioni su Di Giacomo poeta, e di non esserne rimasto punto contento; poi, scrivendo al Papini si scusa quasi di quel che ha detto di lui prima che lo vedesse a Firenze: «Se scrivessi oggi, avrei altro da dire: e sopra tutto non mi crederei obbligato a dissimulare la mia simpatia interna con tanta insistenza nel ritrarre l’aspetto superficiale e antipatico del Papini-come-lo-conosce-la-gente» (Ep., 496).
Il 27 giugno 1914 si scagiona con Linati di non aver parlato delle cose sue in un libretto sulle Lettere nell’Italia d’oggi, che uscirà se non è già uscito in questi giorni, a Roma; fu scritto sulla fine del ’13» (Ep., 512); perchè a lui, che viveva «in provincia, molto solitario e lontano da giornali amici e novità», era sfuggito un volume del Linati, del quale gli avevano detto molto bene. E gli scrive poi intorno al Dossi, al Lucini, al Bernasconi, al Da Verona, che, o non erano stati notati, o non pareva che fossero giustamente notati.
Il 1° giugno 1914 Serra comunica al De Robertis di aver ricevuto le bozze impaginate di una buona parte. del suo libretto, del quale un pezzo da tradursi in francese, e precisamente quello che riguardava il D’Annunzio, doveva consegnarsi da De Robertis stesso a M. Chadourne per la rivista France-Italie, in piazza Manin 2, Firenze. Ciò che fu fatto, ma con poca soddisfazione di Serra, che il 1° agosto si lamentava con De Robertis, così: «Ha visto D’Annunzio su la Revue d’Italie? Che traduzione! M’avevano mandato le bozze: avevo corretto e ritoccato da per tutto: e poi loro hanno stampato senza tener conto neanche di una delle mie correzioni» (Ep., 516).
E neppure, si mostrò contento il Serra della stampa del volumetto, che uscì nella prima quindicina di agosto, perchè gli pareva «stampato in un modo sconcio»; mentre, per impedirgli di correggere, gli avevano inviato le bozze bell’e impaginate. Aspettava poi l’impressione del De Robertis: «Del resto si accorgerà leggendo che sono spesso note sommarie e senza ritocchi» (Ep., 518-19). Per il volumetto importantissimo, al quale forse l’autore non riconosceva il valore che ebbe e che ha tuttavia, parecchi scrissero cordialmente al Serra, come il Di Giacomo, l’Albertazzi, il Linati; alcuni si lamentarono, come il Cardarelli e pare anche il Cecchi. Del Prezzolini e del Papini non sapeva, e ne domandava con un senso di incertezza e di dispiacere al De Robertis.
Comunque, dopo la stesura del volumetto, noi sorprendiamo una preziosa confessione sulle labbra di Serra, e la partecipa a De Robertis (17 aprile 1914): «Dopo un anno quasi che non scrivevo una riga, quel volumetto su l’It. d’oggi m’ha sciolto la mano; e insieme con altre circostanze, pare che m’abbia ridato l’abitudine e il gusto del lavoro preciso, non soltanto fantastico. Questo mi piace oggi e vorrei farlo durare» (Ep., 494).
Ma non durò, chè sopravvenne l’ansia e il turbamento e la bufera della guerra: «Qualche cosa arriva anche a me, che mi fa fremere. Non dimenticherò l’impressione di stamattina: come mi son sentito sollevare tutto di passione e di speranza e di non so quale altro istinto profondo, a leggere le notizie — la guerra: e l’Italia svincolata, sembra — : e come andrei volentieri in Francia a lottare per la mia civiltà! Ecco, m’è quasi passata la voglia di scrivere» (Ep., 514-15). «D’altronde lavorare non è possibile; terminare dei saggi critici o delle note letterarie, di cui non potrei nemmeno liberarmi stampando, e dovrei tenerli nel cassetto, è cosa che mi disgusta: perdermi in qualche cosa mia più intima, non mi riesce» (Ep., 524). Bastano questi brani di lettere a De Robertis del 1° agosto e del 7 settembre 1914, per capire Serra in quei mesi indimenticabili.
