Roma e lo Stato del Papa/Capitolo XVI

Capitolo XVI

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CAPITOLO XVI.

Teatri, giornali e strenne.



Sommario: Dal 26 dicembre al martedì avanti le Ceneri. — Il teatro Apollo e l’impresario Iacovacci. — Alcuni ricordi di costumi teatrali di altri tempi. — Il teatro Apollo e l’inondazione del Tevere. — Gendarmi e vigili fanno il servizio interno. — Le barcacce. — La fossa dei leoni e la bagnarola di Susanna. — La gerarchia nel teatro. — I veglioni. — Il colonnello Nardoni intrigato da una maschera. — I prezzi dei biglietti. — La prima rappresentazione del Ballo in maschera. — Verdi a Roma. — I censori pontifici più ragionevoli dei censori di Napoli. — L’esecuzione della nuova musica — La Julienne Dejean, Fraschini e Gilardoni. — Giudizi sull’opera. — La lettera di un superstite professore d’orchestra. — Aneddoti su Verdi e la Julienne — Il teatro Valle. — La Ristori e Salvini. — Don Bartolomeo Ruspoli siede a disagio sui banchi della platea. — Il Valle non aveva abbonati. — Le varie compagnie. — Al Corea e al Metastasio. — Vitale e Baracchini. — Il teatro dialettale via via sparisce. — Petito a Roma. — Dimostrazioni politiche. — Che volete sperare da un uomo che sì chiama Giovanni? — Scempiaggini della censura. — I giornali. — Il Giornale di Roma solo quotidiano. — Come era fatto. — Come annunziò la morte di Spontini. — Altri particolari. — Polemiche coi giornali piemontesi. — La quinta virtù teologale è l’odio ai liberali. — Giornale medico e Giornale delle strade ferrate. — L’omeopatia aveva una rivista. — L’ Album e il Tiberino. — Il Bonarroti e l’ Eptacordo. — I loro collaboratori. — Giornali religiosi. — La Vergine, il Divin Salvatore e il Veridico. — Giornalisti profani e sacri. — Le strenne. — Paolo Emilio Castagnola e Giovanni Torlonia. — Gli scrittori assidui delle strenne. — Così son giunto al diciottesim’anno! — Saggi di versi. — Un inno ad Emma Gaggiotti. — I fiori della campagna romana. — La censura non risparmia le strenne.


Con la stagione del carnevale, che cominciava il 26 dicembre, e terminava il martedì innanzi le Ceneri, si apriva la vita dei teatri. Vi era spettacolo tutte le sere, tranne i venerdì, e il primo e il due febbraio, vigilia e festa della Purificazione. Il gran teatro dell’opera era il Tordinona, o teatro di Apollo, da gareggiare, non per ampiezza o bellezza e assai meno per comodo, ma per tradizione d’arte, con i maggiori d’Europa. Sul [p. 301 modifica]conto dell’impresario Vincenzo Iacovacci esisteva una specie di leggenda. Se egli, in tanti anni d’imprese teatrali, non lasciò fortuna, le vicende della sua vita d’impresario furono tante da formare un volume. Buon suddito del Papa e buon cristiano, gli era anche di tornaconto poter disporre della polizia per tenere a segno la sua gente, e soprattutto il corpo di ballo, e domare i capricci di cantanti e ballerine. Egli stesso aveva esperimentato i rigori della polizia, quando nel 1841, avendo venduto, per la prima rappresentazione dell’Adelaide del Donizetti, un numero di biglietti al di là della capacità del teatro, fu arrestato, e sequestrata la cassa degl’introiti. Quella stessa sera vi fu gran rumore in teatro, perchè il principe Antonio Santacroce dette uno schiaffo ad Angelo Mariscotti, «per alcune espressioni ingiuriose, che questi proferiva ad alta voce contro i deputati degli spettacoli, uno dei quali era il duca di Corchiano, padre del primo». Così narra Agostino Chigi nel suo Diario, pubblicato di recente da Cesare Fraschetti1. Il Santacroce andò in prigione, e vi stette tredici giorni, e ne uscì in seguito a scuse fatte al Mariscotti, in casa dell’ambasciatore di Francia. Il Iacovacci tornò in libertà il giorno dopo, pagando una multa di cento scudi. Morì vecchio; e a breve distanza, il teatro, che fu il suo regno per mezzo secolo, venne demolito.

Ma sia detto a suo onore, le rappresentazioni promesse nel cartello di appalto egli le manteneva. Quando il Tevere inondava le vie di accesso al teatro, egli era pronto ad ordinare i ponti mobili, che il municipio teneva a sua disposizione; e attendeva al comico salvataggio, dando ordini con la sua voce chioccia e lamentosa. Scaltro, come tutti gl’impresari, non si macchiò di nessuna birberia. L’apertura dell’Apollo era senza dubbio il maggior avvenimento mondano della società di quel tempo: sfarzose le acconciature, e gran lusso di gioielli, da parte delle signore dell’aristocrazia, e del «generone», ma con differenza di gusto. Monsignor governatore occupava il palco di fronte, e il Matteucci non vi mancò mai.

