Rime dell'avvocato Gio. Batt. Felice Zappi e di Faustina Maratti sua consorte/Rime a Tirsi Leucasio
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RIME
A TIRSI LEUCASIO.
ALESSANDRO PEGOLOTTI.
Tirsi, di ripigliar vicina è l’ora
Il bel canto di ieri: ecco che sviene
La notte, e ’l dì già spunta, e con serene
4Strisce di vago lume il Ciel colora.
Ecco l’alba, odi l’Aura, e una canora
Turba d'augei, che ad invitarli viene;
Tu di Fenicio e di Crateo1 le piene
8Virtù racconta, e i due gran nomi onora.
E poichè ne’ begli orti e sull’erbose
Siepi al celeste umor che li ristaura,
11Crescono alteri ed amaranti e rose;
Ghirlande or fanne tu con la tua Aglaura,
Da offrir cantando a quelle due famose
14Fronti, lo cui splendor le selve inaura.
VINCENZO DA FILICAIA.2
Tirsi, qui appunto, ove in quest’urna incisa
Miri di Morte l’alta impresa e fiera,
Per cui mano il valor vero, e la vera
Gloria si vide in un sol colpo uccisa:
5Su regio soglio alteramente assisa
M’apparve in sogno quella grande altera
Donna, ch’è morta, e che ancor morta impera:
Indi ruppe il silenzio in simil guisa:
Io son colei, che in terra, oggi ha il terz’anno
10Lasciai ’l mio velo, e quanto vissi, e quale
Sallo il mondo, e i non nati anche il sapranno.
Ma vissi men di quel ch’io vissi, e tale
Fui, che sol vissi fuor del regio scanno:
Nè colà, dov’io nacqui, ebbi il natale.
GIUSEPPE PAOLUCCI.3
Di febbre ria, ma più dal duolo oppressa
Langue, o Tirsi, d’Arcadia il più bel fiore:
Ninfa, che non so dir, se porti impressa
Beltà maggior nel volto, oppur nel cuore.
E langue sì, ch’ella non par la stessa,
Che di tant’alme vinte ebbe l’onore:
Tal di maligno umor nube atra e spessa
Cuopre que’ lumi, ond’è sì dolce amore.
Ma da’ languidi rai non però cade
Men grave il dardo, ond’il mio cuor s’accende,
Anzi vie più pungente il fa pietade:
Chè quando da virtude il vigor prende
D’amore il fuoco, ei per mancar beltade
Punto non scema, o chiaro men risplende.
GIULIANO SABBATINI.4
Tirsi, se udrò mai più che Aglauro canti
Di Vetturia e di Porzia, o della forte
Lucrezia, e tenti in rime gravi accorte
Nuovi al suo sesso aggiunger pregi e vanti:
Deh perchè t’armi di tai nomi e tanti,
Dirolle, e sangue ne dipingi e morte,
E ’l saggio orgoglio, che potea la sorte
Cambiar di Roma e porsi all’arme avanti?
Vieni tu sola Aglauro, e teco i bei
Carmi, e di tue Virtù l’inclita schiera,
Ch’assai tu sola al tuo pensier ben sei:
E nostra Gloria già sì viva e vera
Vinta a te renderassi, e vedrem lei
Di sua gran Vincitrice irsene altera.
GIO. DIVIZZARON.
Mossi poc’anzi alla Foresta Ascrèa
Il mio rustico piè lieto e contento,
Ma nel toccar l’arena a me parea
Trarne in vece di gioia alto spavento.
Il bianco Cigno in flebil suon gemea,
Oblìando ’l primier dolce concento:
L’annose querce, e i sagri allor scotea
Garruletto non già, ma pigro il vento:
Quando Aliseo mi disse in sua favella:
E non sai la cagion di tanto orrore?
Crucia Tirsi gentil febbre rubella.
Tirsi, m’avrebbe ucciso il mio dolore:
Ma poi temei di dar la morte a quella
Parte, che vive in Voi di questo cuore.
PAOLO ANTONIO DEL NEGRO
canzone epitalamica
PER NOZZE DELLI SIGG. ZAPPI MARATTI.
Sulla Riva del Penèo
Stava Dafne ancor fastosa
In pensar che disdegnosa
Già deluse il Nume Ascrèo,
Ch’a rapirla mentre corse,
6Divenir Lauro la scorse.
