Roma e lo Stato del Papa/Capitolo XVII
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CAPITOLO XVII.
Primi mesi del 1859 a Roma. - Condizioni generali dello Stato.
L’anno 1859 fu davvero uno dei più brillanti della società romana, anzi addirittura il più brillante del ventennio. Si sentiva nell’aria qualche cosa, che prometteva tempi migliori, e le famose parole rivolte dall’imperatore Napoleone il primo giorno di quell’anno all’ambasciatore d’Austria avevano messo la febbre addosso ai vecchi liberali, e maggiormente accesi i giovani. Il governo rivelò da principio una bonaria tolleranza. Nel carnevale fu nuovamente permessa la maschera, proibita dopo la restaurazione, e che solo per tre giorni era stata ripristinata l’anno prima. Molti regnanti e principi ereditari si eran data la posta in Roma, e fra essi il principe di Galles, che giunse il 3 febbraio, sotto il nome di barone di Renfrew. Prese alloggio alle Isole Britanniche, già Meloni, in piazza del Popolo, sulla cantonata del Babuino, uno dei maggiori alberghi, che il nuovo proprietario, Odoardo Freytag, aveva tutto rinnovato. Questo albergatore, svizzero d’origine, era un curioso tipo, e parlava l’italiano mutando in e tutte le desinenze. Diceva: Pie None, Antonelle, pe Criste. Accompagnato da Odo Russell, dal colonnello Bruce, suo precettore, dalla signora Bruce, e dal capitano Grey, il principe fu ricevuto, il giorno sette di quel mese, dal Papa; e il giorno dopo salì sulla cupola. Nel discendere, trovò apparecchiata, nella sagrestia, una colazione, offertagli da monsignor Giraud, segretario della fabbrica. Giovanetto a diciott’anni, nei tre mesi di permanenza a Roma, frequentò poco la società, ma si divertì alle cacce e ai teatri, e singolarmente nei giorni di carnevale. Fece costruire un palco per sè, al cantone di via della Vite, e di là gettava fiori e regali eleganti. In occasione della recente venuta di re Edoardo in Roma, furono esumati vari ricordi di quel primo viaggio, e fra gli altri, che il severo Bruce non voleva permettergli di assistere alla festa dei moccoletti dalla loggia del palazzo Fiano, fino al punto che occorse provocare per telegrafo il consenso della regina Vittoria. Il principe fece tutte le escursioni delle vicinanze; frequentò il Tordinona in un palchetto messo a sua disposizione dal Torlonia; assistette alla prima rappresentazione del Ballo in maschera, e conobbe il Verdi. Visitò i monumenti, le gallerie e l’Università, e volle penetrare persino nel gabinetto anatomico. La signora Bruce, che lo seguiva, alla vista dei cadaveri si ritrasse atterrita, e andò a ricoverarsi in una scuola, dove fu ritrovata dopo non poche ricerche. Qualche anno dopo, questa signora, divenuta papalina ardente, venne a stabilirsi in Roma.
Nel tempo che il principe di Galles era in Roma, il re Vittorio Emanuele gli mandò il collare dell’Annunziata, incaricando Massimo d’Azeglio di presentarlo. Il D’Azeglio non era più tornato a Roma, dopo il 1848. Giunse la sera del primo marzo, accompagnato dal conte Luigi Balbo, capitano di cavalleria, e secondo figliuolo di Cesare Balbo, prendendo alloggio all’albergo d’Alemagna in via Condotti, tenuto allora da Franz Roesler. Rivide il suo vecchio amico Michelangelo Caetani, di cui era stato padrino nel duello, che questi ebbe nel 1848 col principe di Canino. Andò a rivedere in casa del duca di Poli il gran quadro da lui dipinto in occasione del matrimonio della duchessa Anna Sforza Cesarini col duca Marino Torlonia; quadro che rappresenta Muzio Attendolo nell’atto che scaglia la zappa contro la quercia, e per il quale gli erano stati pagati duemila scudi. Il D’Azeglio fu quasi sempre in compagnia del dottor Diomede Pantaleoni, e con lui andò a passare una sera dal Cartwright, che abitava al palazzo Lovatti, il quale di quella visita serba tuttora grato ricordo. Erano inoltre a Roma, in quei giorni, il marchese Cesare Alfieri di Sostegno, presidente del Senato in Piemonte, e il marchese Gustavo di Cavour, venuti a visitare la rispettiva nuora e figlia, marchesa Giuseppina, maritata al giovane Carlo Alfieri di Magliano. Il marchese Cesare aveva chiesto udienza al Papa, ma non l’ottenne per la sua qualità di presidente del Senato subalpino; ma l’ebbe invece il marchese Gustavo di Cavour, al quale Pio IX disse in tono scherzevole: Se io avessi suo fratello per mio ministro, non mi troverei in questi imbarazzi, alludendo con ciò alle agitazioni, che rispuntavano nell’Emilia e nella Romagna, per la guerra ritenuta imminente. Il conte Della Minerva, ministro sardo, che frequentava gli Alfieri, fece loro conoscere David Silvagni, cancelliere della legazione. E fu per tale conoscenza che il Silvagni più tardi entrò in relazione col conte di Cavour.
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Era tornato nel gennaio il granduca di Toscana con la granduchessa e famiglia, diretti a Napoli, per assistere al matrimonio del duca di Calabria: e il venti di quel mese arrivarono pure il duca Giorgio di Meklemburg-Strelitz, e la duchessa Caterina di Russia sua consorte; il Re, la Regina e il principe Alberto di Prussia, i quali erano stati preceduti dall’ex regina Maria Cristina di Spagna e dal principe di Assia. Il 9 febbraio fu dato dal generale Goyon un gran ballo a ottocento invitati; e il primo marzo un altro gran ballo fu dato al palazzo Colonna dall’ambasciatore di Francia duca di Gramont, e al quale intervennero Maria Cristina e la sua corte, il duca e la duchessa di Meklemburg, e il principe d’Assia. Al ballo del Goyon l’elemento romano fu piuttosto scarso. Il comandante del corpo di occupazione, tipo antipatico personalmente, e subdolo politicamente, non era riuscito a crearsi degli amici neppure nell’aristocrazia ortodossa: due mesi prima, il giorno di capo d’anno, portando gli augurii al Papa era uscito in queste ampollose parole: «Nel contemplare la maestà del vostro trono vi ammiriamo Re». L’asprezza del suo contegno verso la borghesia era inspirata in parte da zelo clericale, e in parte da burbanza soldatesca.
