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338 | capitolo xvii. |
gli impiegati. L’investimento, preferito nelle Legazioni e nelle Marche, era il cambiario; nel Lazio l’ipotecario. Anche oggi la cassa di Roma sì interdice sistematicamente le operazioni cambiarie. L’acquisto di titoli era relativamente scarso, specie per l’alto corso dei valori pubblici. Però la cassa di Roma sin dal 1840 teneva impiegate in titoli circa 770 mila lire, che nel 1860 erano divenute due milioni e 75 mila lire; e nel 1870 5 milioni e 700 mila. Gli utili andavano ad accrescere il patrimonio a garanzia dei depositi, e solo piccolissima parte era devoluta a scopi di beneficenza, o di pubblica utilità. Non esisteva da parte dello Stato una vigilanza tecnica, e nondimeno non si ebbe alcun esempio di sperpero o di frode. Vi era insomma un complesso di condizioni favorevoli, per cui si poteva ritenere, che, mutati i tempi, quei piccoli istituti sarebbero assorti ad una straordinaria importanza. E basta tener presenti i risultati dell’ultima statistica, per vedere come quelle casse sieno salite a così grande potenza. Roma ha oggi 111 milioni, fra patrimonio e depositi; Bologna 58; Ferrara 27; Ravenna 14; Imola, Forli, Jesi, Macerata, Rimini, Ascoli, Fermo, Terni, Foligno e Pesaro, dai 5 ai 9 milioni; mentre nel 1859, Bologna non arrivava ai dieci milioni, e così via via, nelle stesse proporzioni, tutte le altre.
Se le casse di risparmio dunque erano parecchie, e relativamente fioride, di società di assicurazioni ne viveva una sola, stentatamente. Benchè privilegiata, operava nelle sole provincie di Bologna, Ferrara e Ancona. L’assicurazione era ritenuta superfiua, essendo ciascuno persuaso che la Provvidenza garantiva le cose; e la beneficenza, le persone. Dopo il 1859 la società non lavorò più nelle provincie insorte, lasciandovi libero il campo alla Venezia, che tentò di penetrare in Roma, ma non le fu possibile prima del 1863. Nel dicembre di quell’anno giunse nell’ urbs colui, ch’era ritenuto il più capace agente della società, Marco Besso, il quale dovè superare non pochi ostacoli, per ottenere alla Venezia il permesso di lavorare. La prima difficoltà fu quella dello stemma. Monsignor Pila, ministro dell’interno, consentiva, ma a patto che, invece del leone di san Marco, vi fosse l’aquila austriaca, essendo Venezia parte dell’impero. La società non voleva saperne, e allora, fra il Besso e il mi-