Roma e lo Stato del Papa/Capitolo VII

Capitolo VII

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CAPITOLO VII.

Vita sociale e sue gerarchie.



Sommario: La vita sociale imperniata sopra due assi paralleli. — Familiarità tra le gerarchie parallele. — Cardinali e prelati nei saloni. — Monsignor Muti zufola arie musicali. — Tendenza generale all’epigramma. — Borghesia e prelatura rappresentano il ceto medio. — La borghesia negli impieghi. — Tollerato il cumulo di questi. — Il latifondo e i mercanti di campagna. — Sobri e grandiosi. — Cominciano a gareggiare coi signori. — La borghesia negli alti impieghi. — La famiglia Mazio. — Un amore giovanile di Luigi Napoleone. — In casa Spada. — La Margheritaccia dello scultore Wolf. — «Generonee generetto». — Si viveva con poco. — Ordinanze papali contro l’aumento delle pigioni. — Le istituzioni di beneficenza. — La beneficenza è la base della vita economica. — Risultato dei censimenti. — La mendicità elevata a virtù cristiana. — I parassiti della beneficenza. — La passatella del curato. — Contatti fra il ceto popolare e la borghesia. — La borghesia e i parroci. — Allora ed oggi. — Il senso della gerarchia non immune da rodimenti e ribellioni. — Le eredità degli ecclesiastici. — Rozzezza dei costumi. — Equilibrio apparente nelle classi sociali. — Il Monte di pietà e il processo Campana.


La vita sociale di Roma s’imperniava sopra due assi paralleli, il clericato ed il laicato: il primo, costituito dal collegio dei cardinali, dalla prelatura e dal basso clero; il secondo, dall’aristocrazia, dalla borghesia e dal popolo. Stavano in cima il sacro collegio e l’aristocrazia; nel mezzo, la prelatura e la borghesia; e alla base, il popolo e il basso clero, secolare e regolare. Delle due gerarchie, la laicale sottostava, come si è veduto, alla ieratica, perchè questa era la privilegiata; ma se i due maggiori ordini sociali non erano l’un dell’altro teneri, non avevano però ragione di stare divisi. Il signore, anzi, si onorava e compiaceva dell’amicizia di un cardinale; come questi era felice, soprattutto se di modesta origine, d’intervenire ai ricevimenti nelle nobili case, di largheggiare in deferenza verso il principe, e di fare una corte innocua alle signore, portandone a cielo, con frasi mellifiue, le grazie e la bontà. Solo fra le gerarchie parallele la familiarità era permessa; i [p. 103 modifica]cardinali prendevano parte anche ai giuochi di salone, e a tutte quelle esilaranti facezie, non sempre di buon genere, delle quali eran vittime i parassiti e gli sciocchi. In casa Orsini il maggior divertimento era quello d’invitare un prelato di nobile famiglia, monsignor Muti, a zufolare arie musicali, portando un lembo del ferraiuolo alla bocca, e facendo delle due mani una specie d’imbuto. Il suono era qualche cosa tra un sibilo stridente e un ronzio vocale, e tutta la scena era comicissima, perchè, prima che monsignore desse l’aire al suo zufolare, i cardinali e i prelati gli accomodavano il ferraiuolo sulla testa a guisa di cappuccio, e così, tra le risa generali, lacerava gli orecchi degli astanti sui favoriti motivi: Spirto gentil..., Astro d’amor..., Di quella pira. Tutti battevano le mani, e uno della brigata, per completare la baia, girava intorno col piatto a raccogliere le offerte.

Nelle case del patriziato, i cardinali rappresentarono fino agli ultimi tempi, ancora più dei diplomatici, il tradizionale ornamento di quei saloni, dove era una grazia l’essere ammessi, quando non si portasse un titolo, o non si fosse in arte o in letteratura, nella scienza o nello sport, la celebrità, o, per lo meno, la notorietà del giorno. E se i cardinali e i prelati, che comandavano, non erano soverchiamente riguardosi verso i nobili, questi non celavano il loro disprezzo, o canzonavano tutto quell’alto mondo ecclesiastico, che offriva tanta copia di contrasti, e apriva così larga vena di comicità. Ridere non era ribellarsi; e il riso non intaccava l’ortodossia. Quegli orgogliosi signori, discendenti da famiglie papali, e che erano in sostanza dei piccoli sovrani irresponsabili, con corte e cortigiani, gallerie d’arte e archivi di storia, ed esercitavano una decisa influenza in tutta l’azione dello Stato, senza averne la responsabilità, erano inclinati, come i più intellettuali borghesi, all’epigramma. Era un epigramma senza scatti, pungente, ma non oltraggiante, e sempre materiato del buon senso caratteristico dei romani, e di stoicismo arguto; per cui si finiva col ridere tanto dei più stridenti contrasti morali, che offriva il governo ieratico, quanto delle comiche ingenuità dei forestieri; meno spesso dei pregiudizi religiosi, e delle più assurde intolleranze. L’epigramma penetrava nei saloni e nei teatri, e anche nelle sagrestie, [p. 104 modifica]quasi sempre in forma di confidenza, e ad esso aggiungeva una simpatica nota quel pastoso e quasi musicale accento natio. Spesso era un bisticcio o monito, in forma di domanda e risposta. Sono ben noti i sonetti del Belli, e le così frequenti pasquinate.