[p. 302 modifica]I gendarmi e i vigili, in alta tenuta, facevano il servizio interno. Dopo il primo atto, si aprivano le porte dei palchi, della seconda e terza fila, e si servivano i sorbetti, da camerieri correttamente vestiti. La prima fila era quasi interamente occupata dalle barcaccie; quella di proscenio si appellava la fossa dei leoni, e vi si vedevano i giovani eleganti del tempo, detti anche «gl’irresistibili», l’Origo, il Calabrini, il Bentivoglio, il Troili, Onorato Caetani, sulla cui fronte spiccava il ciuffo bianco tra una selva di capelli castani. Presidente di quella barcaccia era il duca Giulio Lante della Rovere, già ufficiale di Napoleone primo, e felice di mostrare il nastro della Legion d’onore, conferitagli dal grande imperatore. Un’altra barcaccia, detta la bagnarola di Susanna, occupava due palchi, ed aveva per capo il duca Mario Massimo. Frequentata da nobili, n’erano i più assidui il principe Santacroce, il principe Altieri, il bibliomane Baldassare Boncompagni, il principe Giovanni Ruspoli, e qualche fortunato ricco borghese, come Valerio Trocchi di Aquila, l’aimable Trocchi, nonchè il marchese Migliorati, e poi con maggiore frequenza il conte della Minerva, e don Giacomo De Martino, buoni amici, nelle apparenze. Una terza barcaccia apparteneva ai più doviziosi mercanti di campagna e la frequentavano, fra gli altri, Luigi Silvestrelli, Pietro de Angelis, Luigi Mastricola, Vincenzo Tittoni e Felice Ferri. Delle altre di minor conto è superfluo far menzione. Il secondo ordine rappresentava la high-life dell’aristocrazia e diplomazia; il terzo ordine, la vistosa borghesia, o generone; e il quart’ordine l’impiegatume laico dei ministeri, del municipio e delle congregazioni ecclesiastiche. Ai preti era proibito andare a teatro, ma vi andavano in borghese, e occupavano l’ultimo ordine. La gerarchia sociale si affermava, come si vede, anche negli spettacoli all’Apollo, nè era neppure da sospettare che l’impresario Iacovacci commettesse un’infrazione negli abbonamenti dei palchi di prima e seconda classe.


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Negli ultimi otto giorni del carnevale erano permessi quattro veglioni: due all’Apollo, e due all’Argentina. Il primo aveva luogo la sera di giovedì grasso, e cominciava alle otto e finiva [p. 303 modifica]alle undici, per rispetto del venerdi; l’altro, dalla mezzanotte del venerdì alle sei della mattina del sabato, e si chiamava festino a notte lunga; il terzo, dalla mezzanotte della domenica fino alle sei antimeridiane del lunedì; e l’ultimo, la sera del martedì, dalle 8 alle 10 1/2, e veniva ritenuto il più distinto, perchè la borghesia era occupata alle cene, e l’aristocrazia cenava più tardi. Per entrare a questi veglioni era obbligatorio l’abito di società, quando non si era in maschera. Lo spirito e la buona educazione rendevano assai piacevoli quei ritrovi mondani, e se qualche mascherina si abbandonava a non lecite conversazioni, veniva messa alla porta da abili poliziotti. Maschere, qualche volta spiritosissime, intrigavano l’intera sala. Una sera fu incontrato da una di queste il colonnello Nardoni dei gendarmi, incaricato specialmente di carcerare le persone sospette di liberalismo. La maschera gli disse: come va, Nardoni? E voltandosi ai vicini, e alzando la voce, esclamò: signori, questo è un grande artista, non vi è che lui per legare le pietre preziose, e fuggi. Lo spavaldo colonnello restò mortificato.

Un palco di prim’ordine costava in abbonamento poco meno di mille lire, pagabili a 245 lire per rata; ma Orsini, Colonna e Torlonia erano le sole famiglie del patriziato che avessero il palco intero, le altre ne prendevano la metà, o un quarto. Le ricevute del Iacovacci, stampate malamente, erano intestate così: «Teatro di Apollo», con la firma, per esteso, dell’impresario, e un timbro grossolano con le iniziali dello stesso, e che pareva una testa di morto. Il biglietto di platea costava sessanta baiocchi a sedere, e quaranta per stare in piedi. Non c’erano biglietti d’ingresso, anzi si ricorda che quando si lesse nel cartello di appalto del 1859 che il prezzo a sedere era portato a sessanta baiocchi, cioè a tre lire, si protestò e si chiamò ladro il povero Iacovacci.


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La grande festa dell’arte, una delle più memorabili negli annali dei teatri italiani, fu quella che si compì la sera del 17 febbraio 1859 all’ Apollo, quandò andò in iscena Un ballo in maschera del Verdi. La fama del maestro si era affermata in Roma col Trovatore, sei anni prima. Grandissima [p. 304 modifica]aspettazione, dunque, e concorso quale di rado si vide a quel teatro per la nuova opera, nonostante che la piena del Tevere rendesse impraticabili le vie. Vi contribuiva, oltre alla fama del maestro, e alla sua presenza in Roma, un insieme di curiosità e circostanze, concernenti l’opera, che seguiva a così poca distanza il Trovatore, il Rigoletto e la Traviata. Si sapeva che Un ballo in maschera era stato preparato per Napoli sotto il nome di Gustavo III; che la censura voleva introdurvi una quantità di storpiature, e il Verdi non aveva voluto subirle; e che, a trarlo d’imbarazzo, era andato a Napoli il Iacovacci, e senza tanti complimenti, gli aveva proposto di rappresentare l’opera a Roma, dove non avrebbe trovato noie di censori pedanti o zelanti. Pareva impossibile che venisse permesso a Roma, ciò che si era proibito a Napoli, per ragioni di opportunità politica. Ma il Iacovacci si faceva forte di vincere ogni resistenza, come ne vinse subito una, scritturando su due piedi il tenore Fraschini, che il Verdi reputava necessario al buon esito del nuovo spartito. E ripartì col libretto del Ballo in maschera, promettendo di ottenere nello spazio di otto giorni il nulla osta dalla censura pontificia. Ci vollero veramente due mesi per ottenerlo; e il consenso fu dato non per Gian Giacomo Ankarstroen, uccisore di Gustavo III a Stoccolma in un ballo in maschera, nella notte dal 15 al 16 settembre 1792, ma per un conte Renato, uccisore del governatore di Boston, conte di Warwich, e portando la scena in America. I censori pontifici furono meno esigenti dei napoletani, che temevano di far cosa non gradita all’imperatore Napoleone approvando, dopo l’attentato di Orsini, un libretto, nel quale era, per congiura, ucciso un principe regnante. La censura pontificia mutava i nomi, ma non intaccava il soggetto, e il Verdi se ne accontentò. Anche qualche altra cosuccia ritoccò la censura nel libretto del Somma. I versi del primo atto:

