Roma e lo Stato del Papa/Capitolo XVIII

Capitolo XVIII

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CAPITOLO XVIII.

Alla vigilia della guerra. - Cospirazioni nelle provincie dimostrazioni a Roma.



Sommario: Vivace incidente diplomatico col Piemonte dopo l’attentato Orsini. — Accuse scambievoli. — Una fiera nota di Cavour. — Il conte Della Minerva succede al Migliorati. — Il governo del Papa cerca difensori. — Il libro del signor Maguire. — La Curia, ignara degli accordi di Plombières e del trattato di alleanza, non crede alla guerra. — Fa voti per l’Austria e ha paura della Francia. — La nota di Antonelli del 22 febbraio. — Invoca il protocollo del Congresso di Parigi. — La guerra sembra evitata. — Il conte di Cavour carezza il suicidio. — Una sua lettera al nipote. — Gli comunica di aver fatto testamento. — Risoluto di emigrare in America, consiglia il Re di abdicare piuttosto che accettare il disarmo. — Ricordi di Nigra. — Il governo pontificio teme l’insurrezione, appena partiti gli Austriaci. — Bologna ghibellina e universitaria. — Liberalismo bolognese. — Il conte Malvezzi educa i suoi figli in Piemonte. — I salotti bolognesi. — Casa Gozzadini e casa Pepoli. — Le due figlie di Gioacchino Murat. — Gioacchino Pepoli e l’imperatore Napoleone. — Lettere del Minghetti e del Pepoli al Malvezzi. — La Pasqua del 1859 in Roma. — Dimostrazioni all’ambasciatore di Francia e all’incaricato di Sardegna. — Applausi ai soldati francesi. — Fischi all’ambasciatore d’Austria. — Il console degli Stati Uniti è scambiato per ufficiale austriaco. — La partenza del granduca di Toscana. — Un primo avis del generale Goyon. — Suo malanimo e sua impotenza. — Un altro avis. -— Il marchese Bargagli dopo la partenza del Granduca.




Le relazioni fra Roma e il governo di Torino, non mai amichevoli, divennero addirittura ostili, dopo l’attentato di Felice Orsini. I governi del Papa, di Toscana e di Napoli attribuivano quell’attentato alla politica del Piemonte, che ospitava e carezzava gli elementi rivoluzionari di tutta Italia, e lasciava libero campo alla stampa politica. Le loro diplomazie facevano a Parigi, a Londra e a Vienna propaganda in tal senso, il che rendeva più difficile la situazione del governo sardo, non solo rispetto all’imperatore Napoleone, ma a tutta l’Europa. Fu allora che Cavour ebbe un lampo di audacia politica, dirigendo, ai rappresentanti di Sardegna all’estero, una nota molto vibrata, [p. 343 modifica]nella quale faceva ricadere la responsabilità dei frequenti attentati ai pessimi sistemi di governo dei principi d’Italia, e soprattutto all’abuso di espulsioni, esercitate a preferenza dal governo pontificio, e per cui, nel solo Piemonte, si affermava, gli esuli dello Stato romano sommavano a più centinaia. «Mandato in esilio», diceva la nota, «irritato da misure illegali, e costretto a vivere all’infuori della società onesta, e spesso senza mezzi di sussistenza, l’esule si mette in relazione con i fautori delle rivoluzioni. Quindi è facile a questi l’aggirarlo, sedurlo, affigliarlo alle loro sètte, e l’esule diventa in breve settario pericolosissimo». E concludeva che «il sistema seguito dal governo pontificio, aveva per effetto di somministrare di continuo nuovi soldati alle file rivoluzionarie, e finchè esso continuerà, tutti gli sforzi dei governi, per disperdere le sètte, torneranno vani».

Bisogna ricordare, che Felice Orsini era esule dello Stato del Papa, e aveva fatto parte della Costituente del 1849; e anche il ciabattino Pianori, colpevole di un precedente attentato contro Napoleone III, era fuoruscito romagnolo. La nota fu seguita da un dispaccio circolare, nel quale, ricercandosi la cagione degli attentati che, a breve distanza, si erano veduti, in quel tempo, a Parigi, a Genova, a Livorno, a Napoli, in Sicilia e a Sapri, si diceva che cette cause profonde de mécontentement qu’il est dans l’intérêt de toute l’Europe detruire, cette cause existe réellement, c’est l’occupation étrangère, c’est le mauvais gouvernement des États du Pape et du Royaume de Naples: c’est la prépondérance autrichienne en Italie.