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La borghesia era più affiatata con la prelatura anche per comunanza d’origine. Erano i ceti medii delle due gerarchie; la prelatura, governando di fatto le cose temporali dello Stato e della Chiesa, aveva più intimi contatti col mondo laico. Mercè la prelatura e il cardinalato poteva la borghesia pervenire all’aristocrazia, come avvenne agli Antonelli, e come al principio del secolo scorso era avvenuto ai Torlonia, per ragioni di ricchezza. Benchè esclusa dagli uffici più alti e lucrosi dello Stato, essa svolgeva la sua attività nelle libere professioni e negl’impieghi, esclusivamente laici, delle poste, dei telegrafi, delle dogane e delle ferrovie. Cominciava così a perdere il vecchio carattere di clientela, nonostante che niuna fosse abolita delle mille anomalie di quella strana società, per cui ai laici era solo permesso coprire impieghi minori e poco retribuiti; e se loro era dato di entrare nella magistratura mercè concorso, non potevano però spingersi oltre il tribunale di prima istanza, dovendo la magistratura di appello, e quella suprema, esser composta di soli prelati. Ed esercitando la professione forense, dovevano i laici sottomettersi alla vecchia procedura, per cui non vi era difesa orale nè pubblica, e l’ingegno dell’avvocato poteva solo affermarsi nello scrivere, in buon latino, le memorie civili e le canoniche, e nelle informazioni ai magistrati, soggette a curiosi obblighi. Dai giudici di Rota, per esempio, gli avvocati laici, fino agli ultimi tempi, dovevano recarsi in abito talare, in carrozza chiusa e in determinate ore del giorno, nè rimanervi oltre l’Ave Maria, perchè in casa di que’ magistrati era di prammatica non accendere lumi, finchè durava l’informazione. Col cumulo degli impieghi, che non era permesso, ma generalmente tollerato, riusciva ai laici di mettere insieme discreti assegni. I cumuli facevano vedere le cose più bizzarre: un impiegato, retribuito in più amministrazioni, finiva col non prestare in nessuna di [p. 105 modifica]esse la sua opera; impiegato ai Vacabili e bollatore in Dateria; impiegato al Censo e scrivano ai Brevi, e nel tempo stesso, maestro di casa, o gentiluomo di un cardinale; esattore o computista nei ministeri, e legale in quelle farraginose amministrazioni di case principesche, di capitoli, di ordini monastici e di opere pie: gente retribuita poco, ma il cui lavoro costava anche meno. Caratteristica società, nella quale nessuno si sentiva il coraggio di parlare apertamente e direttamente; dove nulla si faceva senza intermediari, e dove persino un minuscolo possidente di case aveva l’esattore, ed era egli stesso l’esattore di altri padroni.

In quel medio ceto, laico ed ecclesiastico, si conoscevano l’un l’altro, ed era un aiutarsi a vicenda. Regnava una vera familiarità patriarcale, benchè non disgiunta da innocui pettegolezzi, e da ben coperte gelosie. Non solo negl’impieghi governativi, ma nei privati, i figli succedevano ai padri, ed era sempre il favore che prevaleva; nè si faceva carriera senza la persona influente, che portasse, anche perchè non vi erano concorsi. Questo verbo portare era pieno di significato, e sopravvive nel mondo ecclesiastico. Se nessuno invidiava l’altro, ciascuno era alla ricerca di un’influenza maggiore. Governata da ecclesiastici, quella società ne ritraeva il carattere: cauto, non sempre sincero, e poco inclinato alle espansioni. L’autorità era morbida, quasi carezzevole, e non mai insensibile alle raccomandazioni, sopratutto di donne, di principi e diplomatici, e sempre disposta a benevolenza e a clemenza, tranne in politica. Favorire i parenti e gli amici era la cosa più naturale, quasi doverosa, per quei prelati posti a capo dei pubblici dicasteri, e che sentivano l’amore della propria famiglia, della quale erano i capi o il puntello più solido. Non insensibili alle umane tentazioni, quei prelati e quei preti si lasciavano da esse facilmente sopraffare, niuna esclusa. Non vi erano controlli di nessun genere. All’infuori del Giornale di Roma, ch’era ufficiale, gli altri si occupavano di lettere, di scienze e di religione, e guai a parlare di faccende pubbliche. Il cardinale Antonelli, nemico implacabile della libertà di stampa, diceva che i giornali dovevano pubblicare soltanto l’annunzio delle cappelle papali, e le notizie della... insurrezione cinese.

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La regione del latifondo, che circondava Roma, era addirittura un mondo economico e sociale sui generis. Tranne Alessandro Torlonia, il quale, a modo suo, governava egli stesso una parte delle sue tenute, regnava sovrano l’assenteismo dei proprietari. Con la restaurazione si era tornati alla secolare consuetudine dell’affitto delle grandi tenute ai mercanti di campagna. Era tanto comodo riscuotere esattamente la mercede locativa ogni tre mesi, e in danaro, senza curarsi dei capricci delle stagioni! Nulla importava al latifondista se il raccolto fosse copioso o deficiente; egli non visitava le tenute o, in circostanze straordinarie, vi mandava il viceprincipe o il ministro; l’ingegnere, l’agronomo o il fattore. Il mercante di campagna era il proprietario del bestiame, degli attrezzi e di ogni altra cosa attinente all’agricoltura; e delle scarse fabbriche, che erano del padrone, l’affittuario doveva curare la manutenzione. Le condizioni dell’affitto, convenienti alle due parti, erano rese possibili dal sistema doganale, che chiudeva la frontiera ai cereali esteri, sino a che il prezzo del grano indigeno non avesse superato le trenta lire al quintale; e quando la frontiera era aperta, le difficoltà del trasporto e la distanza facevano sì che il grano salisse sino alle quaranta lire, prima che ne fosse importato un solo ettolitro di Toscana, dove il commercio era libero, mentre nulla poteva venire da Napoli, dove vigeva il regime protettore. Dal 1860 al 1870 l’importazione fu resa impossibile dal dazio, che restò inalterato, e per effetto del quale il prezzo del grano, costantemente rimuneratore, compensava le perdite nel commercio del bestiame mal allevato, mal custodito e punto specializzato. I rigori di alcuni inverni facevano strage di vitelli e pecore. Per l’allevamento dei cavalli spesero ingenti somme il De Angelis, il Calabresi e il duca di Sermoneta, ma non ottennero incoraggianti risultati. Gli allevamenti erano passivi, o poco rimuneratori, tranne per la pecora, stante l’esportazione piuttosto copiosa dei caci, della ricotta e della lana, nonchè per il consumo degli agnelli. Ma il margine offerto dal commercio dei cereali era così largo, ripeto, e le pubbliche [p. 107 modifica]imposte così tenui, che i mercanti di campagna eran ricchi quasi tutti, o sulla via di divenirlo. Basterà ricordare i Ferri, i Silvestrelli, i Tittoni, i De Angelis, gli Alibrandi, i Calabresi e i Mazzoleni, i quali formavano una borghesia, che cominciò a gareggiare con parte del patriziato. Le differenze e i pregiudizi venivano cedendo alla forza dei tempi, anche perchè, sotto forma di anticipazione di estagli, non pochi signori erano divenuti debitori dei rispettivi affittuari. Il ceto dei mercanti di campagna era tra la borghesia, anzi fra tutta la classe sociale non nobile, il solo, che fosse largamente provveduto di mezzi pecuniari. Sobri nella vita domestica, quando loro se ne offriva l’occasione si mostravano romanamente grandiosi; le loro donne, sfoggianti vistose acconciature e ricchi gioielli, formavano, insieme alle mogli degli alti impiegati, quello che chiamavasi il generone. Nel più di essi si notavano tendenze liberali, o meglio antipretine. Alcuni speculavano sui cereali, coll’aiuto di quella banca romana, che in un paese senza industrie e senza commercio, e con un’agricoltura puramente estensiva, tralignò quasi dal giorno che fu ricostituita, anticipando denaro ai suoi amministratori e amici, per imprese non sempre, confessabili, e non certamente commerciali.