È scherzo od è follia
Siffatta profezia?


si mutarono, per rispetto ai profeti, in questi altri:


È scherzo od è follia
Che da quei labbri uscìa?

[p. 305 modifica]Quanti scrissero del Verdi e delle sue opere, e singolarmente il Barrili, il Checchi, il Monaldi, Folchetto, il Bragagnolo e il Bettazzi, e il mio defunto amico Alessandro Pascolato, che pubblicò le curiose e interessanti lettere, che si scambiarono il Verdi e il librettista Somma, a proposito del Ballo in maschera e della censura, riferiscono una quantità di aneddoti ed episodi, circa le prime rappresentazioni di quell’opera. Verdi, venendo a Roma, abitò un quartiere mobiliato in Campo Marzio, trovatogli dallo scultore Luccardi; faceva cucina in casa e a tal fine il Luccardi, suo vicario in Roma, gli aveva procurata una cuoca.


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Nonostante l’esito trionfale, il Ballo in maschera non ebbe un’esecuzione perfetta, particolarmente per la Julienne Dejean, nella parte di Amelia. Alla sua bella voce di soprano drammatico la Dejean non accoppiava pari sentimento e difettava d’intonazione. Il Fraschini e il Giraldoni cantarono perfettamente, e tale fu pure il giudizio dell’Eptacordo, il più autorevole dei giornali teatrali del tempo. Nondimeno il successo fu colossale, e nella seconda rappresentazione raggiunse gli estremi del fanatismo, dicono i superstiti. Nella Gazzetta musicale del 20 febbraio leggevasi il seguente telegramma, spedito da Roma alla mezzanotte del sabato 17, appena dopo la seconda rappresentazione: «Opera Verdi Un ballo in maschera seconda rappresentazione previsioni avverate. Pezzi, attori applauditissimi tutti, meno signore Scotti e Sbriscia. Maestro trenta chiamate. Successo immenso. Deciso entusiasmo».

Nel telegramma il corrispondente fa grazia alla Julienne, sebbene non la meritasse. Verdi si dolse della cattiva esecuzione coll’impresario Iacovacci, il quale, furbo e pronto come sempre, non si smarrì e rispose ridendo: Baie, baie! Alla prossima stagione avrò tre cantanti migliori: il pubblico troverà il lavoro ancor più di suo genio, e la cassetta s’impinguerà maggiormente! Fra i superstiti professori d’orchestra, il Branzoli, primo violino in quell’occasione, ricorda che:

...l’opera ebbe un esito tanto colossale che descriverlo sarebbe impossibile; le parti principali furono affidate agli artisti Fraschini tenore; Giraldoni [p. 306 modifica]baritono, due artisti che in quest’opera non furono mai superati. La parte di Amelia era affidata alla signora Jullien-Dejanne francese. Forse per la sua pronunzia o per la sua scuola di canto, o perchè non avesse il fine sentimento artistico pari all’altezza del lavoro musicale, ella si mostrò in quest’opera poco più che mediocre, specie in confronto del Fraschini e del Giraldoni. In una delle prime prove d’insieme, il maestro Verdi lagnandosi con la prima donna pel modo poco corretto con cui eseguiva la propria parte, essa rispose: potrebbe passarmela lei la mia parte. A queste parole il maestro ribattè alquanto bruscamente col dire: che esso non faceva il ripetitore a nessuno, e che un’artista che s’accinge a presentarsi in un teatro come l’Apollo deve saper cantare e deve avere imparata la parte come si deve. Dopo di ciò alla meglio si venne alla prima rappresentazione, e se il maestro Verdi permise che la signora Julienne si presentasse al pubblico, si deve ritenere che fosse passabile. Dato poi che la contralto ed il paggio erano pure deficienti e che in seguito ad una piccola malattia sopravvenuta al Giraldoni dopo la seconda rappresentazione, vennero sospese le recite dell’opera, naturalmente in molti venne l’idea che quel ritardo fosse fatto per cambiare qualche artista. Invece, quando il Giraldoni fu guarito, si ripresero le rappresentazioni con maggior furore di prima e senza cambiare artisti. Iacovacci, ch’era l’impresario, visto che Verdi non era rimasto soddisfatto della compagnia di canto, promise al maestro che al più presto avrebbe nuovamente fatto eseguire il suo Ballo in maschera, ora che ne aveva capita l’importanza, con artisti di prim’ordine; infatti in meno di un anno, l’opera si ripetè con cantanti distinti e lunga serie di rappresentazioni. Al Giraldoni successe il Coletti, anche lui artista meraviglioso.