La nota fu presentata al cardinale Antonelli dal nuovo ministro di Sardegna, conte Pes della Minerva, e provocò nuove escandescenze di Pio IX. Si osservò, che questo diplomatico, spingendosi molto più in là del Migliorati, era entrato, appena giunto, nella intimità di quei patrizi, che manifestavano opinioni politicamente non ortodosse, come il duca Sforza Cesarini, il duca Massimo, il duca di Sermoneta, e il principe di Santacroce; e riceveva Luigi Silvestrelli, Giuseppe Checchetelli, Alessandro Righetti, Carlo Maggiorani e Diomede Pantaleoni, tutti in voce di liberali, e che a lui faceva conoscere il Silvagni, cospiratore indomito e avveduto. Il Della Minerva, penetrando il pensiero [p. 344 modifica]di Cavour, incoraggiava i liberali di opinioni temperate ad aver fede nel Piemonte, nella casa di Savoia, e in Napoleone III.

Il governo pontificio, fiutando una non lontana procella, cercava giustificarsi innanzi all’Europa. Alla nota del De Rayneval, segui un volume dal titolo: Roma, il suo governo e le sue istituzioni, pubblicato a Firenze dal Le Monnier. Lo scrittore era questa volta un giornalista inglese, Giovanni Francesco Maguire, membro della Camera dei comuni. Il volume, ispirato a una specie di lirica a freddo, contiene, fra molte leggerezze, qualche osservazione acuta. Egli sperava che il libro «valesse ad allontanare dalle menti di molti onesti e ben intenzionati lettori il nero velo, con cui l’ignoranza e il pregiudizio avevano oscurata la verità, e che riuscisse a far apprezzare le virtù del migliore fra gli uomini, del più benefico fra i regnanti, e d’uno dei più illustri pontefici». Faceva l’apologia di Pio IX, dell’Antonelli, e di altri personaggi, non fra i più accreditati della Curia. Il Maguire confessò, che l’idea di recarsi a Roma a scrivere il libro, gli venne, dopo aver letto nel Daily News il rapporto del De Rayneval; ma lo scritto di lui non lasciò traccia.


*


Si era sul finire del 1858. Non pare che la diplomazia pontificia avesse sentore di quanto era seguito a Plombières, nell’estate di quell’anno, fra Cavour e Napoleone III. La sorte delle Legazioni era stata decisa in quel colloquio. L’imperatore dei francesi, e il primo ministro di Vittorio Emanuele si erano intesi bene in questo: che le quattro provincie pontificie, all’indomani di una guerra vittoriosa contro l’Austria, sarebbero andate a formare il nuovo Stato di Vittorio Emanuele, dalle Alpi ad Ancona, con una popolazione dai dieci ai dodici milioni, compresi il Lombardo-Veneto, gli Stati estensi, e il ducato di Parma; e la Francia avrebbe preso la Savoia e Nizza. Si può affermare, che di quel colloquio cospiratorio la Santa Sede non abbia avuta alcuna prevenzione. Monsignor Sacconi, nunzio a Parigi, non era una cima di diplomatico, e non è verosimile, che richiamasse l’attenzione del segretario di Stato sul viaggio di Cavour a Plombières. Qualche cosa si cominciò a intuire dopo [p. 345 modifica]il viaggio del principe Napoleone a Torino, nel gennaio del nuovo anno, quando fu sottoscritto il trattato di alleanza tra la Francia e il Piemonte. La Santa Sede era la meno disposta a prestar fede ad una guerra tra la Francia e l’Austria; non la credeva anzi possibile, perchè tutta la borghesia francese, l’alta banca e gli uomini di affari vi erano contrarii, e anche per l’opinione cattolica di Francia, fortemente ostile al Piemonte, e alla sua politica ecclesiastica.

La guerra veniva a creare una situazione unica nella storia. La Francia, alleandosi al Piemonte, in nome dell’indipendenza italiana, riaccendeva un gran fuoco in tutta la penisola, ridestando speranze e propositi, che i vecchi governi credevano estinti. Si prevedeva facilmente, che, se l’Austria fosse uscita battuta dalla guerra, le Legazioni, nelle quali essa tutelava la signoria pontificia, sarebbero insorte. Il Vaticano non temeva per Roma, anche perchè, nel suo proclama del 3 maggio, Napoleone III aveva detto: nous n’allons pas en Italie fomenter le désordre, ni ébranler le pouvoir du Saint-Père, que nous avons replace sur son trône; ma si era inquieti, massime perchè il Piemonte, alleandosi apertamente alla rivoluzione, non si sarebbe fermato innanzi ad alcun mezzo, per creare difficoltà al governo pontificio, e agli altri governi d’Italia. E perciò, quando la guerra fu resa inevitabile, tutti i voti della Corte romana furono per il trionfo dell’Austria. Ogni giorno si aspettava la notizia che, prima ancora che calassero i francesi, il maresciallo Giulay, varcato il Ticino, piombasse sulla capitale del Piemonte, e l’annientasse. Si può anche immaginare l’odio della Curia per Napoleone III, il quale, scendendo in Italia per cacciarne l’Austria, diveniva il capo morale della rivoluzione, il complice della decennale cospirazione di Cavour, e l’alleato di quel Re, sul cui conto Pio IX si era così poco graziosamente espresso, due anni prima, col Minghetti a Bologna.