I più doviziosi fra i mercanti di campagna costruivano palazzi, forse non sempre eleganti; davano pranzi, i quali, se non poteano per la loro magnificenza gareggiare con quelli di Borghese, di Piombino e di Doria, non ne erano vinti per sfarzosità; frequentavano i maggiori teatri, e all’Apollo avevano barcacce in comune coi signori. Quelli, che non possedevano legno proprio, affittavano per le passeggiate una ricca vettura di rimessa, ed era facile distinguere quelle famiglie al passeggio, dalle acconciature delle donne, e dal numero dei marmocchi. Benchè apparisse qualche segno di fusione fra i due ceti, di matrimoni, che la suggellassero, ne avvenivano assai di rado. Il pregiudizio d’incanagliarsi fu l’ultimo a sparire. Questo verbo incanagliarsi era, come ho detto, di fattura patrizia, ma bisogna pur dire, che a Roma i borghesi di più ricco censo non cercavano tali alleanze, superbi alla lor volta della propria origine.

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Una famiglia caratteristica dell’alta borghesia era quella dei Mazio, che abitava in via della Scrofa. Al principio del secolo vi era stato un cardinal Mazio, dei cui nepoti uno era succeduto al padre nell’ufficio di direttore delle zecche pontificie di Roma e di Bologna; e l’altro, Paolo, fu prima nei gesuiti, e poi, senza aver preso gli ordini sacri, ne uscì, e sposò la bellissima Nibby, figlia dell’archeologo. Rimasto vedovo, si unì in seconde nozze con la signorina Armanni. I Mazio avevano una sorella chiamata Luigia, la cui meravigliosa bellezza le aveva fatto dare il nome di anticamera del paradiso. Sposò il signor Luigi Ravaglini, assuntore di lavori stradali. Ed a questa vaghissima donna si riannoda un episodio curiosissimo della vita di Napoleone III. Quando egli, nel 1830, era in Roma, semplice principe Luigi Bonaparte e abitava al palazzo Ruspoli, s’innamorò di lei, che aveva casa nel prossimo vicolo dell’Arancio, nè avendo altro mezzo di avvicinarla, e dichiararlesi, si vestì da donna in acconciatura di modista, e bussò all’uscio. Ma, o che il marito fosse in sospetto, o fosse caso, aprì l’uscio egli stesso, e riconosciuto nella finta modista il Bonaparte, lo cacciò ruvidamente, e con un bastone lo rincorse sin nel portone del palazzo Ruspoli. Il principe aveva allora ventitre anni, e per quanto non bello, era audace in simili imprese. La cosa si riseppe, e levò naturalmente gran rumore in città. Divenuto imperatore, Luigi Napoleone non obliò i giorni dell’esilio, nè gli amici Morichini, Volpicelli e Tortolini, suoi compagni di studi; e meno ancora la bella Ravaglini; si disse anzi che, saputo che gli affari del marito erano andati male, fosse venuto generosamente in di lui aiuto.

Ma tornando ai Mazio, che appartenevano alla borghesia elevatasi con l’ingegno e col lavoro, e che vivevano con larghezza, dando pranzi e ricevimenti, è da ricordare che in quella famiglia era, da oltre un secolo, tradizionalmente concentrata la direzione della zecca. Giacomo Mazio, padre del cardinale, fu nominato da Benedetto XIV, nel 1769, intendente generale delle due zecche presso il ministero delle finanze, e occupò quel posto [p. 109 modifica]per 45 anni. Gli successe il figlio Francesco, che alla sua volta ottenne la successione pel suo primogenito Giuseppe, il quale conservò l’ufficio dopo la restaurazione del 1849, quasi a compensarlo dallo scampato attentato, cui fu fatto segno il 7 marzo di quell’anno, come si è detto innanzi. I Mazio erano in politica nerissimi, ma inappuntabili per onestà. Il fratello di Giuseppe, Paolo, marito della Nibby, fu discreto letterato, e per la morte di Vittoria Savorelli, aveva pubblicato il poema Sabina e Ruggero. Dopo il 1859 il Mazio restò a dirigere solo la zecca di Roma.

Altra casa ospitale della borghesia era quella di Giuseppe Spada, al palazzo Ruffo, in piazza Santi Apostoli. Egli era socio del banco Torlonia, e ai suoi ricevimenti intervenivano sovente prelati e cardinali, e sempre i migliori personaggi della borghesia, e cantavano i più noti artisti del tempo, fra i quali i fratelli Alessandroni, Annibale, baritono, e Lorenzo, tenore. L’avvocato Mandolesi dava balli nella sua casa, in via di Parione; c’era buona musica in casa dell’avvocato Vannutelli, e dei fratelli Sabatucci, alla salita dei Crescenzi. La signora Bettina Sabatucci, che nasceva Corsi, era una valorosa pianista, e tutti in casa di lei erano appassionati musicisti. E molta borghesia era pure ricevuta in casa Wolff, il noto scultore russo che abitava sul principio di via Quattro Fontane, e aveva sposata una bellissima creatura, che faceva da modello negli studi dei pittori, e si chiamava Margherita. Il Wolff, prima di sposarla, l’aveva posta in convento, perchè ricevesse un po’ di educazione; ma ella, nonostante fosse divenuta moglie di un distinto artista, restò triviale nei modi e nella favella, e non era altrimenti conosciuta che col nome di Margheritaccia. Vi erano anche ricevimenti nelle famiglie Marucchi, De Angelis, Calabresi, Cortesi e Brenda, con frequentissimi pique-niques di pranzi, cene e gite.