Al palazzo di Spagna Maria Cristina aveva aperto una vera corte. L’ex Regina contava trentatre anni. Non bella, ma piacente, non ritraeva il tipo adiposo di sua madre e delle sue sorelle, la granduchessa di Toscana e l’imperatrice del Brasile. Era rimasta giovanissima vedova del re Ferdinando VII, il quale aveva 22 anni più di lei, e morì di malattia misteriosa. Il Re le lasciò un’enorme sostanza, ch’ella, per il suo spirito munifico, aveva notevolmente ridotta, durante gli agitati anni della reggenza. Dal suo secondo matrimonio con Ferdinando Mufioz, che fu riconosciuto non prima del 1844, ebbe parecchi figliuoli, tra i quali donna Maria Milagros, che aveva sposato a venti anni, al castello della Malmaison, il gennaio 1856, il principe Filippo del Drago. La Regina acquistò per questa sua figlia il palazzo di casa Albani, in via Quattro Fontane, e venne a passare a Roma i due inverni del 1858 e 1859. Ella si affermava sovrana in tutto. Delle due figlie del primo letto, Isabella regnava in Ispagna; e perciò ella, già Regina e madre di Regina, figlia e sorella di Re, fu considerata come sovrana regnante, ed ebbe in Roma ogni sorta di onori. La sua dama di onore era la contessa di Cavalquinto, di maestosa bellezza. Pio IX andò, in gran treno di lusso, a visitare l’augusta signora; e ambasciatori, cardinali e signori dell’aristocrazia frequentavano il palazzo di Spagna, dove la Regina dette un primo gran ballo in costume, nel carnevale del 1858, e ne die’ due altri, il 2 e il 6 marzo 1859, i cui inviti erano così fatti:
Le Gentilhomme de la Chambre de S. M. Catholique de service auprès de S. M. la Reine Marie Christine a l’honneur de prévenir + QU .... invité de la part de S. M. à venir passer la soirée: au Palais d’Espagne ..... Mercredi.... à..... heures.
La vita di questa donna, che fu tra le più avventurose, si spense nel 1873 a Saint-Adresse, presso Havre. Il suo secondo marito, divenuto duca di Rianzares, da semplice ufficiale della guardia, ch’era, quando la giovane vedova se ne invaghi, riproduceva il tipo di un avventuriero fortunato. Aveva avuta larga parte, come si è detto, nelle concessioni ferroviarie ed era il presidente del Consiglio di amministrazione della società.
Acquistando il palazzo Albani, Maria Cristina non ne acquistò la grande biblioteca, la quale fu messa all’asta e aggiudicata al duca Massimo, per l’accademia dei Lincei, di cui era presidente. Il Massimo preferì di acquistare i libri; e i manoscritti, rarissimi, furono comperati dal governo prussiano, e andarono perduti nel naufragio del bastimento, che li portava al nuovo destino. Il palazzo Albani, oggi Del Drago, non fu abitato che alcuni anni dopo, quando ne venne rifatta la scala.
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Si avvicendavano le feste alle ambasciate, e gareggiavano in sontuosità quelle del duca di Gramont al palazzo Colonna, e del conte di Colloredo al palazzo Venezia. Le signore dell’uno e dell’altro, piccoline di statura, e assai vivaci, erano amanti di svaghi. La contessa di Colloredo, non ancor vecchia, portava una piccola parrucca, in mezzo alla quale, sulla fronte, collocava una grossa perla per celarne l’attaccatura. La duchessa di Gramont, nata Mackinnon, americana d’origine e protestante, aveva abbracciata la religione cattolica, sposando il duca. Nel tempo, che stettero a Roma, ebbero parecchi figliuoli. Quei balli del Colloredo furon gli ultimi, perchè, nel luglio, egli fu richiamato e mandato alla conferenza di Zurigo, dove morì nell’ottobre, in seguito a ripetuti attacchi di apoplessia. Fu sostituito in Roma dal barone Alessandro De Bach, che presentò le sue credenziali nel settembre dello stesso anno.
Nei balli e nei ricevimenti si cominciava ormai a discorrere liberamente di politica. La guerra si riteneva certa. Ricominciava il fermento nelle classi popolari; le relazioni con i soldati francesi divenivano cordiali, e la polizia aveva rallentato i suoi rigori. I rapporti personali tra gli ambasciatori d’ Austria e di Francia, che non furono mai cordiali, si fecero via via ostili, mentre da Napoli pervenivano notizie allarmanti circa la salute del Re.
A rendere quell’anno ancora più lieto, contribuirono alcuni matrimoni nell’alta aristocrazia, e primo fra tutti, quello di donna Ersilia Caetani, figliuola del duca di Sermoneta, e sorella di Onorato. La nobile sposa aveva appena compiuto i diciotto anni, trascorrendo la giovinezza fra gli studii della classicità greca e romana, e le amorose cure al povero padre, che sì avviava, consapevole, alla completa cecità. Il duca sentiva per i suoi due figli una tenerezza immensa, e però il pensiero di maritare l’Ersilia a Roma, e di averla presso di sè, vinse ogni altra considerazione, e accolse di buon grado la richiesta, che della mano di lei fece il giovane conte Giacomo Colombo Lovatelli, figliuolo di Costanza Chigi e di quel conte Francesco Lovatelli, che, tre anni innanzi, era caduto a Ravenna, vittima di odio settario. Il conte Giacomo di poco superava i venti anni. Era bel giovane e pieno di dignità. Tutta Roma corse al palazzo Caetani, la sera dei capitoli nuziali. Magnifici i doni, e il 31 gennaio gli sposi partirono per Frascati, ma non vi rimasero più di otto giorni, perchè il duca non poteva vivere lontano dalla figliuola. L’annunzio delle nozze fu dato con la seguente partecipazione:
Il duca di sermoneta unitamente |
Il matrimonio fu ricco di figliuoli; dopo il 1870, Giacomo Lovatelli divenne deputato per Ferrara e per Roma, e morì ancora giovane nel 1876. La contessa continua la gloriosa tradizione del salone paterno, che fu immagine viva dell’universalità di Roma; e come in quello, così in questo, s’incontrano celebrità e mezze celebrità, che sono, o passano per tali, nella politica, nelle lettere, nelle arti e in tutta la cultura classica, e dove si muove e si rinnova un mondo internazionale, deferente allo spirito fine della contessa, e alla sua bontà grande, mescolata ad una vena inesauribile di arguzia, che ricorda un po’ quella del padre, ma non è egualmente caustica e sarcastica. Il padre, che il Minghetti nei suoi Ricordi definì «iracondo e violento», lasciava il segno coi suoi epigrammi.