La Curia era però costretta ad agire con molta oculatezza, perchè la Francia occupava Roma, e non era prudente provocarne lo sdegno. Situazione quasi drammatica, per cui, nella speranza di schivare la guerra, il cardinale Antonelli in data 22 febbraio, richiamandosi al protocollo degli 8 aprile del Congresso di Parigi, diresse agli ambasciatori di Francia e [p. 346 modifica]d’Austria una nota, nella quale affermava che il governo di Sua Santità si credeva abbastanza forte per mantenere la sicurezza e la pace de’ suoi Stati; e che, in conseguenza, era pronto ad entrare in trattative con le due potenze, per stabilire, nel più breve termine possibile, lo sgombero simultaneo del suo territorio, da parte delle truppe francesi e austriache. Il governo di Vienna rispose, il 4 marzo, che le truppe d’occupazione avrebbero sgomberato gli Stati pontifici, appena il governo del Papa avesse stimato, che la presenza di esse non era più necessaria al mantenimento dell’ordine. Risposta anodina, e forse in malafede. Occorreva Magenta, perchè l’Austria si risolvesse a richiamare le sue truppe. Il governo francese, invece, non tenne neppur conto della nota del segretario di Stato, il quale inviandola, proprio in quei giorni, veniva ad accrescere le difficoltà della diplomazia e dei governi nella quistione italiana. Il passo, dato dal cardinale Antonelli, era abile, perchè diretto ad impedire la guerra, ma destinato a non aver conseguenze.

Furono quelli i giorni più agitati per la diplomazia, che voleva ad ogni costo evitare la guerra, e obbligava Napoleone III a tornare sopra i suoi passi. Pareva che egli dimenticasse Plombières, e il patto di alleanza, mostrando di credere, invece, che la quistione italiana si potesse risolvere con un Congresso. Chiunque abbia studiato i documenti del tempo, ed abbia avuto qualche confidenza dagli uomini, che ebbero parte in quegli avvenimenti, può rendersi conto della suprema angoscia del conte di Cavour, che vedeva sfumare le sue speranze, i suoi disegni lungamente maturati, tutto il frutto del suo lavoro cospiratorio e audace di dieci anni. Fu proprio in quella prima quindicina di marzo, in cui, egli, vedendo tutto perduto, consigliò al Re l’abdicazione, per protestare contro la fede mancata di Napoleone III. Il Nigra crede persino che Cavour meditasse in quei giorni il suicidio, perchè ricorda, che trovandosi egli a Londra col conte Aynardo, lesse una lettera scritta a costui dallo zio, in termini da lasciar temere una risoluzione tragica. Gli annunziava anche di aver fatto testamento.

Nelle pagine del Chiala, che commentano le lettere di Cavour di quell’anno, e in altre pubblicazioni sincrone, si legge come il grande ministro, ch’era uomo di forti impeti e di [p. 347 modifica]profondo sentimento, dicesse a’ suoi amici, che se non gli fosse riuscito di ricondurre Napoleone III all’adempimento del patto sottoscritto, avrebbe consigliato Vittorio Emanuele ad abdicare; e che egli, rivelando al mondo il dietroscena del Congresso di Parigi, e gli accordi di Plombières, consacrati nel patto di alleanza, avrebbe lasciata per sempre l’Italia, andando a morire in America. Chiamato dall’Imperatore, andò a Parigi nel marzo; e dopo aver tentato di persuaderlo a non insistere nell’idea del Congresso, nè in quella del disarmo, amendue assurde, gli dichiarò, con l’accento più vivace e più deciso, che, poichè non si voleva ammettere il Piemonte nel Congresso, al pari delle grandi potenze, egli si riserbava piena libertà di azione. E tornato a Torino, seppe lavorare, com’è noto, con così grande abilità e audacia, da indurre l’Austria a respingere disarmo e Congresso, ad aprire essa le ostilità, parendo innanzi agli occhi del mondo prepotente e provocatrice, pur non avendo l’animo di marciare rapidamente sopra Torino.