Era tutto l’alto generone, che riceveva in carnevale, perchè le famiglie del ceto dei commercianti e della piccola borghesia formavano quello, che si diceva generetto. E generone e generetto s’invidiavano e si contraccambiavano piccole maldicenze, anzi, il nome di generone fu inventato dal generetto, per vendicarsi della poca considerazione, in cui era tenuto dall’alta borghesia. I nobili, com’è noto, non ricevevano nè l’uno nè l’altro. [p. 110 modifica]

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Ciò, che distingueva i ceti sociali, era dunque la gerarchia. Il principe e il cardinale erano, per consenso delle altre classi, collocati così in alto, che non si discutevano, nè era lecito nominarli che col titolo, ed era persino considerata come una temerità il vantarsi di aver con essi dimestichezza. I cardinali parlavano, e parlano anche oggi, in terza persona fra loro, dandosi dell’eminenza; e i principi dovevano essere molto intimi, e di eguale elevatezza di lignaggio, per chiamarsi a nome, o col nomignolo fra loro. Quella simpatica bonarietà romanesca, nei rapporti sociali fra la borghesia, mancava assolutamente nei rapporti fra questa, il patriziato e la più alta gerarchia ecclesiastica, comprendendo in questa anche l’alta prelatura, predestinata alla porpora, e che occupava cariche alte e lucrose negli uffici ecclesiastici. Come nella stessa sua famiglia il cardinale non era indicato altrimenti che col titolo di «Sua Eminenza», così il prelato era chiamato «monsignore» persino dai genitori e fratelli suoi, o tutt’al più col nome di battesimo, preceduto dal don, e aveva il primo posto a mensa, e nessuno si permetteva contraddire alla volontà di lui. Bastava essere prete, per godere nella famiglia una posizione di privilegio. Viceversa, questi cardinali e alti prelati, quando non vivevano con le proprie famiglie, finivano per crearsi del loro servo un padrone, e soggiacere alle occulte sue influenze, non mai tanto occulte, che qualche cosa non ne trasparisse, soprattutto se c’era una donna di mezzo, moglie o congiunta del servo padrone. Quante non se ne dissero e scrissero a proposito del cardinal Tosti, e non se ne dissero e scrissero di monsignor Matteucci, e dello stesso Gregorio XVI? Tale era la società di allora. Il fenomeno del servo padrone si verificava anche nel patriziato. Quanti di quei vecchi principi celibi, logori e arrembati, ma convinti di essere formati d’altra creta, erano nell’intimità della loro vita gli schiavi del proprio cameriere, soprattutto se questi furbamente ne solleticava le debolezze, al punto da non procurare mai, non dico un fastidio, ma un pensiero, o un sol dolor di testa al suo padrone! La società era così da secoli, nè vi erano ribelli, perchè [p. 111 modifica]generale e quasi fatale il consenso. La potestà, suprema e insindacabile, veniva rappresentata in sostanza dall’ordine ecclesiastico, e da quelle famiglie discendenti da Papi, che erano parte della sovranità.


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Il mestiere più esercitato, e relativamente più lucrativo per la borghesia, era quello di affittar camere e appartamenti ai forestieri. Gli alberghi e le grandi pensioni erano in molto minor numero di oggi. Dominava la dozzina, con la quale i proprietarî, appigionando le camere, fornivano gl’inquilini anche del pranzo, e veniva così ad accrescersi tra gli uni e gli altri una intimità, con le sue allegre conseguenze. Per esse si riusciva a contentare gli ospiti ed a pelarli di santa ragione, dovendo gli affittacamere lucrar tanto, da abitare e da mangiare senza spendere del proprio. Un’altra sorgente di lucri per queste famiglie di affittacamere, erano i sussidi di beneficenza, che in forme varie spillavano qua e là, ond’esse rappresentavano una specie di demi-monde, viventi alla giornata fra debiti e scialacqui, senza nessuno spirito di previdenza. Si spendeva quanto si guadagnava. Gli appartamenti e appartamentini di lusso erano, a cura delle donne di casa, addobbati con qualche gusto, ed arricchiti di eleganti lavori di tappezzeria. Ciascuna famiglia aveva dalla sua qualche cardinale o prelato, il quale raccomandava ai forestieri gli alloggi, magnificandone i pregi. Le sole grandi famiglie straniere avevano cucine e cuochi per conto proprio. Nei caffè non s’imbandivano pranzi, e il primo, che si aprì, dando colazioni alla fourchette in piccole sale terrene, fu il pasticciere Nazarri in piazza di Spagna. Lo Spillmann, suo cognato, ne segui l’esempio, aprendo più tardi in via Condotti un restaurant, con sale superiori più ampie, e dove in carnevale si ballava, sì pranzava a pique-nique, e si davano banchetti in onore di stranieri di qualche celebrità.