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L’anno innanzi, 1858, erano avvenuti altri matrimoni nel patriziato. Donna Eleonora Chigi aveva sposato il conte Giuseppe Macchi; il duca Castiglione Aldobrandi, Carlo Colonna, sposò Adele d’Affry; e la sera del 7 gennaio 1858 furono lette al palazzo Doria le tavole nuziali tra Emilio Massimo, unico figliuolo del duca, e donna Teresa Doria, prima figliuola del principe Giovanni Andrea. Il cardinal Ferretti celebrò quelle nozze; e gli sposi, dopo la tradizionale visita a San Pietro, partirono per Frascati a passar la luna di miele. Il duca Massimo conferì a suo figlio il titolo di duca di Rignano. In quello stesso anno, la sera del 7 aprile, furon letti al palazzo Del Drago, i capitoli nuziali fra il conte Luigi Mastai, il ben amato nipote di Pio IX, con donna Teresa del Drago. Quest’unione non fu modello di felicità. Gli sposi, non più giovanissimi, avevano carattere e tendenze perfettamente opposte. Il Mastai, primogenito del conte Gabriele, era uomo flemmatico, che aveva trascorsa la vita nella quiete di Senigallia, anzi di Roncitelli, piccola terra sulle prime colline della simpatica città. Nel 1848 si era dato un po’ di moto, e divenne amico del Minghetti, che ne fa cenno nei suoi Ricordi. Aveva poi seguito il Papa a Gaeta. Donna Teresa era tutta nervi, immaginosa, e più giovane di lui. Aveva sposato il Mastai, illudendosi di fare la gran vita di Roma, all’ombra del Vaticano; e invece, con sua delusione e cordoglio, Pio IX obbligò i nipoti di andar a vivere nell’antica e tetra casa dei Mastai a Senigallia, con una suocera, della quale donna Teresa divenne in breve la disperazione. Conobbi intimamente questa signora, e ben ne ricordo il vivace talento, i discorsi infiorati di paradossi, e le geniali stravaganze. Fumava in continuazione le sue preferite sigarette, vegliava la notte, o dormicchiava sulla poltrona col lume acceso, e solo andava a letto, se pure, nelle prime ore del mattino. Era piccola di statura, e in gioventù fu piena di attrattive. Per obbligarla a vivere a Senigallia, Pio IX le comperó la magnifica villa detta Le Grazie; e poichè ella trovava la nota arguta su tutto, diceva che, essendo quella villa presso il camposanto, Pio IX l’aveva acquistata, perchè ella avesse sempre innanzi l’immagine della morte. Ebbe una sola figliuola, Cristina, che sposò il mio amico Ruggero Bellegarde de Saint-Lary, già capitano di cavalleria dell’esercito italiano e appartenente a una delle più antiche famiglie della Savoja.
Non può dimenticarsi in quell’anno l’apparizione in Roma di una signora polacca, ricchissima, la contessa Drialynska, nata contessa Wodricka, che alloggiava nel grande appartamento del palazzo Marini a Ripetta, e dava balli graziosi. Questa signora aveva due figlie, non belle, nè amabili, ma con qualche milione di dote, e però si può immaginare qual ronzio di vespe circondasse le due polacche. Erano i soliti cadetti, guardie nobili, marchesi e conti delle Marche o della Romagna, in cerca del milione, e che si davano premura di procurare alle signorine e alla madre biglietti per le gallerie e i musei, e si offrivano di accompagnarle alle cacce, ai laghi del Lazio, a Tivoli o al Colosseo a luna alta. Ma le colombe rimasero indifferenti alle seduzioni; tornarono a Varsavia, nè più si videro.
In quell’anno medesimo venne in Roma la principessa Carolina Vogorides, rumena, assai ricca. Il malaticcio marito morì pochi anni dopo, ed ella sposó, nel 1864, Emanuele Ruspoli, uno dei molti figliuoli di Bartolomeo Ruspoli, bel giovane e forte, ch’ebbe fortuna nel mondo, e fu deputato e due volte sindaco di Roma, e che, perduta la Vogorides, ebbe due altre mogli, e morì senatore del regno nel 1899.
Alla girandola al Pincio assistettero il Re e la Regina di Prussia, Maria Cristina di Spagna, il principe di Galles, il principe e la principessa di Meklemburgo, i principi Romanowski di Leucktemberg, giovanissimi. Niccola aveva sedici anni, e suo fratello Eugenio ne contava soli dodici. Due giorni dopo, il martedì 27, gli stessi principi e sovrani, con splendidi equipaggi, intervennero all’inaugurazione della mostra di fiori e bestiame a villa Borghese, promossa dalla società di orticoltura e agricoltura. Vi andò il Papa e il Corpo diplomatico, compreso il ministro di Toscana, e fu quella l’ultima parte ufficiale, rappresentata dal Bargagli, nel mondo diplomatico.
Alla metà di maggio, snidati dai preparativi della guerra e dal caldo, che già imperversava, i sovrani e i principi ereditari erano già tutti partiti da Roma. Il Re e la Regina di Prussia andarono a Napoli, sperando il Re di ricuperarvi la salute, che non era migliorata in Roma, ma, com’è noto, neppure dalla salubrità di quel clima egli trasse giovamento, e morì due anni dopo, a Berlino. Il principe di Galles partì il primo maggio, e sino all’ultimo giorno nulla tralasciò per divertirsi. Visitò la monumentale chiesa di San Clemente, tenuta dai domenicani irlandesi, e il collegio irlandese a Sant’Agata alla Suburra. Vi andò il giorno della festa di san Patrizio, patrono dell’isola Verde, ed ebbe da quei frati festosissime accoglienze. Fra le ultime sue visite son da ricordare quella alla basilica dei Santi Apostoli, dove fu ricevuto dal padre Guglielmo di Beavan, nativo del principato di Galles; e l’altra alla principessa Giustiniani Bandini, perchè il principe Sigismondo era pari inglese, col titolo di visconte Kynnard. In quella occasione il duca di Sermoneta disse del principe Bandini, ch’egli era inglese in Italia, italiano in Inghilterra e marchigiano dappertutto, perchè nato nelle Marche. Non fu senza dolore che il principe di Galles lasciò Roma. Quei tre mesi furono tra i più ricordevoli della sua vita. Tornò a Roma nel 1864 con suo cognato, il principe Federico di Prussia, ma vi restò breve tempo.