Verdi abitò dunque in Campo Marzio, nella prima casa a sinistra, entrando dalla Maddalena. Prima di assistere alle prove generali, egli faceva le singole prove a casa, sul suo pianoforte, che per mezzo del Luccardi aveva preso in fitto, e di rado era soddisfatto delle prove, e cortese coi cantanti. Un giorno fu sul punto di perdere la pazienza con la Dejean, se non fosse intervenuta in tempo la signora Strepponi, sua moglie. Nè era meno esigente coi professori d’orchestra, ed in particolare col contrabbassista, col suonatore d’oboe, e più esigente col direttore d’orchestra Angelini, che dirigeva, tenendo in testa la papalina e suonando ad intervalli il violino. Verdi non dirigeva, ed era finita anche la vecchia tradizione, che il maestro dirigesse al clavicembalo. L’esecuzione da parte dell’orchestra fu eccellente, tranne nel coro: Oh! che baccano!, che parve stonasse in un’opera eccessivamente drammatica come quella.

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Il Valle era il teatro di prosa, a differenza dell’Argentina, dove si avvicendavano mediocri spettacoli di prosa e musica. Al Capranica, in piazza degli Orfanelli, variavano gli spettacoli tra vassallate e giuochi di prestigio; e al teatro Metastasio si alternavano Stenterello e Pulcinella. Il Valle si riaprì l’aprile 1850 con la compagnia Domeniconi, di cui faceva parte la Ristori, divenuta marchesa Capranica del Grillo dopo il suo matrimonio con Giuliano Capranica, matrimonio disapprovato dai parenti di lui, quali gli Odescalchi, i Piombino, i Massimo, gli Altieri e i Fiano; ma quando giunsero da Parigi le notizie dei trionfi di lei, tutti si vantavano di averla per parente. Di quella compagnia, che riportò al Valle una serie di successi, con Giulietta e Romeo, con la Pia de’ Tolomei, con la Povera Giovanna, con la Suonatrice d’arpa e col Bicchier d’acqua, facevano parte Tommaso Salvini, Amilcare Bellotti, Angelo Vestri, e la Fantecchi: un complesso di giovani forze, che non contò mai altra compagnia girovaga. Nel tempo che la Ristori stette a Roma, abitò al primo piano della casa da lei acquistata in via Monterone, dove è morta. Ogni sua recita era un avvenimento. Teatro sempre pieno, il biglietto di platea, a sedere, costava quindici baiocchi, ma a sedere per così dire, poichè i banchi erano di legno verniciato e piuttosto stretti, da formare il tormento del copioso don Bartolomeo Ruspoli, assiduo a quel teatro. Non biglietto d’ingresso; i quindici baiocchi rappresentavano tutto il prezzo, ma le esigenze di allora non erano paragonabili a quelle di oggi, e il teatro, illuminato ad olio, era quasi all’oscuro, come i Fiorentini di Napoli; e gli allestimenti scenici, una misera cosa. Si correva a quel teatro per amore dell’arte, per piangere, per commuoversi e battere le mani alla Ristori e ai suoi compagni. Dalla stagione di quell’anno, la fama di lei uscì addirittura colossale.

Il Valle non aveva abbonati. Vi era una sola barcaccia, quella dell’ambasciata di Francia, dove andava il personale per far pratica d’italiano: un altro palchetto fisso l’aveva Pio Grazioli, sposato da poco con donna Caterina Lante della Rovere. Il primo palco, entrando in platea, a sinistra, era occupato dalla polizia, [p. 308 modifica]e al numero 25 del terz’ordine vi era il Vicariato per «sorvegliare il decoro della scena». Lo spettacolo cominciava alle sette. Col primo giorno di quaresima tutt’i teatri eran chiusi, per riaprirsi la sera della seconda festa di Pasqua. Cominciava la stagione di primavera, che durava fino alla Pentecoste. Seguiva l’estate e i teatri chiusi daccapo; e solo si apriva il Corea, nella magnifica rotonda del Mausoleo di Augusto. Teatro diurno e scoperto, con buone compagnie di prosa, anzi, qualche volta eccellenti. I romani, che non abbandonavano Roma nella stagione calda, dopo un pranzo sano e succolento, e una buona dormitella, andavano al Corea a sentire Amalia Fumagalli, Alamanno Morelli, Carolina Santoni, ma spesso accadeva che, nel meglio dello spettacolo, le campane di San Rocco suonassero a morto o a novena, e allora lo spettacolo veniva sospeso, fra caratteristici accidenti all’indirizzo del campanaro. Nell’ottobre incominciava la stagione autunnale, ma con spettacoli di occasione, che duravano non più di un mese. Il Tordinona non aveva che la sola stagione d’inverno. In quella di primavera non erano infrequenti i grandi spettacoli, con musica e ballo, all’Argentina. A Metastasio, il Vitale sotto la maschera di Pulcinella aumentava la fortuna del Baracchini, e al Circo Agonale, Meo Patacca, Marco Pepe e il gobbo Tacconi, richiamavano il popolino con gli spettacoli romaneschi, pieni di episodi comici e tragici, ancora più esilaranti; ma già fin d’allora il teatro dialettale si avviava a sparire.