Si viveva con poco. Il prezzo dei generi di prima necessità, singolarmente del pane e della carne, era assai modesto; e se, per effetto delle crittogame, il vino, dopo il 1850, ebbe qualche [p. 112 modifica]aumento, e non si vide più in giro per la città la caratteristica botte col cartello

A dispetto del diavolo,
Dieci fogliette un pavolo,

l’aumento non superò mai i due baiocchi la «foglietta». La carne di manzo costava cinque baiocchi la libbra; tre, quella di abbacchio; a gran buon mercato i polli, la caccia e la ricotta, alimentazione sana e preferita dalle classi povere. Per un paolo, cioè per dieci baiocchi, si compravano, nell’estate, trenta uova. Eppure tali prezzi, che oggi sembrano inverosimili, parevano alti, rispetto a quelli di venti anni prima, ed era difatti così, dato il progressivo aumento della popolazione, l’occupazione militare, e il numero sempre crescente dei forestieri. Basso era egualmente il prezzo degli alloggi per tutti, e più per le classi povere, alle quali si volse costante il pensiero di molti Papi, al punto che Pio V abolì alcuni editti dei suoi predecessori, & favore dei locatari poveri, come troppo lesivi al diritto di proprietà. Gregorio XIII li ristabilì con qualche modificazione, e Gregorio XV proibì di sfrattare dalle camere e dalle botteghe gl’inquilini, la cui pigione non superava le lire 200 annue, se puntuali nei pagamenti. E anche gli sfratti erano rarissimi, sia perchè gran parte degli stabili apparteneva ad istituti di beneficenza (ai quali era fatto divieto di trasformare per altri usi le abitazioni della poveraglia), sia perchè era facile ottenere dilazioni, mercè piccoli acconti e buone commendatizie. Ed erano frequenti le esortazioni dei curati ai proprietari, per non farli eccedere nelle loro pretese. Alcune case principesche avevano il lodevole sistema di non aumentare le pigioni, per nessun motivo. Lo stesso Gregorio XV aveva incoraggiato la costruzione di nuove case e l’allargamento delle vecchie, con esenzioni dalle imposte; e Leone XII, con editto del 9 maggio 1826, aveva esonerato da ogni tassa fondiaria, per quasi un secolo, tutte le nuove costruzioni. Il Morichini calcolava che nel 1830 un operaio, con una famiglia di quattro figliuoli, potesse avere un alloggio di due camere e cucina, per non più di 12 scudi all’anno; il qual prezzo, salito via via al doppio sino al 1869, ha oggi raggiunto una cifra veramente scandalosa.

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A queste condizioni generali di buon mercato nella vita, erano da aggiungere le infinite istituzioni di beneficenza. Nessuna città del mondo ne contava quante Roma: ospedali, ricoveri, monti di pietà e di maritaggi, brefotrofi, orfanotrofi, ritiri e monasteri, congreghe e capitoli, tutti offrivano un larghissimo contributo alla beneficenza, più elemosiniera che previdente. Tutte queste pietose istituzioni avrebbero sopravanzato i bisogni della povera gente, se la loro amministrazione avesse ubbidito ad altri criteri; ma amministrate da ecclesiastici, i quali rimpinzavano i bilanci di spese di culto, fallivano in gran parte al loro fine.

Rimarrà ancora un problema per i futuri filosofi della storia, se una società, costituita come quella di Roma, potesse trascinare la sua esistenza attraverso i secoli, avendo per base della sua vita economica la beneficenza ufficiale in tutte le sue forme; e se questa beneficenza fosse la cagione, per cui ogni vigorosa attività indigena non trovasse terreno adatto a svolgersi e a prosperare, e Roma rimanesse così la più povera fra le grandi città del mondo. Io penso che nessuno dei due fatti fosse effetto dell’altro, ma che l’uno e l’altro, strettamente connessi, fossero causa ed effetto, ad un tempo, di una condizione storica, che rimontava alla repubblica e più all’impero, al quale sotto molti rapporti era succeduto il Papato. La beneficenza romana ha avuto storici e illustratori non privi di dottrina e di acume, e ricorderò, tra i più noti, il Piazza, monsignor Morichini, morto cardinale nel 1879, e Quirino Querini, la cui opera pregevole ebbe il maggior premio all’esposizione nazionale di Palermo; tutti autori d’interessanti volumi, i quali rivelano che fondamento della vita sociale della città era la beneficenza nelle sue varie affermazioni, e come, senza di essa, non sarebbe stato possibile il vivere alla metà quasi della popolazione.

Il censimento del 1871, confermando i risultati di quello del 1857, rivelò un possidente per ogni 50 abitanti; sicchè, dedotti gl’individui addetti a lavori manuali, ai traffici e al commercio, alle professioni libere, all’esercito, al clero e agl’impieghi, sopra una popolazione, che non toccava le dugentomila [p. 114 modifica]anime, si contavano 112 mila abitanti d’ambo i sessi, che non dichiaravano occupazione alcuna; e da questi, dedotti pure i fanciulli, vi era una massa di 70 mila disoccupati, non tenendo conto della popolazione avventizia, non trascurabile in alcuni mesi dell’anno. Tutta questa gente non viveva che della carità ufficiale, esercitata da pie fondazioni ed enti religiosi, dai quali, come ho detto, si provvedeva ai più ordinari bisogni della vita. L’Annunziata, per esempio, dotava le fanciulle povere e ne sovveniva le famiglie; San Girolamo e Sant’Ivo assumevano il gratuito patrocinio, soccorrevano i carcerati e dotavano anche le zitelle povere; l’ospizio di San Luigi Gonzaga accoglieva nella notte le donne povere; Santa Galla gli uomini, e Santa Francesca Romana le vedove; le congregazioni della Concezione, del Gonfalone, dei Santi Apostoli e della Divina Pietà avevano anch’esse fini speciali di beneficenza; onde, tutto sommato, non sarebbe esagerato affermare che questa beneficenza costituisse un diritto in coloro che potevano, in qualunque modo, mostrare un titolo per invocarla.

Potrebbe meravigliare, che la maggior fonte di risorse per tanta parte della popolazione fosse la beneficenza, se non si riflettesse che le tradizioni di essa, per cui era stata elevata a regola sociale, erano anteriori al cristianesimo, e fin d’allora divenissero fomite di ozio, di corruzione, e strumento di servitù, secondo attestano le numerose leggi frumentarie della Repubblica, e ha dimostrato, in un recente ed interessante suo lavoro, la mia nobile amica la contessa Ersilia Caetani Lovatelli.