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Sarà bene riassumere quale fosse la condizione economica dello Stato del Papa in quel fatidico anno 1859, prima che la rivoluzione gli portasse via le quattro provincie, che ne formavano la maggiore risorsa e il maggiore orgoglio. E sarà bene confrontare i due bilanci, il primo dopo la restaurazione, e l’ultimo del 1858. Se quello del 1852 presentava, come s’è visto, un attivo di scudi 10,473,129.90, un passivo di 12,336,487.39 con un disavanzo di circa 2 milioni, nel 1859 il bilancio, per effetto dei nuovi aggravi, si era elevato a 14,653,999 scudi nell’attivo, e a 14,552,570 nel passivo, con un civanzo di 101,429 scudi. Si era fatto un gran passo, anche perchè in quei sei anni non si verificarono carestie, nè straordinari infortuni, nè furono eseguite costose opere pubbliche. I sussidi chilometrici alle ferrovie non si sarebbero pagati che all’apertura dell’esercizio, e c’era ancora tempo. Ma se il bilancio si trovava in buone condizioni, non era diminuita l’enorme differenza fra l’esportazione e l’importazione, vero indice della pubblica ricchezza. Nel 1840, come rilevò il Galli1, l’importazione era di scudi 8,189,240, calcolando i generi al loro valore, e l’esportazione di 6,999,231; negli anni, che corsero dal 1850 al 1859, questi rapporti non furono mutati, anzi l’importazione sali quasi al doppio. Il Galli aveva ricavato le cifre, così nell’entrata come nell’uscita, ch’egli chiamava «estrazione», dalle bollette doganali, per cui tutto ciò che s’introduceva di contrabbando non vi era compreso. Egli aveva notato che il contrabbando si compiva quasi esclusivamente nella introduzione, «essendo i generi per lo più gravati di forti dazi, ed essendo i confini di mare e di terra estesissimi e di difficile sorveglianza»; e aggiungeva che non vi era motivo a supporlo nella uscita, «perchè i dazi sono insensibili o nulli, e perchè gli “ammassi” (voleva dire depositi) che si formano nell’interno, non potrebbero farsi impunemente scomparire». Grande ingenuità da parte sua, perchè nel cespite maggiore dell’esportazione, rappresentato dalle belle arti, il contrabbando si compiva egualmente, essendovi una tassa forte di esportazione. Per esempio, la totalità delle stime per opere di pittura e scultura, da doversi esportare, figura nel 1856 di soli scudi 290,729, secondo risulta dalle licenze rilasciate dal ministero del commercio; ma è da ritenere che fosse molto maggiore, perchè l’uscita delle opere d’arte, antiche e moderne, soprattutto da Roma, per via di mare e di terra, era circondata da una quantità di abusi, e di magagne, alcune delle quali veramente umoristiche, anche per sottrarsi ai rigori dell’editto Pacca.
Il Galli, esaminando gl’introiti ufficiali, aveva rivelato un assurdo apparente, che, cioè, le provincie più ricche e popolose dello Stato eran quelle, che contribuivano meno alle dogane. Egli aveva diviso lo Stato tra provincie settentrionali, di là dall’Appennino, cioè Legazioni e Marche; e provincie meridionali, cioè Umbria e Roma sino a Terracina; e queste davano maggiori introiti alle gabelle, benchè, anche come quantità di popolazione, fossero tanto inferiori alle settentrionali. Questo assurdo egli spiegava giustamente col contrabbando, esercitato quasi alla luce del sole, sulla spiaggia adriatica e sui confini di Modena e della «Lombardia Veneta». E a provare le enormità del contrabbando, il Galli, tenendo sempre presenti le bollette di dogana sui generi coloniali, e calcolando il minimo consumo del caffè e dello zucchero, quello a 12 libbre, e questo a 24 all’anno sopra mezzo milione di consumatori, affermava argutamente, che si sarebbe dovuto ottenere dal solo caffè e zucchero più di quanto non fruttassero tutti i coloniali uniti insieme, e concludeva che su quei generi il contrabbando frodava l’erario per quasi più della metà dell’importazione. Ma divenuto ministro, non potè ripararvi, e la nuova convenzione con la Toscana non ebbe altro risultato, che di rendere più cauti i rapporti fra agenti e contrabbandieri nello stabilire i rispettivi obblighi, cioè se per ogni cento sacchi di grano, di caffè, di zucchero o di pepe, si dovesse pagare il dazio sopra cinquanta o sessanta. Non si ricorda che in quegli anni fosse stata presa alcuna misura di rigore contro direttori di dogane, o comandanti di doganieri, o ricevitori, o guardie, tutta gente che viveva largamente, quasi non facendo mistero delle fonti, donde traeva quegli utili. Il governo pontificio si dimostrò, fino agli ultimi giorni di sua vita, impotente a reprimere il contrabbando.
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Le più ricche fonti di questo seguitarono ad essere la fiera di Senigallia e i porti franchi di Ancona e Civitavecchia. La fiera raggiunse negli ultimi anni un’importanza commerciale non mai veduta. Se la stagione teatrale seguitò a richiamare nel bel teatro della patria di Pio IX gli artisti di maggior grido e un pubblico numeroso da ogni parte dello Stato, dalla sponda dalmata, anzi da tutto il Levante, dal Veneto e dalla costa del vicino regno di Napoli, arrivavano paranze e trabaccoli, carichi d’ogni varietà di merci e comandati da abili contrabbandieri. Il Misa diveniva grande mercato, perchè quei legni si mutavano in magazzini, ai quali si accedeva mercè piccoli ponti; e contrabbandieri, mercanti e doganieri d’ogni grado guazzavano in tanto ben di Dio. La fiera non durava meno di due mesi; e quando era finita, non si riportava indietro la merce invenduta, perchè nella notte dell’ultimo giorno si trasportava nelle case non soggette a perquisizioni doganali, ed erano generalmente i sotterranei del palazzo vescovile. Senigallia era allora una città fra le più fiorenti dello Stato pontificio; la sua fiera di oggi non è che un ricordo malinconico di quella che fu. Solo rimane lo sdrucito velario, e le tenui botteghe di chincaglierie e pelliccerie false. Si spendeva allegramente da tutti. I porti franchi di Ancona e di Civitavecchia erano fonte perenne di maggiori strappi alle leggi doganali. Si agglomerava la merce nei magazzini, e via via, frodando il dazio, s’introduceva nell’interno dello Stato, con infinite trappolerie. In condizioni simili era un vero miracolo che le dogane rendessero qualche cosa.
Benchè in quegli anni si verificasse un risveglio economico nelle provincie settentrionali, lo Stato era sempre poverissimo nelle regioni, dove più marcato era il disquilibrio fra la terra e i suoi abitatori. Aveva una formazione singolare: una lunghezza tre volte maggiore della larghezza. Da Terracina a Ferrara correvano 635 chilometri, e 202 dalla foce dell’Esino alla costa maremmana, nel punto in cui hanno pace la Marta e la Fiora. Negli ultimi anni la popolazione era cresciuta sino a tre milioni e trecentomila anime, ma ripartita sopra una superficie di 41,000 chilometri quadrati, divisa in diciotto provincie, i cui capi erano giovani ecclesiastici, quasi tutti inclinati alle debolezze umane. Le quattro Legazioni, che dovevano essere governate da un cardinale, erano, tranne Bologna, rette da un prelato, per cui l’occupazione austriaca, con relativo stato d’assedio, processi, vergate e fucilazioni, spionaggi e vendette, non trovava neppure un freno nell’alta autorità del rappresentante pontificio. E perciò, un’irrequietezza quasi morbosa appariva negli ordini sociali che, naturalmente, non andava a vantaggio della pubblica economia, ma solo rendeva più intollerante, più astioso e simulato il carattere della gente. Difficili i contatti fra le provincie, e quasi ogni contatto sospetto; e il passaporto necessario per chi da Forlì, da Ravenna o da Ferrara, volesse andare a Bologna, o a Roma. Era un sistema di compressione, se non sempre violenta, certo petulante e parziale, e perciò produceva effetti opposti. Il protezionismo doganale, fonte di un contrabbando irrimediabile, e il sistema politico, sorgente di odii contro l’autorità; il fidecommesso, la manomorta, e la conseguente immobilità sociale, erano, come da secoli, le cagioni dell’impoverimento.