Non è da dimenticare che, nell’estate del 1865, venne a Roma a dare una serie di rappresentazioni, al Valle, la compagnia napoletana del San Carlino, diretta dall’insuperato pulcinella Antonio Petito. Frequentarono il Valle, durante quelle rappresentazioni, la corte di Napoli e tutta l’emigrazione legittimista delle Due Sicilie. La compagnia, per far piacere ai nobili e augusti spettatori, buffoneggiò, abbastanza volgarmente, sulle cose italiane. Tornata a Napoli, alla ripresa degli spettacoli nel caratteristico teatrino di piazza del Municipio, provocò tale dimostrazione di urli e di fischi e getto di torsoli, che il Petito, in costume di pulcinella, fuggì dalla porta dei Travaccari, angusta via che più non esiste, e gli altri attori, morti dalla paura, chiedevano comicamente mercè, e le donne strillavano. Lo [p. 309 modifica]spettacolo morì sul nascere, e il teatro venne riaperto alcune sere dopo, in seguito a dichiarazioni di civismo fatte dal Pulcinella, dagli altri attori e dall’impresario. Ricordo di avere assistito alla gazzarra di quella sera. Era notorio che doveva avvenire quel che avvenne, ma la questura lasciò fare.


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I teatri divennero nel 1859 e nel 1860 il maggiore e genial campo di dimostrazioni patriottiche. La sera del 27 novembre 1860, essendovi al teatro Alibert la beneficiata di un attore chiamato Savoia, il pubblico numeroso si die’ a urlare: Viva Savoia! mentre una pioggia di cartellini tricolori cadeva dal lubbione. Alle grida di Viva Savoia si univano quelle di Viva l’Italia, viva Vittorio Emanuele in Campidoglio. Allo stesso teatro, dove si entrava con pochi baiocchi, e vi accorrevano studenti e artisti a preferenza, si rappresentava un’altra sera la farsa: Gl’innamorati per andare in carcere. Erano tre o quattro giovanotti, i quali, innamorati della figlia del carceriere, ricorrevano ad ogni sorta di stranezze per andare in gattabuia. Insultavano la gente nelle strade, ma nessuno si risentiva; somministravano pugni sul volto di un vecchio, e questi li ringraziava perchè gli era caduto un dente, che lo faceva soffrire; tirarono un colpo di pistola al primo passante e l’uccisero. La polizia accorse; essi dichiararono di essere gli autori dell’omicidio; ma, osservato il cadavere, fu riconosciuto per quello di un famoso bandito, ricercato dal governo, e perciò gli uccisori furono ringraziati e gratificati di cento scudi. Questi poveri innamorati, non sapendo più a qual santo ricorrere, chiesero al pubblico che cosa potessero più fare per andar in carcere, e allora uno gridò dal lubbione: ce vo’ poco, gridate viva Vittorio Emanuele, e per poco non cascò il teatro dagli applausi.

All’Argentina, il Pulcinella doveva in una commedia uccidere un porco, e chiedeva se dovesse essere bianco o nero, e tutti gridarono: Nero! Nero! Pulcinella fu arrestato. Non vennero permessi i Foscari, per l’ultima scena:

Cedi, cedi, rinunzia al poter!


[p. 310 modifica]E rappresentandosi al Metastasio lo scherzo in musica: Chi la dura, vince, al duetto:

O povero Giovanni,
Di te che mai sarà?...

applausi fragorosi scoppiarono da ogni parte. Non bisogna dimenticare che Pio IX si chiamava Giovanni. La polizia non permise più l’opera. E fu sul punto di proibire il Trovatore, perchè una sera, quando i guerrieri del conte di Luna cantavano di voler piantare la bandiera di quei merli sull’alto, si gridò: Gaeta! Gaeta! Non fu più permessa la Traviata, perchè alle parole: La tisi non le accorda che poche ore di vita scoppiavano urli e battimani.

La revisione si abbandonava ad eccessi veramente ridicoli. Fu mutato il nome del gran ballo Bianchi e neri in Giorgio il nero; e nonostante, continuando le dimostrazioni nel momento che gli schiavi buttavano il collare della servitù, il ballo fu proibito. S’inventò il modo di far disertare i festini del Tordinona, perchè sul più bello vi si spargeva, da invisibili mani, la polvere di euforbio, e ad un tratto tutti tossivano e starnutivano, e molti erano costretti ad andar fuori a prender aria. Una sera, al Valle, un attore dovè dire in una commedia: ma che volete mai sperare da un uomo che si chiama Giovanni? Gli applausi vennero giù a scrosci; e così all’Argentina, alla rappresentazione della Muta di Portici dell’Auber, benchè mutilata e ribattezzata col nome di Pescatore di Brindisi. Il Birraio di Preston fu mutato in Liquorista di Preston; e nella traduzione della Diana De Lys si soppressero le parole: ordinate i cavalli, perchè, osservò il censore, non si ordinano che i preti. Questo fu notato dall’About, il quale, nonostante la superficialità e non poche inesattezze, ha pagine esatte ed argute nel suo libro2. Ma una miniera di scempiaggini è rimasta nella memoria dei contemporanei. Ai noti versi della Lucrezia Borgia:

Non sempre chiusa ai popoli
Fu la fatal laguna,

si sostituirono questi altri:

Non sempre fra le nuvole
S’asconderà la luna;

[p. 311 modifica]e nel brindisi del Macbeth, al

Si colmi il calice...


fu sostituito il

Si colmi il nappo.