Al terzo stato laico faceva riscontro un terzo stato ecclesiastico, coi preti poveri detti scagnozzi, e coi frati mendicanti, che spillavano elemosine in natura e in denaro; esercitavano la medicina e il mestiere di cavadenti, di modelli e d’indovini; accompagnavano i morti,e all’occorrenza predicavano nelle piazze. Grande era l’affiatamento tra le due plebi, poichè anche gli ordini mendicanti donavano gli avanzi della loro mensa ai poveretti.

Una parte di questo popolo, la più laboriosa, la meno esigente, la più infelice e la più rassegnata, era quella dei lavoratori dell’agro, e dei vignaroli fra le mura. Capitavano a Roma la domenica, nei loro costumi primitivi, coi segni della febbre sul volto; accampavano in piazza Farnese, in piazza Montanara, [p. 115 modifica]o in Campo di fiori, per provvedersi di viveri, farsi scrivere una lettera dallo scrivano pubblico, e radere la barba, sotto i caratteristici ombrelloni. La piazza Farnese era trasformata, la domenica, in gran bottega di barbiere. Questo spettacolo di barbieri all’aria aperta è durato anche dopo il XX settembre; quello degli scrivani dura ancora.


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Il ceto popolare era indigente più che non fosse, o non sembrasse, nelle altre grandi città di Europa. Gli operai, che lavoravano senza l’aiuto della beneficenza, costituivano la minoranza della classe; il lavoro era intermittente, tutto personale, non collettivo, non sorretto dal piccolo credito. L’artista era operaio di sè stesso, e si abbandonava liberamente, durante il lavoro, ad ogni riposo o distrazione. Spesso dissipava in un giorno il guadagno di una settimana. Tale irregolarità nella vita era anche effetto della convinzione, che in nessun caso sarebbe morto di fame. Il municipio sussidiava tremila e più famiglie al giorno, come si è detto, e l’Elemosineria, la Dateria, i Brevi, le anticamere dei cardinali, gli ordini monastici, le case principesche largivano sussidi in varie forme. I gesuiti inviavano ogni giorno centinaia di cesti con vivande a famiglie borghesi, alle quali non sì poteva dare l’elemosina di un «grosso».

Erano infinite, e alcune veramente speciose, le magagne, alle quali ricorrevano i parassiti della beneficenza, nè meno esilaranti i loro metodi per attingere sussidi alle varie fonti, singolarmente nelle feste solenni. Pur passando sopra alla circostanza, che una parte delle opere pie straniere era goduta dagl’indigeni, si deve ricordare la duplice, umoristica magagna nella distribuzione dei «grossi» e «grossetti» che si compiva nel cortile di Belvedere, ricorrendo l’anniversario della incoronazione di Pio IX. Vi accorreva tutta la poveraglia della città; e poichè alle donne incinte, ed a quelle, che portavano bambini in braccio, si davano due grossi, cioè dieci baiocchi, avveniva che molte di quelle si gonfiassero di panni per simulare la gravidanza, o prendessero a nolo dei marmocchi, i quali eran sempre gli stessi, e passavano dall’una all’altra. In fondo ai cartocci rimanevano attaccati dei «grossi», che erano monete [p. 116 modifica]sottilissime rôse dal tempo, e che andavano a beneficio del sottoelemosiniere don Marcello Massarenti, incaricato della distribuzione, il quale soleva qualche volta cedere lo spoglio dei cartocci a qualche signora, o famiglia di conoscenza. Il Massarenti, morto da poco, vecchio e cieco, ha lasciato una grossa sostanza e una preziosa raccolta di quadri.

La commissione di beneficenza, ch’era allora ciò ch’è oggi la congregazione di carità, aveva sede nei locali di Santa Chiara, e ogni giorno veniva invasa da una turba di postulanti, che diveniva più fitta nelle grandi solennità. La stessa folla si addensava nelle anticamere dei cardinali e di altri istituti elemosinieri, e più ancora, nelle parrocchiette, dove andavasi a cercare la passata o passatella del curato, passaporto indispensabile, senza il quale non si otteneva elemosina. Il parroco attestava la buona condotta, anche quando la condotta era tutt’altro che buona, e la povertà, anche se dubbia, del postulante. E tanto erano numerose queste richieste, che ciascun parroco, a scanso di fatica e perdita di tempo, adoperava, per la vidimazione di esse, un timbro a secco portante la scritta: testor de paupertate et honestate oratoris; o in italiano: si attesta l’onestà e la povertà dell’oratore (più sovente oratrice), abitante in questa parrocchia.

Non avveniva mai il caso che il parroco rifiutasse l’attestato, o ricercasse se sotto lo stesso nome gli fossero presentate più dimande. Erano giorni di pia gazzarra, e perciò si tirava a contentar tutti senza guardar pel sottile. Il signor Branzoli-Zappi, in un curioso studio sulla beneficenza minuta della città di Roma, pubblicato nella pregevole rivista l’Italia Moderna, s’indugia sopra alcune forme speciali di suppliche in versi, le quali, mutatis multandis, sono in uso anche oggi. Se allora, in occasione della Pasqua, si scriveva:

Or che il solenne
Giorno pasquale,
Lieto si approssima
Al buon mortale,
Grazie rendiamo
Al Redentor
E insiem cantiamo:
— Viva il Signor!

Un atto nobile
 Frutta l’amore
Di Gesù Cristo
Nostro Signore,
Chè il suo obolo
Centuplerà,
Per la Divina Osanna,
Di Lui bontà.

Viva il Signore
Onnipotente
Che ha fatto giungerci
Felicemente
A sì giulivo
Giorno d'amor!...
Osanna!
Al Creator!

[p. 117 modifica]oggi si chiede un sussidio al ministro, all’ascetica palinodia sostituendo una patriottica evocazione, e alla passatella del parroco la commendatizia di un deputato.


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Il ceto popolare aveva i suoi contatti necessari con la borghesia, ma più intimamente con la classe relegata, al pari di esso, a pie’ della piramide sociale: parroci e ordini mendicanti. Il parroco era il suo confidente, e gli scambievoli rapporti erano improntati ad una nota di affettuosità, giustificata dalla comune origine popolana, dalla conoscenza che quei sacerdoti avevano delle vicende di ogni famiglia, e dal pietoso loro ufficio di organi della beneficenza, dal baiocco allo scudo, e a più scudi; dalla dote alle zitelle, al pranzo, al letto, all’ospedale, al ricovero e alla cassa mortuaria. Erano i parroci inclinati a compatire e a scusare anche i peggiori istinti dei propri filiani, i quali nell’odio, nella violenza, e nell’insano orgoglio della romanità, alimentati dall’ozio, dall’osteria e dall’ignoranza, trovavano eccitamento, non sempre per motivi di onore, ma più sovente per bravura malvagia, ad imbrandire il coltello.