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Nuove industrie non sorsero in quegli anni. Vivacchiavano le fabbriche di tessuti ordinari a Fossombrone, a Cagli, a Todi, a Bevagna, e quelle di tessuti di filo a Bologna, e piccole fabbriche di cappelli quasi in ogni comune importante. Vi era una raffineria di zucchero a Grottammare, e poche cartiere a Fabriano, a Subiaco e a Guarcino. A Terni, con quel tesoro di forza motrice, esisteva una minuscola ferriera con una fonderia annessa; un piccolo lanificio; un mediocre cotonificio con cento telai e duecento operai, quasi tutte donne, più tardi trasformato in lanificio. E la stessa Terni, centro della grande produzione olearia, non aveva che 46 frantoi, 36 macine per la molitura dei cereali, 12 piccoli opifici per concia di pellami e cuoi, 15 filande di seta, una valchiera per panni, una ramiera e una vetriera, tutta roba minuscola. A Jesi, Osimo, Senigallia, Città di Castello e Perugia, esistevano altre filande di seta, che non prosperavano, non ostante il nuovo dazio, che venne a colpire le gallette provenienti dall’estero.
Unica risorsa era la terra, i cui prodotti non sempre servivano ai consumi locali, esempio l’olio d’oliva, che s’importava dalla Toscana per circa mezzo milione di lire. Quelli della Sabina, dell’Umbria e della Ciociaria non bastavano ai bisogni dello Stato. Sola ricca esportazione era la canape insuperabile di Ferrara, Bologna, Cesena e Forlì, tanto largamente retribuita in Inghilterra. Era un po’ cresciuta l’esportazione, oltre Po e nel Modenese, degli animali e delle carni, della seta filata e del lino, dello zolfo e dei tessuti di paglia. Roma esportava oggetti d’arte, articoli di religione, ricotta salata e cacio pecorino, e la vita economica in tutto lo Stato seguitava a dibattersi fra le carestie e le crisi dell’abbondanza. Uomini ancora in vita ricordano, come un anno mancò quasi interamente il grano in tutta la Romagna, e la povera gente si alimentò di patate e di erbe cotte; un altro anno, a causa delle prime crittogame, mancò interamente il vino, che raggiunse prezzi favolosi; e un altro anno, il prodotto dell’uva fu così copioso, che, mancando i vasi vinari, in molti punti non si vendemmiò, e il vino discese al prezzo di quattro lire l’ettolitro. Le carestie avevano il triste strascico dei traffichini con le loro magagne, che il governo era impotente a combattere. In alcune città umbre erano stati fondati, dalla beneficenza dei signori, i così detti «magazzini dell’abbondanza »; e in tutto lo Stato, i Monti frumentari, singolarmente nelle provincie, dove la coltura del grano era unica ed esercitata da piccoli contadini affittuari, non mezzadri. Difatti n’era maggiore il numero nelle provincie di Velletri e Frosinone, nel Viterbese e nella Sabina, dove il Monte frumentario rappresentava una forma di beneficenza rurale, più che di credito agrario. Somministrava grano senza interesse, cioè senza aumentare di quantità nella restituzione; in altri comuni si riscuoteva un tenue interesse, ma, nell’un caso e nell’altro, l’aiuto, che ne traeva l’agricoltura, era misera cosa. La terra non godeva di alcun credito, nè fondiario, nè agrario; e con tante opere pie, le quali, trasformate almeno in parte, potevano. fare dello Stato del Papa uno dei più ricchi e felici d’Europa, regnava tuttavia l’usura nelle sue forme più losche e mordenti.
Veramente lo Stato della Chiesa non ebbe mai nulla di omogeneo e di organico, come Stato. Le varie regioni, che lo formavano, erano troppo diverse di razza, di storia, di geografia e di agricoltura, e Roma non ne integrava, nè attenuava le differenze, considerando le provincie di là dall’Appennino come possessi provvisorii; ed essendo le più ubertose, largamente sfruttandole. Le Legazioni difatti, con l’alta valle del Tevere, il piano da Spoleto a Perugia, e la parte litoranea della Marca picena e della Marca roveresca, coi porti canali di Senigallia, di Fano, di Pesaro, di Rimini e di Ravenna, formavano la parte più civile dello Stato; e, dati i tempi, la più prospera. Si aggiunga che il mare e il Po l’univano al mondo, sottraendola a quella condizione di semibarbarie, in cui giaceva l’immenso territorio, quasi abbandonato, da Orte e da Montalto a Roma, per il Viterbese, la Maremma, l’Agro e la Ciociaria, sino alla frontiera napoletana. Però Roma aveva maggiori contatti con le terre vicine. Velletri, Frosinone, Terracina, Viterbo, Civitavecchia e la Sabina erano a lei più strette che non fossero Bologna, Ferrara, Ravenna, Pesaro, Perugia e Ancona. A differenza di Napoli, che accentrava e napolitanizzava le sue varie regioni, ed era la capitale egualmente della Puglia e della Calabria, degli Abruzzi e dei Principati, Roma rappresentava il capoluogo delle provincie inferiori, più che la capitale politica di tutto il regno. Napoli era un governo fortemente accentratore, e Roma non era quasi un governo, nel senso che se non lasciava completa autonomia alle provincie lontane, non si metteva contro le tradizioni e le tendenze di esse, le quali avevano avuta per secoli una vita locale, turbolenta e faziosa, con signorie feudali, che assursero a gran potenza, ed ebbero questo di buono: favorirono l’arte, la beneficenza, la cultura e l’agricoltura. Signorie sopravvissute nei nomi e nelle memorie, e singolarmente nei titoli, verificandosi una caratteristica contraddizione in quei paesi, che mentre svisceratamente si affermano democratici, si inchinano ai titoli più che alla ricchezza, persuasi che con un titolo nobiliare si stia più degnamente nel mondo. Questa specie di autonomia formale, rispondente alle tradizioni storiche, il governo dei Papi rispetto anche nei giorni di peggior reazione, per cui in ogni provincia dell’Emilia e della Romagna, in questa a preferenza, delle Marche e dell’Umbria, vi era un determinato numero di personaggi, posti per comune consenso in una condizione, se non interamente di favore, di più alta considerazione sociale. Portavano titoli quasi tutti, ma non tutti erano ricchi; venivano adoperati nei governi locali, municipi, opere pie, e casse di risparmio, e anche come governatori e delegati, se non destavano sospetti politici.