*


Falliti i negoziati per la pace, il governo pontificio cominciò a temere per la sua sicurezza interna. Prevedeva che l’iniziativa di una rivoluzione, in caso di sconfitta dell’Austria, sarebbe partita da Bologna, nè s’ingannava. Bologna, città universitaria e ghibellina, posta dalla geografia sulla grande strada delle genti, e perciò aperta a tutte le correnti del pensiero; capitale morale del ferace paese


tra il Po e il monte, e la marina e il Reno,


era stata la maggiore spina del governo del Papa, dalla morte dell’uomo più geniale, che abbia seduto nella cattedra di san Pietro, Prospero Lambertini, bolognese di anima e di sangue. Lo Studio di Bologna, benchè avesse a poca distanza Modena e Parma; e nello stesso Stato, oltre Roma, anche Ferrara, Urbino, Camerino, Macerata e Perugia, non vide mai diminuire il numero dei suoi alunni, che accorrevano da ogni parte d’Italia e d’Europa. Degli Stati italiani, quello del Papa contava maggior numero di Università.

[p. 348 modifica]Negli anni, che corsero dal 1849 al 1859, Bologna era vissuta raccolta in sè stessa. Lo spirito liberale aveva compiuta la sua evoluzione, dopo il Congresso di Parigi, e le delusioni del viaggio del Papa; patriziato e alta borghesia, che vissero sempre in un accordo, che non si verificò forse mai in nessuna altra grande città d’Italia, non aspettavano, in quei primi mesi del 1859, che la partenza degli austriaci per insorgere, e proclamare la dittatura del re di Sardegna. In quegli ultimi tempi spirò una forte aura di fronda, in tutte le manifestazioni della vita bolognese: dall’Università, ai teatri; dai salotti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, nei quali si parlava liberamente delle nuove speranze, che venivano diventando realtà, alle riunioni dei nottambuli nei caffè. Nello spirito liberale di Bologna, ripeto, non si vedeva altra via di salute politica, che nel Piemonte. Dopo il Congresso di Parigi era stata accarezzata l’idea di un vicariato laico nelle Legazioni con sede in Bologna, d’affidarsi al re Vittorio Emanuele, ma se ne vide presto l’assurdità, perchè il Papa nulla voleva concedere, e i liberali bolognesi nulla potevano fare, con gli austriaci alle costole.

Nell’ottobre del 1858, il Minghetti aveva pensato di fondare un giornale settimanale per «diffondere le sane idee economiche, per esprimere gl’interessi industriali e commerciali del paese e occuparsi delle cose municipali, specialmente nelle attinenze loro coi miglioramenti materiali, igienici e morali». Ho raccolto curiosi particolari su questo punto. L’ufficio del giornale doveva aver sede nel palazzo Pepoli; e dieci azionisti, a sessanta scudi l’uno, pagabili a cinque scudi al mese, avrebbero formato i fondi del periodico. Il permesso di pubblicare un giornale l’aveva avuto, da qualche anno, il marchese Pepoli. Interessante una lettera del Minghetti al conte Giovanni Malvezzi Medici del 21 ottobre 1858, nella quale lo invita a mandare la propria adesione, e ad intervenire in casa di lui, per concludere tutto quanto occorreva. Il Malvezzi, che al Minghetti era legato da salda amicizia e da comunanza di principii, non se lo lasciò ripetere, e aderì; ma incalzando gli avvenimenti, il giornale non vide la luce. Si seguitava a pubblicare la quotidiana Gazzetta di Bologna, derivante, in linea diretta, dai vecchi bollettini del 600, e diretta da quel Carlo Monti, uomo non [p. 349 modifica]privo di destrezza, e di cui Vittorio Fiorini raccolse curiose notizie1. Il Piemonte, e il nome di Cavour esercitavano un gran fascino sui patrizi bolognesi. In quell’anno stesso a Giuseppe Massari e ad Angelo Fava, ch’erano a Torino, il Minghetti presentava lo stesso conte Malvezzi, che conduceva in Piemonte i suoi figli per farveli educare. Nell’interessante diario del Massari, raccolto e riordinato dal mio amico Giovanni Beltrani, si legge:

9 agosto 1858. — Alle 10.30 faccio la conoscenza del conte e della contessa Malvezzi, gentili bolognesi, che mi sono indirizzati dall’amico Minghetti. Vengono qui per trovare un buon collegio, dove collocare in educazione i loro figlioli. Parliamo molto dell’educazione odierna e delle difficoltà che s’incontrano per darne una come va. Lamentiamo il brutto vezzo della gioventù attuale, che a venti anni si dice già blasée. A Bologna, sotto questo riflesso, le cose non vanno meglio che altrove.


10 agosto. — Verso sera vado a passare un’ora dai gentili coniugi Malvezzi, i quali mi parlano delle miserande condizioni delle Legazioni, e del crudele dilemma in cui si trovano: o occupazione straniera, o sanguinosa anarchia.