E Al suon dell’arpe angeliche del Poliuto fu sostituito: Al suon dell’arpe armoniche. Pio IX, cui nulla rimaneva nascosto di quanto avveniva, uscendo a passeggio in quei giorni, al cocchiere, che domandò dove volesse andare, rispose, invece di porta Angelica: fuori porta armonica, e dette in una gran risata. E nel Natale del 1860, i canonici di San Pietro, temendo una dimostrazione liberale nella basilica, omisero di cantare l’antifona: O Emanuel rex et legifer noster, expectatio gentium et salvator earum, veni ad salvandum nos.


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Il solo giornale, che vedeva la luce quotidianamente, tranne i giorni festivi, era il Giornale di Roma, che comprendeva tutta la vita economica e politica dello Stato pontificio, nella parte puramente ufficiale. Registrava le nomine ecclesiastiche e laiche anche le più umili, come quelle dei sensali; le ordinanze di polizia, le comunicazioni del governo, le sentenze di condanna dei tribunali militari austriaci e francesi, i concistori con le relative allocuzioni, gli editti del segretario di Stato e le disposizioni per i disarmi, all’indomani di qualche omicidio impressionante. Quando non vi era nulla di simile, si leggevano in prima pagina gli atti ufficiali degli altri Stati italiani, a preferenza della Toscana e di Napoli, togliendoli dai rispettivi fogli ufficiali. Nessun verbo della vita cittadina, o cronaca come si direbbe oggi; nessuno studio, o accenno sulle condizioni economiche dello Stato; di feste religiose qualche non prolissa descrizione, e di feste mondane, il semplice annunzio. Ogni giorno il Giornale di Roma registrava in quarta pagina i nomi deì forestieri, che arrivavano o partivano; e i napoletani erano detti «sudditi di regno», e il regno era quello di Napoli, esclusa Aquila, perchè Aquila, sia per la vicinanza, sia per i


  • , PA -_ VECIIA [p. 312 modifica]tradizionali contatti, era considerata come Sabina. Registrava gli arrivi, le partenze, le morti dei grandi personaggi e qualche rara notizia di teatri. Pubblicò, senza una sola parola di compianto, la morte del grande Spontini, avvenuta a Maiolati, presso Jesi, la sera del 24 gennaio 1851. Spontini, morto a 77 anni, lasciò il vistoso patrimonio in opere di beneficenza, e fondò il ricco Monte di pietà di Jesi. Era membro dell’Istituto di Francia, conte di Sant’Andrea, e sopraintendente generale della musica del re di Prussia. Se fosse morto ai nostri tempi, il giornalismo gli avrebbe consacrato pagine intere, quali egli meritava, come precursore della musica vagneriana, e grande compositore, che lasciava dietro di sè orma luminosa nel campo dell’arte, e infine come uomo benefico e di grande spirito. Il

Berlioz, che lo assistette negli ultimi momenti, narrò più tardi, che il gran vecchio tentava resistere con ogni sforzo alla morte, gridando: Je ne veux pas mourir, je ne veua pas mourir! e Berlioz, avvicinandosi al suo letto, gli disse con affetto: Comment pouvez-vous mourir, vous qui êtes immortel? — Ne faites pas d’’esprit, gli rispose il moribondo, pieno di collera. Quella forte volontà conservava i suoi tratti originali anche di fronte all’estremo passo.

Il Giornale annunziò, con la stessa parsimonia, la morte del poeta romano Giacomo Ferretti, del ministro di Spagna, conte di Colombi, e del Girometti, direttore della zecca. Aveva un formato tozzo, a tre colonne, ma era ben impresso e su buona carta. Pubblicò il 29 dicembre 1852 una notificazione curiosa, con la quale Giovanni Ricordi di Milano faceva noto che egli era il proprietario «esclusivo, assoluto e generale del Trovatore, musica del maestro cav. Giuseppe Verdi, e poesia di Salvatore Cammarano, che si doveva rappresentare al teatro Apollo la sera del 3 gennaio 1853, e però diffidava tipografi e librai, editori e venditori di musica di astenersi da qualsiasi riduzione, traduzione e stampa».

Il Giornale di Roma pubblicava comunicati politici della segreteria di Stato, polemizzando con i giornali piemontesi, i quali non lasciavano occasione di dare addosso al governo pontificio. Polemizzò col Risorgimento di Torino e col Corriere Mercantile di Genova a proposito dell’assassinato Evangelisti, [p. 313 modifica]dipingendolo «mite, pacifico cittadino e onesto impiegato». Quei giornali avevano dipinto con colori oscuri il cancelliere della sacra Consulta, e affermato che egli fosse caduto vittima dei suoi furori reazionari. Tali polemiche non erano frequenti, perchè il governo del Papa era più filosofo del governo di Napoli innanzi agli attacchi della stampa liberale, piemontese e straniera, nè commise mai l’errore di assoldare avventurieri, o incaricare impiegati di scendere in lizza a duellare con gli accusatori, come accadde nel regno, dopo le lettere di Gladstone a lord Aberdeen, e le critiche di Antonio Scialoja, esule a Torino, contro le finanze napoletane. Il governo pontificio non ebbe mai di queste ingenuità; le confutazioni erano fatte dalla Civiltà Cattolica, e qualche volta dal pergamo. Il padre Curci dimostrò in una serie di sermoni polemici, nella chiesa del Gesù, che le virtù teologali erano cinque, e la quinta era odio ai liberali, odio senza tregua.