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L’Appennino centrale forma, di qua e di là dai suoi versanti, valli innumerevoli, con alterne catene e contrafforti in tutt’i sensi, e di ogni formazione geologica, donde scaturiscono i numerosi corsi d’acqua, i quali, o con breve e torrenziale cammino vanno a morire nell’Adriatico, o scendono, per vie diverse, al Tevere. La viabilità delle montagne allora quasi non esisteva. Agli storici valichi dell’Appennino centrale, per la Scheggia e la Montagna Rossa, attraversando il Furlo, e al passo di Colfiorito, per scendere nella bassa Marca, si era aggiunto, nel 1830, quello di Bocca Trabaria o delle Sette Valli, a mille e più metri sul mare, costruito dai due Stati, per congiungere l’alta valle del Tevere e una parte della Toscana alla Marca di Pesaro, anzi, come si disse, Livorno con Ancona. Valico ardimentoso, dove si scopre tanta bellezza di paese, dall’Alvernia alla Falterona e al Subasio. Nè d’allora fino al 1860 fu aperto altro valico. Le Legazioni, le Marche e l’Umbria, pur avendo una rete stradale propria, erano mal congiunte fra loro, e separate da Roma da una geografia alpestre. Vivevano vita locale con le loro frequenti feste religiose, i più frequenti mercati, e fiere, e traffici propri, immagine di piccolo cabotaggio terrestre.
Nell’agricoltura delle tre regioni era in prevalenza la mezzadria, e le condizioni dei lavoratori erano soddisfacenti nel Bolognese, nel Ferrarese, nella Marca Marittima, e discrete nell’alta Umbria. Il bestiame da lavoro non mancava. Si solcava la terra con aratri imperfetti sì, perchè la meccanica agricola non era quella di oggi, ma tirati da tre e quattro coppie di buoi, e si perfezionava il lavoro con la vanga, che ha la punta d’oro, come dicono i contadini in quelle parti. Ma appena sulle colline e sulle montagne, o nelle valli anguste e malsane del latifondo, la condizione mutava a vista d’occhio, e sull’alto Appennino vive ancora una popolazione infelice, sorretta soltanto da un senso di rassegnazione, quasi non umana; popolazione, che si alimenta di pane di granturco, e non conosce la carne, nè il vino, e il cui governo spirituale era allora affidato unicamente ad un parroco povero ed ignorante, e, come don Abbondio, pauroso di chiunque fosse o paresse potente. In quelle gole di monti non penetrava raggio di beneficenza, nè d’istruzione. Gli stessi caratteri di abbandono e di miseria sì riscontravano nella numerosa classe dei lavoratori braccianti della bassa Romagna e del Ferrarese, singolarmente della regione malarica, dove si coltivava il riso; e si verificava altresi nelle valli del Sacco, dell’Aniene e del Liri, ma in queste genti era men profondo il senso della rassegnazione, più risentita l’indole, non attenuati gli odii dal sentimento religioso, e più sviluppate le tendenze al coltello e al fucile. Esse dettero in ogni tempo largo ‘contributo al brigantaggio, da quello leggendario di Gasparone, alle comitive feroci, che pullularono dal 1860 al 1870. Le condizioni delle plebi rurali erano inverosimilmente pietose in tanta parte dello Stato; e intorno a Roma, nella vasta insalubre region, erano peggiori quelle dei pecorari e dei contadini, quasi tutti abruzzesi, che, colpiti dalle febbri, trovavano ricovero negli ospedali, unico conforto in tanto abbandono. Ma neppure l’ospedale era riserbato ai lavoratori della montagna. Il governo pontificio pareva educatore, ma repugnava da ogni vigorosa azione educatrice; pareva un governo sensibile alle voci della miseria, e le popolazioni rurali, disperse sul grande Appennino, e nelle valli suddette più alte, erano abbandonate a sè stesse. Però, prive della coscienza della propria infelicità, non rappresentavano un pericolo politico. Non esistendo coscrizione, e il mondo di tutti allargandosi sino al vicino borgo, o alla vicina selva, non vi erano contatti pericolosi. Il bisogno di vedere garantite la libertà personale e la sicurezza nelle campagne; laicizzata e purgata la giustizia e l’amministrazione pubblica; sottratte le opere pie al monopolio ecclesiastico, e distribuite onestamente le rendite fra tutti gl’infelici: questo insieme di desiderii e di bisogni, che formava ciò che si diceva «liberalismo», non allignava che nelle città e nelle classi civili e borghesi. La campagna non dava forza alle idee liberali, e anche nelle città di qua e di là dall’Appennino vi era troppa gente indifferente, la quale, per indole egoistica, non si occupava che degli affari propri, felice di servire qualunque padrone, nè volendo brighe di nessun genere.