Di quei famosi salotti, nei quali si era venuta maturando l’evoluzione politica, è da ricordare principalmente quello di casa Gozzadini, dove l’amabilità e la grazia della contessa Teresa Serego Allighieri erano soltanto superate dalle sue doti di mente e di animo; quel salotto, che non ebbe nulla di frivolo, e nei cui ricevimenti della domenica, in città, e poi alla villa di Ronzano, conveniva quanto Bologna contava di più illustre nelle lettere, nelle scienze e nelle arti. In un interessante, ma alquanto farraginoso volume anonimo, pubblicato nel 1884, e preceduto da una mirabile prefazione del Carducci2, è narrata la vita di questa donna, che fu uno degli spiriti più eletti ed illuminati del suo tempo, e nelle linee dei cui angoli frontali, parve allo stesso Carducci di aver ravvisato i tratti del viso di Dante. Nel libro sono ricordati i personaggi, che frequentavano quel salotto. E non meno signorili e intellettuali erano i ricevimenti di casa Malvezzi, di casa Tanari, di casa Tattini, [p. 350 modifica]di casa Pizzardi, e infine di casa Pepoli, dove troneggiava, ricca di talento e di cortesia, Letizia Murat, figlia dell’eroico e infelice Re, prima cugina dell’imperatore dei francesi, e madre di Gioacchino Pepoli. La sorella Luisa era maritata, a Ravenna, al conte Giulio Rasponi. Pareva destino per la dominazione pontificia nelle Legazioni, che le figliuole dell’ex re di Napoli vi prendessero marito, e aprissero corte a Bologna, e a Ravenna, e le case loro diventassero centri di propaganda liberale, diretta, non ad ottenere dal Papa concessioni, nelle quali, dopo il 1857, non si credeva più, ma la liberazione dal suo dominio. A Bologna il Pepoli era fra i più caldi e irrequieti. Marito di una principessa d’Hohenzollern, morta di recente, viveva con lusso imperiale. Sua madre e sua moglie avevano titolo di «altezze». Circondato da cortigiani e da clienti, con un piede nell’aristocrazia più avida di borie, e l’altro in una democrazia, più turbolenta che sincera, il Pepoli godeva un gran prestigio per il nome, le ricchezze e il parentado, nonchè per il talento vivace, la parola immaginosa e la cultura discreta. Era suo segretario, per la corrispondenza con Napoleone, come si è detto, Federico Vellani, tuttora vivente, segretario del liceo musicale di Bologna, figlio di uno dei partigiani di Ciro Menotti, e uomo di riconosciuta rispettabilità.

Il Pepoli era legato al Minghetti, al Malvezzi, al Tanari, al Bevilacqua, a Camillo Casarini, a Ludovico Berti, a Rodolfo Audinot, e a Cesare Albicini, e assai stretto a suo zio Luciano Murat, pretendente al trono di Napoli, e per il quale si era mescolato in quelle torbide e inconcludenti cospirazioni, rimettendovi del danaro. Roso da vanità e da un’illimitata ambizione, i suoi viaggi a Parigi erano frequenti; e in uno di essi portò tre disegni di riforma dello Stato, da presentare all’Imperatore, redatti dal Minghetti; altre volte fu latore di lettere, e incaricato di missioni da parte di Vittorio Emanuele e di Cavour, benchè questi non se ne fidasse troppo. Se per la stretta parentela con Napoleone III, egli e i suoi cugini Rasponi non correvano pericolo di essere cacciati in prigione, od in esilio, non ne fu per questo minore il merito. La loro partecipazione diretta al movimento nazionale affidava circa le intenzioni del monarca francese, rispetto alle cose d’Italia, o almeno dava tutta l’apparenza [p. 351 modifica]per lasciarlo credere. La presenza del Pepoli e del Rasponi, nei governi provvisori di Bologna e di Ravenna, raffermò questa convinzione, che non ebbe poco effetto nel successo della causa liberale nelle provincie pontificie.


*


Dichiarata la guerra, il Minghetti, ch’era a Torino, segretario generale del ministero degli affari esteri, scriveva al Malvezzi questa divinatrice lettera3:


Torino, 6 maggio 1859.

Caro amico,

Appena giunto qui, scrissi subito a Boncompagni com’eravamo d’accordo; poi la posizione ufficiale, che occupo, oltrechè mi taglia al tutto fuori dall’argomento che v’interessa, m’impone dei riguardi che nella delicatezza del vostro animo ben comprenderete.

Gioacchino4 ha visto il carteggio e coi Toscani, e con Mezzacapo, e altre lettere confidenziali fuori del ministero. Egli è quindi informato pienamente dello stato delle cose.