Il volume de Le Lettere fu ristampato, con l’aggiunta dei frammenti inediti del secondo volume (dei quali noi faremo cenno più avanti) e di un indice onomastico, nel volume terzo, delle Opere di R. S. curate dal Prezzolini (Roma-Firenze, 1919-1923).
1915.
ESAME DI COSCIENZA DI UN LETTERATO.
(Vol. I, pagg. 391-421).
La storia dell’Esame di coscienza è quasi tutta raccolta e narrata nella «Dichiarazione» di G. De Robertis, che lo precede nella edizione Treves del 1915, e nelle «Ultime lettere dal campo», che lo seguono, ordinate e presentate da Luigi Ambrosini. Noi dunque non la esporremo in particolare, questa storia, perchè generalmente nota.
È noto infatti che il primo accenno all’Esame è del 20 marzo 1915 da Cesena, e l’ultimo da San Vito al Tagliamento il 24 aprile, in lettere a De Robertis; e nota è la vicenda di questo scritto illustre, che, cominciato nella quiete della Biblioteca cesenate e finito al campo, al limitare della zona di guerra, fu scritto tra preoccupazioni, stordimenti, malattie inventate e morti avvenute, disagi di ogni genere, servizi militari pesantissimi, più in ritagli di tempo notturno che diurno, spesso senza una pausa di tranquillità per rileggere di seguito il già scritto, e senza il modo di correggere con attenzione le bozze. Nato e cresciuto, come abbiam detto, in un mese, tra abbandoni e riprese, quello che il Serra credeva fosse «tutta una gran porcheria», doveva portare, per volontà dell’autore, «la data di nascita: 20-25 marzo».
Oltre quel che si legge nella «Dichiarazione» suddetta, che fu intessuta con brani di lettere serriane a De Robertis e a Papini, (lettere che poi comparvero intere nell’Epistolario), pochi altri accenni in questo ritroviamo. Soltanto meritano di essere ricordate alcune righe in una lettera al Croce del 4 aprile, nelle quali il Serra avanza qualche scusa per quel che ha scritto di lui nell’Esame: «La posta mi ha recato le bozze di un articolo che uscirà, credo, nella Voce fra poco, pur essendo vecchio di un mese; e ci son parole che possono parere una stonatura, accostate a quello che avevo in mente per Lei. Questo mi duole, ma non so rimediarci. E non ho neanche il tempo di aggiungere qualche spiegazione. Non creda tuttavia che io possa essere insensibile o ingrato verso la sua amicizia passata e verso le cortesie di cui ho approfittato» (Ep., 559). E fu per questa lettera appunto che Croce, rispondendo a Serra che non se n’era avuto a male, e che non era così meschino da dispiacersene, uscì in quella frase sconveniente, che, cioè, anche Serra s’era «messo a fare della letteratura onanistica» (Ep., 581): frase che il Serra non lasciò cadere nella risposta che diede al Croce, sette giorni prima della morte gloriosa: «Avrei avuto qualche cosa da dirle a proposito dell’ultima lettera in cui una parola mi suonò strana, da Lei. Ma ora non è più tempo» (Ep., 597).
L’Esame di coscienza di un letterato, che è come il testamento spirituale dello scrittore romagnolo, e del quale poi Serra, contro il giudizio su riferito, non doveva dolersi, se aveva detto, come racconta Ambrosini: «Ma sì, mi sento abbastanza contento di quelle pagine. Non sono perfette, ma insomma mi sono sfogato», l’Esame fu pubblicato ne La Voce diretta da De Robertis (a. VII, n. 10, 30 aprile 1915), da pag. 610 a pag. 632. Poi, poco dopo la morte del Serra, verso la fine dell’anno, comparve in un volumetto elegante di pagine XXVII-161, edito dai Fratelli Treves di Milano.
Non fu compreso, ed è mancanza gravissima, nella edizione delle Opere di R. S. curata dal Prezzolini (Roma-Firenze 1919-1923).