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Facendo un confronto fra i bilanci municipali delle principali città dello Stato del 1859, con quelli di oggi, apparisce dappertutto la stessa differenza, notata nel bilancio della città di Roma. A Bologna, le entrate, risultanti dal consuntivo del 1859, ammontavano a scudi 296,972, pari a lire 1,508,726; le spese bilanciavano, con poca differenza in avanzo. Nel 1904 l’entrata è salita a lire 8,585,709; dunque, in 45 anni, il bilancio di Bologna è cresciuto sette volte, anzi per opere pubbliche e istruzione si spende circa il doppio di tutto il bilancio del 1859, cioè lire 2,434,318. E Perugia, che aveva nel 1860 un bilancio di 65,220 scudi, pari a lire 346,972, oggi ne ha uno di circa un milione e 350,000 lire; spende anch’essa, come Bologna, per la istruzione primaria una cifra assolutamente incomparabile con quella di allora. Nell’ultimo anno di governo pontificio spendeva per l’istruzione elementare 1436 lire, con sole tre scuole in città e 220 alunni. Oggi ne spende 152,248, ed ha 44 scuole in città, 49 in campagna, e 4414 alunni iscritti. Nei bilanci di città di second’ordine appariscono gli stessi risultati. A Pesaro, nell’esercizio 1859-60, l’attivo era di soli 36,000 scudi, pari a lire 191,520; e quello del 1905, ha superato il milione. Forli, da un bilancio di 46,583 scudi, è salito a lire 1,655,703; e Città di Castello, men popolata di Pesaro e di Forli, nè sede di provincia, e neppur di circondario, ha aumentato il proprio bilancio, da lire 92,658, a 251,000. Nelle città di minore importanza l’aumento si verifica in proporzioni minori, ma non meno del doppio in nessuna. I bisogni morali e le condizioni economiche di allora sì rispecchiano in quei bilanci, ma sarebbe audace asserire, che come sono cresciuti i bisogni nei nuovi tempi, sia cresciuta la ricchezza pubblica. È invece da notare che tutti i comuni s’indebitarono più o meno gravemente per soddisfare bisogni veri, e anche fittizi; lavori per vie interne ed esterne, per illuminazioni, risanamenti igienici, condotte d’acqua, scuole primarie, e bisogni convenzionali, come teatri, giardini, e ginnasi inconcludenti. I bisogni crebbero geometricamente, ma la pubblica ricchezza solo aritmeticamente, per cui occorsero nuove imposizioni, oltre quelle tanto gravose dello Stato. Allora c’era più equilibrio; non si viaggiava, e mancando la stampa libera non si facevano confronti; oggi ogni equilibrio è rotto, e il contrasto è più stridente: ma qual differenza in meno di mezzo secolo! Bologna, Forlì, Ravenna, Rimini, Perugia, Spoleto, Ancona, Pesaro, quasi non si riconoscono; tutto vi sembra rinnovato esteriormente, tranne Cesena, che ha conservata la sua simpatica impronta, fra la città medievale e il borgo campestre. La loro floridezza economica è tanto cresciuta. I beni ecclesiastici e le ferrovie hanno aumentato, quasi in tutto l’antico Stato, il numero dei piccoli possidenti, dei trafficanti e dei mercanti di bestiame. Poteva farsi di più, anzi, doveva farsi di più, dando al patrimonio ecclesiastico una destinazione, quale era richiesta dalle esigenze economiche e sociali di alcune provincie. La visione dei nuovi bisogni sociali non l’ebbe la nuova Italia, come non l’aveva avuta in tanti secoli il governo pontificio. Questo non pensò neppure a rifare la circoscrizione ecclesiastica, riducendo l’eccessivo numero di diocesi e di seminari, di monasteri e di parrocchie; anzi, e parrocchie e monasteri crescevano per dar collocamento a chierici e a novizi, che non trovavano a far di meglio nel mondo. Quelle parrocchie erano le più povere di Italia. Se lo Stato italiano, sopprimendo la manomorta, ma conservando la vecchia circoscrizione, ridusse a mal partito i seminari, con la legge del 4 giugno 1899 pose più di 10,000 parroci, e singolarmente quelli dell’antico Stato del Papa, nella condizione di tirar la vita con maggior decoro.
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Il sentimento del mutuo soccorso laico, e quello del risparmio si affermava a preferenza nelle provincie più lontane da Roma: il primo, con piccoli contributi, poichè il soccorso era limitato ai casi di malattia, e il secondo con l’iniziativa di pochi volenterosi, laici ed ecclesiastici, in veste di fondatori o di azionisti a fondo perduto. A Città di Castello, nel 1846, fu fondata da un benemerito sacerdote, don Giambattista Rigucci, una società laica, detta di mutua cristiana beneficenza, che tuttora prospera; e nel 1855, da pochi cittadini volenterosi fu istituita una di quelle casse di risparmio, che da parecchi anni fiorivano nelle Legazioni e nelle Marche. Le più antiche erano quelle di Roma, di Bologna, di Ravenna, di Ferrara, di Forlì, di Rimini ed altre. Quando nel 1836 fu fondata la cassa di risparmio di Roma, che è la prima, per ordine di tempo, dello Stato romano, sommavano a pochissime quelle esistenti in Italia, e le principali erano sorte a Venezia, Milano, Torino e Firenze. Le casse di risparmio si diffusero però rapidamente nelle provincie papali, tra il 1836 e il 1860, e si costituivano con la forma anonima, fondate con piccoli capitali raccolti per pubblica sottoscrizione, rimborsabili compatibilmente con le condizioni dell’istituto, e non produttivi d’interessi, o di altre rimunerazioni.
Il governo pontificio, sia detto a sua lode, non solo non ostacolava tali iniziative, ma le favoriva. Così la cassa di Bologna sorse con l’appoggio del cardinale legato Vincenzo Macchi; quella d’Imola, per iniziativa del cardinale Baluffi; quella di Fabriano, del vescovo e dell’accademia dei «Disuniti»; di Fermo, della pia consociazione, o conferenza di san Vincenzo di Paola. Così a Camerino l’arcivescovo e il delegato apostolico sono i primi sottoscrittori; a Foligno la promuove il vescovo, a Terni pure il vescovo monsignor Tizzani; a Civitacastellana, il vescovo monsignor Mengacci; a Velletri, monsignor Achille Mauri Ricci, delegato pontificio, e a Viterbo, monsignor Lasagni. L’interesse pagato ai depositanti era basso, in generale il 4 per cento: invece sotto il governo italiano, peggiorate le condizioni generali economiche, il tasso si accrebbe fin verso il 1880, e nel decennio successivo cominciò a diminuire, toccando il minimo ai nostri giorni, nel generale risorgimento economico. Le operazioni erano di solito lasciate al prudente arbitrio degli amministratori, nè essi ne facevano mal uso, perchè l’andamento finanziario degli istituti era generalmente lodevole. Gli amministratori prestavano il loro ufficio gratuitamente, e spesso facevano altrettanto gli impiegati. L’investimento, preferito nelle Legazioni e nelle Marche, era il cambiario; nel Lazio l’ipotecario. Anche oggi la cassa di Roma sì interdice sistematicamente le operazioni cambiarie. L’acquisto di titoli era relativamente scarso, specie per l’alto corso dei valori pubblici. Però la cassa di Roma sin dal 1840 teneva impiegate in titoli circa 770 mila lire, che nel 1860 erano divenute due milioni e 75 mila lire; e nel 1870 5 milioni e 700 mila. Gli utili andavano ad accrescere il patrimonio a garanzia dei depositi, e solo piccolissima parte era devoluta a scopi di beneficenza, o di pubblica utilità. Non esisteva da parte dello Stato una vigilanza tecnica, e nondimeno non si ebbe alcun esempio di sperpero o di frode. Vi era insomma un complesso di condizioni favorevoli, per cui si poteva ritenere, che, mutati i tempi, quei piccoli istituti sarebbero assorti ad una straordinaria importanza. E basta tener presenti i risultati dell’ultima statistica, per vedere come quelle casse sieno salite a così grande potenza. Roma ha oggi 111 milioni, fra patrimonio e depositi; Bologna 58; Ferrara 27; Ravenna 14; Imola, Forli, Jesi, Macerata, Rimini, Ascoli, Fermo, Terni, Foligno e Pesaro, dai 5 ai 9 milioni; mentre nel 1859, Bologna non arrivava ai dieci milioni, e così via via, nelle stesse proporzioni, tutte le altre.