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Negli ultimi venti anni non videro la luce che giornali letterari, tecnici e religiosi. Nessuna effemeride politica, tranne la Civiltà Cattolica, vivace e polemica più che mai; la Correspondance de Rome, che si stampava nella tipografia della Camera apostolica, e sì pubblicava ogni settimana, organo del partito legittimista di Francia, e negli ultimi anni, l’Osservatore Romano. Di giornali giuridici, v’era la «Raccolta di regiudicate romane e straniere» diretta da B. Belli ed Enrico Sinimberghi, e si deve a quest’ultimo la raccolta delle leggi, regolamenti e ordinanze dell’ultima Repubblica. Si pubblicava quando c’era materiale, e portava il titolo pomposo di Giornale del fôro, così come la piccola rivista di medicina, diretta dal prof. Scalzi, si chiamava Giornale medico di Roma. Un buon periodico tecnico settimanale vide la luce il 22 giugno 1857, dal titolo: Giornale delle strade ferrate, diretto da Luigi Manzi, concessionario, come si sa, delle due linee Roma-Civitavecchia e Roma-Ancona-Bologna; e poi da Ferdinando Santini. Era ben fatto, con notizie commerciali, di borsa e di ferrovia, ed articoli scientifici non senza valore, scritti da Camillo Ravioli, Angelo Vescovali e Tito Armellini, e le interessanti osservazioni [p. 314 modifica]meteorologiche della coltissima Caterina Scarpellini, che pubblicava, alla sua volta, a grandi intervalli, una corrispondenza scientifica, dedicata, quasi esclusivamente, agli studi di meteorologia. L’omeopatia aveva una piccola rivista, diretta dal dottor Pompil); e l’abate Paolo Armellini, antico allievo della scuola politecnica di Parigi, pubblicava una Cronichetta mensuale delle più importanti scoperte nelle scienze naturali.

Fra i giornali letterari contava come il più accreditato, ed era certo il più antico, l’Album, che cominciò le sue pubblicazioni nel 1838, e le chiuse dopo il 1860. Era settimanale ed illustrato, e le sue illustrazioni, dovute ad artisti valorosi, come il Cerroni, il Cottafavi, il Della Longa e il Palmucci, non senza pregio. L’ Album era diretto dal cavalier Giovanni De Angelis, e aveva per collaboratori il padre Angelini, gesuita, il professor Salvatore Betti, il colonnello Cialdi, il marchese Eroli, Cesare Cantù, il padre Checucci, il professor Mercuri, Pietro Visconti e due signore, la Scarpellini e la contessa Enrica Orfei Dionigi. Gli uffici dell’ Album erano in piazza di San Carlo al Corso, in un gabinetto di lettura, dove s’incontravano, oltre gli scrittori di quel giornale, professori, artisti e letterati. L’abbonamento costava uno scudo al mese, prezzo abbastanza caro, e per quindici giorni, sessanta baiocchi. Il giornale letterario, scritto da Giuseppe Checchetelli e Ottavio Gigli, dal titolo Il Tiberino, nel quale Oreste Raggi aveva dottamente polemizzato coi due direttori circa il grecismo del Canova, non rinacque dopo il 1848. Quella polemica era stata vivacissima, e i polemisti, persone colte e garbate, se ne ricordavano nell’esilio a Firenze. C’era pure un Giornale Arcadico di scienze, lettere ed arti, diretto nominalmente dal principe Pietro Odescalchi, e nel quale scrivevano dotti articoli il Visconti, il padre Secchi, Paolo Volpicelli, Ignazio Calandrelli e il professore Barnaba Tortolini. Un buon giornale di arti e di lettere era il Buonarroti, fondato da Benvenuto Gasparoni, e continuato da Enrico Narducci; e infine l’ Eptacordo, giornale di belle arti e teatri.

I giornali religiosi erano parecchi. Ricordo la Vergine, pubblicazione settimanale delle glorie della Madre di Dio, che aveva per collaboratori, fra gli altri, l’abate Agostino Bartolini e Luigi Tripepi, allora oscuro chierico calabrese, ed oggi cardinale. Questo [p. 315 modifica]periodico vide la luce qualche anno prima del 1870. Vi erano pure il Divin Salvatore, cronaca settimanale romana, diretta da Paolo Mencacci, e l’Eco del Divin Salvatore, pubblicazione della domenica; il Veridico, settimanale anch’esso, scritto da preti e frati politicanti, e il Vero amico del Popolo, diretto da Domenico Venturini. Un De Cinque pubblicava una rassegna mensile di statistica, assai povera cosa; e qualche anno prima del 1870, il marchese Augusto Baviera, di Senigallia, guardia nobile di Sua Santità, fondò l’Osservatore Romano, primo giornale politico e polemico, che i nuovi e procellosi tempi resero necessario. Il Baviera ebbe per collaboratori, tra gli altri, Fabio Gori e Gerolamo Amati, il quale, dopo il 1870, entrò nella stampa liberale, e acquistò nome nel Fanfulla. L’Osservatore Romano sopravvisse alla catastrofe del potere temporale, anzi divenne l’organo ufficiale e polemico del Vaticano, dopo il 1870; e benchè passato in altre mani e altri padroni, cammina coerentemente per la sua via, nonostante che i tempi siano tanto mutati, e molta acqua sia corsa sotto i ponti...