Permettetemi di osservare che la condizione oggi è assai cambiata. Dopo i fatti di Toscana, posto che il nostro paese non farà nulla sin che i tedeschi non l’abbandoneranno, nè questi lo abbandoneranno se non dopo una battaglia perduta qui, voi vedete che gli eventi costì diventano la necessaria conseguenza delle grandi vicende, non sono più l’opera di alcun partito. È il paese stesso che vuol concorrere alla guerra e salvare l’ordine interno.

Io credo che per molte ragioni, che vi esporrà Gioacchino, l’esempio toscano sia il solo su cui si debba camminare. La dittatura militare è la sola cosa invocabile a senso anche di chi vede tutti i rapporti politici.

Ordine interno adunque e concorso alla guerra d’indipendenza, ecco le due parole che dominano la situazione. Se a questo fine dovrà farsi una commissione governativa, sarà necessario che ne faccian parte amici non solo di Bologna, ma delle altre provincie. Fra questi è indispensabile che sia compreso Gioacchino. Non è necessario entrare nella questione politica. Dal momento che il governo pontificio non è più capace di mantenere l’ordine da sè, vi subentra nei cittadini un diritto di legittima difesa.

Il governo manderebbe un commissario straordinario per la guerra d’indipendenza, e sarebbe un piemontese.

Quando noi avremo preso l’offensiva, il governo farà di mandare un poco di truppa piemontese. Ma sino a che Novara o Vercelli, e provincie [p. 352 modifica]anche più vicine alla capitale, sono in mano del nemico, che devasta e taglieggia, distrarre dall’esercito un soldato sarebbe impossibile.

Ricordatevi che senza grandi sacrifizi di ogni genere non si acquista l’indipendenza. Questo ditelo alto a tutti, e tutti diano prova di abnegazione.

Finisco affidando alla vostra amicizia che vorrete bruciare questa lettera.

Gradite, mio caro amico, i sentimenti sinceri della mia stima ed amicizia.

Vostro affezionatissimo amico
Minghetti.


P. S. Nelle cose dubbie Boncompagni potrà sempre darvi un consiglio. Egli ha veramente la totale fiducia e mente del conte Cavour.


Rivelatrice dell’uomo è questa lettera di Gioacchino Pepoli:


Torino, 25 maggio 1859.

Caro Malvezzi,

Da Osima5 avrai saputo il motivo del mio viaggio; dopo vidi il principe, ed ho ragione di esser lietissimo. Tutto anderà benissimo se non guasteremo noi le cose. Ma pare che sia necessario però che il comitato, di cui debbo io pure fare parte, sia a giorno di tutto, e che abbia tutto, ma tutto in mano. Disponi le cose in questo senso. Il tempo delle piccole autonomie è passato.

Sta’ di buon animo, le nostre speranze saranno coronate da successa, Saluta cordialmente Tanari, e spero ch’egli pure ne presterà la mano a questa opera.

Intanto torno a raccomandarmi di non fare nessun passo prima del mio ritorno, ed a voce vi dirò perchè, e trovo anche opportuno di sospendere l’invio dei volontari, però se lo credete.

Addio di cuore.

Pepoli.

P. S. Garibaldi passò il Ticino; l’Imperatore è a Voghera6.


Il principe, al quale accenna, è Girolamo Napoleone, la cui azione a vantaggio della causa liberale era manifesta, forse perchè sognava, che, nello sfacelo delle vecchie dominazioni italiane, si formasse un principato per lui. Notevole è nella lettera del Pepoli la frase, in cui dice, quasi in tono di comando, che del comitato egli dovesse far parte, e che non si desse alcun passo prima del suo ritorno. Fino alla giornata di Magenta corsero giorni di timori e di ansie per tutti. La fede era di certo [p. 353 modifica]profonda, ma non bandito il pericolo, che una battaglia vinta dall’Austria avrebbe rimenata l’Italia alle delusioni, agli errori ed alle risoluzioni estreme del 1848.