Se le casse di risparmio dunque erano parecchie, e relativamente fioride, di società di assicurazioni ne viveva una sola, stentatamente. Benchè privilegiata, operava nelle sole provincie di Bologna, Ferrara e Ancona. L’assicurazione era ritenuta superfiua, essendo ciascuno persuaso che la Provvidenza garantiva le cose; e la beneficenza, le persone. Dopo il 1859 la società non lavorò più nelle provincie insorte, lasciandovi libero il campo alla Venezia, che tentò di penetrare in Roma, ma non le fu possibile prima del 1863. Nel dicembre di quell’anno giunse nell’ urbs colui, ch’era ritenuto il più capace agente della società, Marco Besso, il quale dovè superare non pochi ostacoli, per ottenere alla Venezia il permesso di lavorare. La prima difficoltà fu quella dello stemma. Monsignor Pila, ministro dell’interno, consentiva, ma a patto che, invece del leone di san Marco, vi fosse l’aquila austriaca, essendo Venezia parte dell’impero. La società non voleva saperne, e allora, fra il Besso e il ministro pontificio, fu combinato che dallo stemma fosse esclusa qualunque bestia, l’aquila come il leone. La Venezia iniziò le sue operazioni nel 1864, avendo per agente Marino Morelli, e la sua prima sede fu al Corso, presso San Carlo, dove stette più di trent’anni. Il Morelli, proposto alla società dal Checchetelli, fu il capo dell’agenzia di Roma, finchè visse. Ma la società rimediava appena le spese. L’assicurazione non entrava nelle abitudini romane; la fede religiosa, la beneficenza e la consuetudine degl’impieghi dinastici, tenevano luogo dell’assicurazione sulla vita. Mancando impianti industriali, e con la convinzione popolare, che, per l’abbondanza dell’acqua e il buon servizio dei vigili, non fossero da temere gl’incendi, non si assicurava contro il fuoco, che qualche pagliaio o fienile. Fra le varie assicurazioni sulla vita si ricordano particolari curiosi. Assicuravano per il periodo di due anni, e per la somma di 72 scudi, gl’israeliti convertiti al cattolicismo, i quali avevano quella somma in premio, per effetto di un legato Rospigliosi; ma la somma doveva pagarsi due anni dopo la conversione, e in caso di morte, la famiglia non aveva diritto a nulla. Ora avvenne che, per effetto dell’assicurazione, divenuto certo il premio, crebbe il numero dei catecumeni, verificandosi il caso che le stesse persone, sotto vario nome, sì convertissero due volte, percependo due volte il premio. La società, scoperta la magagna, non fece più assicurazioni agli ebrei convertiti. Gli ecclesiastici non credevano all’assicurazione, e solo qualche prelato, con molte cautele, assicurava a favore di nipoti, e sì ricordava, fra i primi, monsignor Prosperi.
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La marina mercantile aveva per principale risorsa il contrabbando. Sul Mediterraneo correvano 157 chilometri di costa, e 198 sull’Adriatico, ma non si contavano, nel 1858, che 196 legni nazionali, sulla prima, e 1069 sulla seconda, comprese, naturalmente, le più piccole barche da pesca, e queste in maggior numero. La marina mercantile era dunque poverissima. Per spiegare la differenza fra il numero delle navi sulle due spiagge, bisogna ricordare che la Mediterranea era tutta malarica, e tranne Civitavecchia e Porto d’Anzio, e un po’ Terracina e Fiumicino, non avea scali, nè approdi, nè abitanti; mentre l’Adriatica era salubre e popolata da grosse città e porti canali. La pesca veniva esercitata quasi esclusivamente da pescatori napoletani sul Mediterraneo, e da molte barche chioggiotte sull’Adriatico, iscritte come nazionali; anzi dalle foci del Po a Cesenatico, e fino a Rimini, la pesca era fatta quasi esclusivamente da marinai di Chioggia; e più giù, da Pesaro a San Benedetto, da marinai di Pesaro, di Fano, di Senigallia e di Ancona, ma particolarmente di Fano, reputati i più pratici del mestiere.
Tranne Leone XII, nessun Papa rivolse l’attenzione alla marina da pesca sul Mediterraneo. Leone fece eseguire, nell’arsenale di Civitavecchia, alcune paranze da concedersi ad intraprenditori, accordando loro dilazioni nei pagamenti, e vagheggiò pure il progetto di costruire abitazioni per i pescatori lungo la spiaggia; ma, morto lui, più non se ne parlò. Pio IX ordinò, nell’ultimo suo viaggio nelle provincie, opere di allargamento nel porto canale di Senigallia, di Rimini, di Pesaro, e in quello Corsini a Ravenna. In verità la condizione di quei porti era miserevole, perchè mal difesi dalla triste bora nell’inverno, ed esposti al pericolo d’interramento. Servivano a custodire le pittoresche paranze, dall’ampia e colorata vela latina, e dalla piccola vela di trinchetto: barche e paranze, che trasportavano anche ortaggi e frutta sulla sponda illirica e dalmata. Gli approdi al sud di Ancona, alle foci del Musone, del Potenza, del Tronto erano malsicuri anche alle barche di minor portata. Sull’Adriatico non vi era in sostanza che il porto di Ancona; e sul Tirreno, quello di Civitavecchia.
Nel 1878, venti anni dopo, il numero di legni era salito nell’Adriatico a 1572, e nel Mediterraneo a 274; gli uni e gli altri della capacità di 31,165 tonnellate. In venti anni si era fatto un grande cammino. Dopo il 1860, al Papa non restò che la spiaggia tirrena. La rivoluzione e Castelfidardo gli portarono via tutta la costa, dal Po a San Benedetto. Oggi invece di legni mercantili, da Chioggia a San Benedetto, esclusi quelli ascritti al compartimento di Chioggia, ve ne sono 309 a vela, da commercio e parecchi a vapore, 1290 barche da pesca, e poco meno di mille galleggianti al servizio delle spiaggie e dei porti, fra rimorchiatori, barche a vapore, pirodraghe, pontoni, gozzi, barche-cisterna, bastimenti-magazzini, barconi e battelli per soccorsi. E sulla spiaggia tirrena, se le sole barche da pesca iscritte nelle matricole del compartimento di Civitavecchia, che comprende tutta l’antica spiaggia pontificia, sono oggi 190, il tonnellaggio dei legni commerciali è straordinariamente aumentato. Civitavecchia è divenuta uno dei maggiori porti di approdo della navigazione a vapore, con nove piroscafi inscritti nella sua matricola, e trentasei navi a vela. Però la spiaggia è rimasta malarica, nonostante le nuove bonifiche di Ostia e Maccarese, le nuove costruzioni fra Palo, Santa Marinella e Civitavecchia, e le due strade ferrate di Porto d’Anzio e di Fiumicino.
Note
- ↑ Angelo Galli, Cenni economico-statistici sullo Stato pontificio. Roma, tip. Camerale, 1840, grosso volume di oltre 500 pagine.