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Vi era anche l’abitudine di pubblicare delle strenne, che vedevano la luce a intermittenze, nè in così gran copia come a Napoli. Quella del 1858, stampata a Firenze dal Le Monnier con lusso di tipi, e raccolta da Paolo Emilio Castagnola e da Giovanni Torlonia, e dal titolo Strenna Romana, è fra le migliori. Tutti gli scrittori di versi vi contribuirono, e ricorderò Domenico e Teresa Gnoli, Fabio Nannarelli, Ettore Novelli, Ignazio Ciampi, Giovanni Torlonia e Quirino Leoni; e di prose, vi si legge un racconto storico di Giuseppe Checchetelli, narrante la tragedia di Corradino; e altre d’Ignazio Ciampi e Achille Monti. A differenza delle strenne di Napoli, quella di Roma conteneva più componimenti degli stessi autori, e di Teresa Gnoli ve ne sono dieci, fra odi e canzoni. Alcuni versi di lei, acclamata la maggiore poetessa del tempo, sono delicatamente inspirati. Del fratello Domenico vi è un’ode alla sua Cameretta, e un’altra al Passeggio. Domenico Gnoli aveva allora diciotto anni, com’egli stesso dichiara: «così son giunto al diciottesim’anno», [p. 316 modifica]nè lasciava prevedere che alla distanza di mezzo secolo, di una vita dedicata agli studi, Giulio Orsini avrebbe sollevato così alto nome di sè con l’Orpheus, Fra Terra ed Astri, e Jacovella. I versi migliori furono scritti dalla Gnoli, dal Castagnola, dal Nannarelli e dal Torlonia. Un’ode di quest’ultimo, ad imitazione del persiano di Hafiz, si chiude con questa strofa sentimentale:

Il vino e i lieti cantici
Son della vita il fiore;
Ma il più bel fiore è languido,
Se non l'avviva amore:
E lontano da te, vaga fanciulla,
Noia è la vita, e l'universo è nulla.

Ed Ettore Novelli, futuro bibliotecario della Angelica, pubblicava un sonetto senza capo nè coda, dedicato al Castagnola, e che comincia:

Se il ciel m'aiuti, o Paolo, entro dal nicchio
Vivermi io voglio, come la lumaccia;
E stiasi il mondo, e a cui non piace spiaccia,
Più d'assaltarlo non mi tocca il ticchio.


Parecchi di quei vati vennero in fama nei nuovi tempi. Il Ciampi e il Nannarelli divennero professori di Università; il Checchetelli si buttò nella politica, e Quirino Leoni entrò nelle Ferrovie Romane. Questa strenna doveva, per convinzione dei raccoglitori, aprire una comune palestra ai giovani ingegni. Notevole questo, che, fra i vari scrittori, non vi fu un ecclesiastico, e di poetesse due sole, la Gnoli e Francesca Cantalamessa Meyer. Il Leoni vi pubblicò una canzone o inno d’esaltazione alla bellezza e al talento di Emma Gaggiotti, di Ancona, che sposò l’inglese Richards, e poteva annoverarsi, com’è detto in una nota, «fra i principali ornamenti della nostra Italia. L’arpa e il piano sono da lei toccati con gusto e maestria, e niuno la vince nella soavità del canto; parla con facilità ed eleganza l’inglese, il tedesco, il francese, lo spagnuolo, e riunisce in se tutte le grazie di una squisita cultura». La Gaggiotti fu davvero una delle maggiori bellezze della sua età. Ella fu pure pittrice distinta, e chiamata, come tale, alla corte di Berlino e [p. 317 modifica]d’Inghilterra, dove eseguì magnifici ritratti, e fra gli altri uno del principe di Prussia, che fu poi Guglielmo I imperatore di Germania. Ella vive, ma in Roma fa brevi apparizioni. Silvio Spaventa l’aveva conosciuta nel 1848, e se ne ricordava con ammirazione. Il Leoni non fu giudicato iperbolico, se cantò di lei:

O donna agli occhi miei quasi divina
Immagin sembri, che in leggiadre forme
Più la virtute a Dio ne ravvicina.

Scriveva versi Augusto Caroselli, e la sua canzone sull’ultimo canto di Torquato Tasso, ricca di reminiscenze leopardiane, e già letta all’adunanza degli accademici Quiriti al Gianicolo, è forse il più grazioso fra i componimenti di quella strenna, preceduta da un’altra assai scadente, che uscì nel luglio del 1857, dal titolo: I fiori della campagna romana, edita pure dal Castagnola e dal Torlonia, ma non così bene stampata come l’altra. Vi scrissero la Gnoli, Torlonia, Castagnola e Nannarelli. Torlonia cantò l’Amorino e il Ciclamino; il Castagnola, la Ginestra e il Biancospino; il Nannarelli, la Verbena; e la Gnoli, il Narciso e la Viola. Benchè fossero bamboleggiamenti innocui, erano nondimeno sottoposti alla censura. E sull’ultima pagina della strenna vi è tanto d’Imprimatur del padre Larco dei Predicatori, maestro dei sacri palazzi in quell’anno.


Note

  1. Diario del principe don Agostino Chigi dal 1830 al 1855, preceduto da un saggio di curiosità storiche, raccolte da Cesare Fraschetti. Parte I. Tolentino, Stab. tip. Filelfo, 1906.
  2. Roma contemporanea. Milano, Colombo, 1861.