Trentasei anni di nuovi tempi non hanno mutate le abitudini, anzi le hanno estese ai nuovi venuti, sicchè, nel campo del parassitismo della carità, la romanizzazione può dirsi completa. Sono anche cresciute le categorie dei postulanti. Oggi è la volta del pubblicista, o del tipografo disoccupato, del vecchio patriota ferito a Mentana, della vittima della crisi edilizia, dell’artista che non vende i suoi lavori, e infine dei promotori e promotrici di lotterie, o di concerti di beneficenza a favore di famiglie decadute, sempre anonime. E si è esteso il costume delle mance al punto, da divenire una vera calamità. Chi non chiede la mancia nei giorni che corrono dal 15 dicembre alla Befana, per la Pasqua e il Ferragosto? Se allora strideva l’anomalia, notata anche dal Branzoli-Zappi, che il popolo di Roma, pur mostrando nella sua indole una nota così marcata d’indifferenza e di superbia, non si sentiva umiliato di chiedere, anzi di vivere di sussidi, oggi la mancia, sotto forma di un saluto [p. 118 modifica]augurale, è consuetudine di quanti sono operai, lavoratori, fattorini, portieri, uscieri di pubbliche aziende, e ferrovieri persino. Non poche erano le famiglie borghesi, che vivevano allora di carità, sia con pensioni, sia con piccoli impieghi, ai quali non si aveva l’obbligo di attendere. Ogni casa principesca aveva una propria lista di famiglie, dette vergognose, da sussidiare, sopra raccomandazione del confessore della principessa, del pedagogo, del maestro di casa, del legale o di altri conoscenti. Nè è temerario il sospetto che la raccomandazione non fosse sempre disinteressata.

Nella classe popolare i sentimenti dell’onore non mancavano del loro culto, e molte volte l’infrazione era vendicata col coltello. Non vivace, nè loquace, anzi cauta, poco sincera, quasi rozza e con la nota sardonica in prevalenza, la classe popolare amava gli svaghi e i conviti. Un pranzo all’osteria, e a preferenza fuori porta, era il colmo delle sue aspirazioni; ma in quei conviti era difficile che, dopo aver bevuto, non si mettesse mano ai ferri, per gelosia, per dispute di giuoco, o anche per meno. La rozzezza dei costumi nasceva dall’assenza di qualsiasi educazione, dal pregiudizio della romanità, dall’esempio delle classi superiori, e dallo spettacolo che di sè dava l’autorità pubblica esercitata da preti, non insensibili alle seduzioni dei potenti e del sesso gentile; ma l’odio al prete non si estendeva al signore, come quello che non era responsabile del governo, e aveva al suo servizio famiglie di operai e di servi, che si consideravano parte della casa da più generazioni. Non altrimenti si usava nei conventi e nei monasteri, e nel personale laico delle chiese. I cardinali e i prelati, privi di famiglia, avevano servi avventizi, i quali, morto il padrone, erano congedati dagli eredi, che si disfacevano nel contempo di tutte le suppellettili, vendendole all’incanto. E dall’asta, annunziata con avvisi magnificanti i pregi degli oggetti esposti in vendita, e contenenti i prezzi di origine, nulla era eccettuato: mobili di lusso, cose di culto, quadri e gioielli. Le pissidi, i calici, le pianete, le croci pettorali e gli anelli di valore, erano a preferenza acquistati dagli ebrei. Ed era così generale l’uso della vendita, che tutti, lungi dal riguardarla indecorosa, la trovavano naturalissima e legittima. Il desiderio della pronta liquidazione vinceva, negli eredi, [p. 119 modifica]ogni altro sentimento. Unica eccezione era costituita dai cardinali appartenenti a famiglie italiane, anzi romane, se di elevata condizione.

Quell’organizzazione sociale non lasciava di offrire apparenti vantaggi economici. Tutto vi era equilibrato con norme fisse e aprioristiche. Agl’impieghi si seguitò a pervenire per eredità, come vi si penetra anche oggi nella gerarchia ecclesiastica; e il filecommesso era sempre la garanzia patrimoniale del patriziato. La borghesia e il ceto popolare avevano innanzi a sè due termini, che non era consentito di superare: il maggiorasco con tutte le sue conseguenze nella vita sociale, e l’immenso patrimonio della Chiesa. L’uno e l’altro costituivano quella, che fu detta manomorta, e che rappresentava per Roma e Comarca quattro quinti della proprietà territoriale. Se il senso della gerarchia era dunque penetrato nel temperamento della razza, era pur divenuto il risultato fatale di una situazione, che non somigliava a nessun’altra nel mondo.

A rendere più spiccata la differenza fra il patriziato e la borghesia, concorreva la diversità di educazione. Non è già che le tendenze fra gl’indigeni di ogni ceto fossero diverse, anzi erano identiche, soprattutto nelle manifestazioni della intima vita domestica, ma per effetto dell’incrociamento del sangue, l’aristocrazia aveva molto corrette le abitudini sue; per cui il grado di educazione fra la nobiltà e la borghesia, divenuto non sostanzialmente diverso fra gli uomini, restò affatto diverso fra le donne. Ad una giovine principessa inglese o francese, tedesca o americana, adusata a tutte le raffinatezze della sua razza, all’avito suo fasto e ad una compostezza austeramente signorile, nessuna consuetudine era possibile con modeste borghesi, sfoggianti nelle loro passeggiate ricchezza di vesti e di gioie, e magnificanti i loro agi e grandezze, e insensibili alle seduzioni dell’arte e della cultura. Se non esisteva odio di classe, perchè ciascuno accettava di buon grado la propria parte, v’era però un baratro di distanza morale; e poi era così, e non poteva essere altrimenti. La vita della borghesia trascorreva piacevolmente. Compagnie allegre di conviti, nei quali non si lesinava sui conti e si ripartiva la spesa per teste, onde venne in tutta Italia il motto: alla romana, per significare che ciascuno pagava per sè: libera [p. 120 modifica]traduzione dell’inglese pick-nick. Ed erano feste piene di espansione, nelle quali si filavano gli idilli con caratteristiche scene di gelosia conducenti spesso al matrimonio.