Corsi avea mille e mill’anni
Da quel dì che mutò forma,
Nè però l’antica norma
Perdè mai tra i propri danni;
Ch’ella ancor vegeta, e vive
12Di sue voglie acerbe e schive.
De’ suoi rami all’ombra verde
Mille inganni eran conversi
Con gran lodi, e vaghi versi,
Quali il vento pur disperde,
Ch’a ben pochi ella risponde
18Coll’onor delle sue fronde.
Solo un dì vicino a lei
Diè di man Tirsi alla Lira,
Con la qual tai grazie spira,
Che innamora Uomini e Dei.
Bella Dafne, egli dicea,
24Bella Dafne, amata Dea,
Dunqu’è ver, ch’ancor tu serbi
Fra tue brame inique e crude
In sembianza di virtude
I tuoi genî più superbi?
Dunqu’è ver che mai non pensi
30Di mutar gli antichi sensi?
Se cangiar gli aspri costumi
Tu volessi e il cor feroce,
Tenterei con la mia voce
Di placar gl’irati Numi:
E far sì, che in le tue forme
36Novamente ti trasforme.
Non è sol d’Orfeo la Cetra,
Che da’ regni della Morte
La smarrita sua Consorte
Ritirar col canto impetra:
Cangia omai l’usanza rea,
42Bella Dafne amata Dea.
A tal dir rise ciascuno,
In udir, com’ei ricorda
Vecchi amori ad una sorda,
Ch’ora è tronco oscuro e bruno;
E rideano: chè il lamento
48Sparga Tirsi invano al vento.
Ma la Ninfa, che tra i rami
Riteneva umana mente,
Pensa udir Febo presente,
Che all’antico Amor la chiami:
Tal le sembra al biondo crine,
54E alle Rime alte e divine.
Omai stanca di star sempre
Sotto il vel di dura scorza,
Apre il cuore a nuova forza,
Che l’invoglia a cangiar tempre:
Volge a Tirsi il vago ciglio,
60E d’amar prende consiglio.
Cesse appena al nuovo affetto
Che ogni ramo si disciolse:
E alla prima effigie volse
Il bel volto, il fianco, il petto:
Tal se ’n va la rozza vesta
66Col rigor ch’ella detesta.
Era pur bella a vederse
Da quel tronco apparir fuore,
Con miracolo maggiore
D’allor quando i rami aperse:
Poichè puote lunga etade
72Conservar tanta beltade.
Nero ha il crine, e bianco il volto,
Come l’Alba in Orizzonte,
Che ha la notte in sulla fronte,
Ed il dì nel viso accolto.
Non così bella sorgea
78Dalle spume Citerea.
E pentita dell’asprezza
Già mostrata al caro Amante,
Verso lui muove altrettante
Dolci grazie, e l’accarezza:
E poich’altra si ravvisa
84Cangiar nome ancor s’avvisa.
Non più Dafne, disse, io voglio,
Che verun giammai mi nome:
Resti pur l’ingrato nome
Alla fronda, ch’io mi spoglio:
Resti ancor l’aspro soggiorno,
90Nè più qui faccio ritorno.
Così detto, al dubbio affanno,
Ch’ondeggiava a Tirsi in viso,
Che non era il Dio d’Anfriso
Ben notò: ma dell’inganno
Non le increbbe, chè ha gentile
96Quanto Febo aspetto e stile.
Duo bei rami coglie alfine
Della sua spogliata fronda,
E coll’uno a sè circonda,
E coll’altro a Tirsi il crine,
Chè ambidue portan corona
102Nel bel Regno d’Elicona.
Che non men di Tirsi appresa
La bell’Arte avea la Bella
Coll’armonica favella,
Che da tanti aveva intesa:
Sembra Tirsi il biondo Dio,
108E la Ninfa Euterpe o Clio.
Ma seguendo il suo pensiero,
L’alta Coppia il cammin prese,
E dell’Arcade paese
Cittadini ambo si fero:
E la Bella, qual risolse,
114Qui d’Aglauro il nome tolse.
Scese allora il santo Imene,
Ch’ambidue stringe ed allaccia:
Mentre poi l’un l’altro abbraccia,
Risuonar l’acque e l’arene,
E rispose il Cielo e l’aura:
120Viva Tirsi e viva Aglaura.
in funere
JO. BAPTISTÆ ZAPPI
ad
NICOLAUM FORTIGUERRA
IOSEPH MOREI.