*


La Pasqua cadde in quell’anno il 25 aprile, quando la guerra era divenuta certa, tre giorni dopo che il barone di Kellesberg, inviato austriaco, aveva consegnato a Cavour l’ultimatum del conte Buol, chiedente il disarmo e il licenziamento dei volontari nel termine di tre giorni, e ritenendo il rifiuto quale dichiarazione di guerra del Piemonte all’Austria. Il Comitato Nazionale di Roma organizzò, per la festa di Pasqua, una dimostrazione di simpatia all’ambasciatore di Francia e all’incaricato d’affari di Sardegna; e un’altra più clamorosa all’esercito francese, dopo la gran benedizione sulla piazza di San Pietro. Compiuta difatti questa cerimonia, le carrozze della diplomazia e dell’aristocrazia, che erano le privilegiate, passavano lentamente sul ponte Sant Angelo. Quando furono viste le tre carrozze del duca di Gramont sul ponte, scoppiarono applausi e grida: viva la Francia! viva l’Imperatore! viva l’Italia!; grida, che si rinnovarono più forti, quando passò nella sua modesta vettura di rimessa il conte Della Minerva, accompagnato dal segretario della legazione, Della Croce. Ben altra sorte toccò al Colloredo, il cui passaggio fu accolto da qualche fischio, onde quel diplomatico, giunto al palazzo Venezia, si svesti subito dell’uniforme, e in vettura di piazza si recò dal cardinale Antonelli, a protestare contro quell’irriverente manifestazione. Ma in piazza San Pietro si trovò mescolato alla dimostrazione, che si era andata ingrossando a favore dell’esercito francese. Si seppe, che il colloquio tra l’ambasciatore ed il segretario di Stato era stato vivace. Un altro incidente di quel giorno fu l’apparizione in piazza San Pietro del console degli Stati Uniti, signor Clendeworth, in uniforme bianca, per cui fu preso per ufficiale austriaco, e sonoramente fischiato. Il console protestò, gridando: viva l’Italia!; e i fischi si mutarono in applausi. La sera del lunedì, dopo l’illuminazione della cupola, e lo spettacolo della girandola al Pincio, vi fu altra dimostrazione al palazzo Colonna e al palazzo Ruspoli.

[p. 354 modifica]La sera del 27 aprile, due giorni dopo la Pasqua, si ebbe la notizia che il granduca Leopoldo di Toscana, non volendo abdicare a favore del principe ereditario, aveva lasciato Firenze con la famiglia, dirigendosi, per Bologna, a Verona, e che a Firenze si era proclamato il governo provvisorio. Fu come un fulmine a ciel sereno. Il marchese Bargagli, tornato in casa dopo la festa di villa Borghese, trovò lo strano annunzio. Corse immediatamente al Vaticano in cerca di maggiori spiegazioni, e dal cardinale Antonelli gli furono mostrati i telegrammi di monsignor Franchi, nunzio a Firenze. Il Franchi, sino al giorno innanzi, aveva assicurato il Papa, che nulla sarebbe accaduto in Toscana; nell’annunziargli poi la partenza del Granduca, non dubitò di affermare, che questi sarebbe tornato fra un mese; e scorso il mese, senza che il sovrano fosse tornato, con gran disinvoltura dichiarò che l’aveva preveduto. Monsignor Franchi, pur non privo di acume, die’ in quell’occasione prova di una ingenuità, di cui durò il ricordo fino al conclave di Leone XIII, nel quale, avendo per sè i voti dei cardinali spagnoli, credette potersi atteggiare per un momento a papabile; ma accortosi dell’inanità dei suoi sforzi, si schierò abilmente tra i partigiani del Pecci, e fu suo primo segretario di Stato. Pio IX perdeva in Leopoldo II, e perdette un mese dopo in Ferdinando II, re di Napoli, due amici devoti, o i puntelli più sicuri, che egli avesse in Italia, dopo l’Austria: due principi ultracattolici, che i casi del 1848 avevano indissolubilmente uniti a lui, a Gaeta.


*


La dimostrazione del giorno di Pasqua, e quella della sera dopo, furono seguite da altri episodi dello stesso genere. L’indomani si leggeva sulle cantonato della città il seguente avis, addirittura brutale, sostituendosi il comandante francese al governo pontificio, che pur aveva una polizia propria, un ministero dell’interno, un ministero della guerra e un governatore di Roma:

Rome, 26 avril 1850.


Des manifestations pacifiques, mais publiques, ont eu lieu. Quelque puisse être notre sympathie pour les sentiments qui ont été exprimés, nous ne pouvons les laisser se renouveler. Toute manifestation publique est un [p. 355 modifica]trouble porté à l’ordre, quelque soit le drapeau, ou motif qu’elle prenne, et il en résulte toujours des mesures fâcheuses pour ceux qui en sont victimes.

La loi interdit tous les attroupements et ordonne qu’ils soient au besoin dispersés par la force.

Ici, par ordre de l’empereur, pour aider le vénérable et vénéré S. Père, en facilitant à son gouvernement le maintien de l’ordre, je dois, comme commandant de la force publique, faire observer la loi. Ce devoir, quelque pénible que puisse étre, nous saurons le remplir dans toutes les circonstances. Mais je compte sur l’esprit si intelligent et sage de la population romaine pour men rendre l’accomplissement plus facile.

Commte de Goyon.