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Il maggior istituto di beneficenza era il Monte di Pietà, che sovveniva quasi tutte le classi sociali. La natura dei pegni rivelava la condizione economica della popolazione, poichè ve n’erano d’ogni genere: dai fili di perle e dalle pietre preziose, agli ori e argenterie di qualche grande famiglia, o di qualche grande dama dissipatrice; dai quadri e sculture di artisti noti, a biancherie e suppellettili. Si pagava poco e si avevano molte tolleranze. Il grande istituto, che porta scritto sul frontone del palazzo: Magnum Pietatis Opus, subi, sul finire del 1857, una crisi che ne mise in pericolo l’esistenza, ed ebbe per epilogo un clamoroso processo. A capo del Monte era stato messo, in qualità di direttore, il marchese Giampietro Campana. Era questi uno dei signori più in vista; aveva un patrimonio di 200,000 scudi; la moglie, distinta signora inglese, aveva portato in dote dieci mila sterline, ed egli, oltre l’alloggio, percepiva uno stipendio di ottanta scudi al mese. Era consigliere comunale per il patriziato, faceva parte del consiglio d’amministrazione della banca romana, e possedeva un ricco museo di quadri, di argenti etruschi e di statue imperiali. Nell’agosto del 1853, quando già nuotava nei debiti, per scavi intrapresi e falliti, fu nominato direttore del Monte di pietà, ed allargando le operazioni di questo istituto, lo sollevò a grande splendore, nonostante la concorrenza mossagli dalla banca romana, allora nascente. Ma la sua condizione finanziaria andava sempre peggiorando, e dopo aver tentato, ma indarno, di vendere il museo allo Czar, sì avvisò d’impegnarlo al Monte, ritenendo, come scrisse l’avvocato Marchetti in sua difesa, «che non gli fosse illecito di ricorrere a que’ larghi fonti di beneficenza, ch’egli avea dischiusi, e a cui tutti attingevano». Fu autorizzato dal ministro delle finanze a un primo prestito di ventimila scudi; ma poi, senza ulteriori autorizzazioni, portò il prestito a poco meno di mezzo milione di scudi, facendosi forte d’una [p. 121 modifica]perizia del Visconti, che aveva stimato il museo cinque milioni, almeno.

Non era possibile che un tal fatto rimanesse segreto. Il Campana corse a rivelar tutto al nuovo ministro delle finanze, monsignor Ferrari, non rimanendosi nel tempo stesso dal fare dei tentativi per vendere il museo all’Inghilterra o alla Francia. Il debito, compresi gl’interessi, saliva a scudi 570,341. Il Campana cercò di stornare o procrastinare la rovina, dando in pegno il medagliere: ma essendo la cosa divenuta pubblica, il 28 novembre del 1857, birri e gendarmi occuparono gl’ingressi del Monte, e monsignor fiscale, il giudice processante, un computista e un notaio procedettero alla verifica di cassa, in seguito alla quale, oltre alla deficienza suindicata, ne fu accertata un’altra di 79,000 scudi. Il Campana fu arrestato, condotto a San Michele e deferito al tribunale criminale, di cui era presidente monsignor Terenzio Carletti, e fu patrocinato, con prolissa allegazione, dall’avvocato Raffaele Marchetti, al quale fu poi tolto l’esercizio dell’avvocatura per quella difesa. Ma le ingenti e non giustificate spese per restaurare la villa al Laterano, trasformata in dimora principesca, nonchè per la costruzione dell’altra a Frascati, per lo stabilimento dei marmi artificiali, e soprattutto per il museo, di cui i migliori quadri e i preziosi oggetti etruschi furono acquistati da Napoleone II, e le statue dal governo russo, non poterono sottrarlo al carcere, e alla confisca del patrimonio e del museo stesso. Il Monte rientrò quasi intieramente nel suo, e il Campana, dopo alcuni anni di prigionia, fu esiliato a Napoli, dove si votò allo spiritismo. Morì povero, ed a nulla gli giovò il suo zelo politico, nè gli aiuti da lui prestati ai soldati svizzeri, dopo la fuga di Pio IX. Al museo del Louvre vi è oggi una sezione speciale, che comprende gli oggetti del museo Campana, e all’accademia dei Lincei, al palazzo Corsini, sono depositati i quadri che non furono venduti. Il processo Campana fu, sotto alcuni rapporti, il precursore di quello della banca romana di triste memoria.

Il Campana, per salvarsi dalla rovina, aveva anche tentato imprese ferroviarie. Poco prima della catastrofe, egli entrò in rapporto col barone Panfilo de Riseis, concessionario della strada ferrata da Napoli per l’Abruzzo e la frontiera pontificia. È da [p. 122 modifica]ricordare che la concessione, data dal governo del Papa alla società spagnola, non andava al sud di Ancona, e perciò fu idea del Campana congiungerla alla linea napoletana sul Tronto. Ed aprì trattative col De Riseis, che parevano concluse. Giuseppe de Riseis, ora deputato al parlamento, era allora giovanissimo; venne a Roma nel 1857 a trattare personalmente col Campana, e ne ricorda la vita sfarzosa, la casa che pareva una reggia, la squisita cortesia della marchesa e le mirabili raccolte etrusche, le più preziose delle quali il Campana aveva trovato negli scavi della sua villa al Laterano. Ma precipitando le cose del Monte di Pietà, l’impresa ideata non ebbe seguito, e il barone De Riseis aiutò l’amico quando, abbandonato da tutti, e condannato al carcere, si trovò a lottare con la miseria. Pio IX fu insensibile ad ogni voce di clemenza.