Ma l’avviso del De Goyon non servi, che a mostrare tutto il malanimo di lui. Non spense gli ardori liberali, nè impedì che le dimostrazioni si rinnovassero, a misura che pervenivano le notizie della guerra, e delle insurrezioni simultanee nelle provincie. Al circolo militare francese, in piazza Colonna, sventolava la bandiera tricolore sarda, accanto a quella di Francia, ed all’ombra di quei vessilli si adunavano continuamente dei gruppi, per acclamare all’Italia ed alla Francia. Non era facile impedire quelle dimostrazioni, cacciando in prigione, o in esilio i dimostranti; e benchè il De Goyon ponesse la maggiore malagrazia nell’eseguire le istruzioni, che egli diceva di avere direttamente dall’Imperatore, la forza delle cose era superiore alla volontà di lui: egli non poteva far caricare alla baionetta dei cittadini, che gridavano viva la Francia, viva Napoleone III, quando la polizia pontificia rimaneva paralizzata e quasi atterrita.

Il De Goyon dette ancora una prova delle sue tendenze clericali, quando alla deputazione degli ufficiali della guardia palatina, i quali andarono a rallegrarsi con lui del pennacchio bianco di aiutante di campo, ricevuto in quei giorni dall’Imperatore, rispose che sperava avere il bastone di maresciallo in una prossima guerra contro i «piemontesi»! Ma dopo Magenta, e dopo la grande dimostrazione, in cui le grida di viva l’Italia e viva Vittorio Emanuele, si confusero con quelle di viva la Francia e viva Napoleone, egli, messo con le spalle al muro, pubblicò quest’altro avis, se non brutale come l’altro, materiato d’un gesuitismo della più bell’acqua:

Une grande joie a rempli hier votre coeur et le nétre. Cette joie eût été plus grande encore si, fidèles à un advertissement admirablement compris jusqu’ici, vous aviez su en contenir la bruyante expression.

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Si aucun fauteur de désordres ne vienne aujourd’hui se glisser dans vos rangs; ôtez tout prétexte à la malveillance, afin que les mesures répressives que nous pourrions être appelés à prendre, ne puissent pas tomber sur les amis des français. Croyez, romains, que le silence nous est pénible et que privés du bonheur de combattre à côté des nos frères d’armes, il nous eût été très-doux de pouvoir au moins les acclamer. Mais s’ils tiennent bien haut en ce moment le drapeau de la France, nous tenons ici celui de l’ordre, et nous saurons le faire respecter. C’est aussi un noble drapeau!

Rome, 7 juin 1859.

Le gén. de div. aide-de-camp de S. M. l'empereur des français
Comte de Goyon.



Il De Goyon ubbidiva verosimilmente alle istruzioni ricevute, le quali dovevano dissipare nei romani ogni speranza, che a nessun patto, e qualunque fosse il corso degli avvenimenti, il governo francese avrebbe abbandonato il Papa nelle mani dei suoi nemici. Era questo il punto fermo della politica di Napoleone III.

Le prime notizie della guerra, prima dell’insurrezione nelle provincie, non impedirono che il Papa si desse allo svago d’una lieta giornata a Castel Porziano, invitato dal Grazioli, e la sera stessa del 27 intervenisse, come al solito, ad un ricevimento, in casa Doria, il marchese Bargagli. Questi veramente non mutò sistema di vita fino al 1868, nel qual anno morì. Egli seguitò a rappresentare il Granduca presso il Papa, e vi stette a sue spese, perchè, oltre all’alloggio, non prendeva altro. Conservò l’equipaggio col cacciatore moro; e poichè aveva per segretario un nipote, chiamato Celso, il duca di Sermoneta lo chiamava Moro Celso, o Celso Moro Bargagli. Dopo la sua morte, il generale Menabrea, ministro degli esteri, mandò a Roma il conte Fè d’Ostiani per impossessarsi dell’archivio della legazione toscana. Il conte Fè mi disse, pochi mesi prima di morire, che ebbe ogni sorta di agevolezze nel compimento della sua missione; che fu ricevuto dal Papa, e più volte dal cardinale Antonelli, e che restò in Roma alcuni mesi, sino alla vigilia della decapitazione del Monti e del Tognetti, dei quali, da parte del governo italiano, chiese fosse risparmiata la vita. Partì in segno di protesta.



Note

  1. Catalogo illustrativo della Mostra del Risorgimento Nazionale dell’Emilia e delle Romagne. Bologna, Zamorani e Albertazzi, 1890.
  2. Maria Teresa di Serego-Allighieri-Gozzadini. Bologna, Nicola Zanichelli, 1884.
  3. Archivio Malvezzi.
  4. Pepoli.
  5. Uomo di affari, stimato per la sua cultura finanziaria ed israelita.
  6. Archivio Malvezzi.