Thyrsidis, ah fatum! queis carmina flevimus olim,
Fortiguerra, eadem nunc tibi missa vides.
Illa nec audebam manibus committere Vatum,
Illa nec audebam credere digna tuis.
Legisti postquam, postquam Tu lecta probasti,
Digna patrocinio credimus esse tuo.
Accipe: venturos iam nostra Elegìa Poetas
Provocat, et nullo tempore damna timet.
Iudicio hoc audet tanti secura Poetae;
Hoc titulis tanti nobilitata Viri.
ELEGIA.
Iam satis est lusum, non hoc vult ludrica tempus,
Tristia sunt tristi verba canenda die.
Pastores, vestro fas est ignoscere Vati,
Si nec festive, si nec ut ante, canit.
Tristia non semper nos edimus, ipsaque damna
Nescio quid blandum, dum memorantur, habent.
Intendum lacrymae lacrymis explentur ab ipsis,
Interdum curas mulcet et ipse dolor.
Iam notum, quae causa meis sit questubus, et iam
Quod flendum vestra nomen in aure sonat.
Ille huius qui nuper erat pars inclyta coetus,
Huius deliciae qui modo collis erat,
Thyrsis, amor Phoebi, sylvarum gloria Thyrsis,
Thyrsis Pastorum, Pieridumque decus,
Occidit. Heu quali tristamur funere! Tuque oh
Arcadia infelix, quo viduata Viro es!
Infelix! Dum tot, dum talia pignora defles,
Nota nimis propriis incipis esse malis.
Nec tantum ut mater ploras moestissima, nunc te
Amisso gnatam ceu patre flere decet.
Nunc inter primos dudum ostentare solebant
Qui te iterum nobis instituere Patres.
Debetur Patribus per nos reverentia primis:
Exemplis illi nos docuere suis.
Quod sumus interdum, quod carmina nostra leguntur,
Arcades, illorum cura laborque fuit.
Nunc quantum exemplar, quae gaudia rapta dolemus,
Quot bona in hoc uno non reditura viro!
Fas Oratorem, fas est lugere Poetam:
Nomine, scitis enim, dignus utroque fuit.
Qui gestus, quae vox, quae gratia frontis et oris,
Qui lepor in verbis, dum loqueretur, erat!
Nunc quoque dum recito, mihi Thyrsis adesse videtur.
Fallor? an herboso sedit et ipse thoro?
Fallor? adest: prorsus praesunt, plaususque sequntur;
Dulcia num ne audis carmina? Thyrsis adest.
Heu misero pietas cur sic illudis amori?
Anne illum visum est interisse parum?
Æger erat, flebant illo aegrotante Camoenae,
Flebat inornatis Delius ipse comis.
Pastores Nymphasque dolor torquebat amarus:
Pascebat moestas Pan quoque moestus oves.
Sed tot vota hominum, ipsorum tot vota Deorum
Flectere crudeles nil valuere Deas.
Heu dolor! heu pietas! Tu nos melioribus annis
Deseris? Ah! fletus dicere plura vetat.
Quisquis ades nostris modo fletibus adjice fletus,
Ferreus es certe qui modo flere negas.
At quid inutilibus nemus hoc agitare querelis?
Quin cineri iustas reddimus inferias?
Stat vetus innuptae prope Palladis antra Theatrum:
Fons ibi non unus, densaque sylva viret.
Montibus hunc sacrum nostri statuere Parentes
Esse locum, insignes hic posuere Viros.
Rarus, honor solis concedendusque Poetis:
Ut, rari vates, sit quoque rarus honor.
Nam, si de numero selegeris Arcades omni,
Quæ canat in sylvis, plurima turba sumus:
Sed quorum æternam mereantur nomina vitam,
Vix decimum supra primus, et alter erunt.
Hic celebres multa scribemus in arbore versus,
Quos cithara Thyrsis, quos cecinitque tuba.
Atque utinan possemus iisdem incidere truncis
Carmina, quae subito ducte furore dedit!
Mox inter scriptas fabricabitur urna cupressus
Rustica, sed veri quae sit amoris opus.
Sculptilis in medio citharam confringat Apollo,
Moestaque circumstet turba Heliconiadum.
Thyrsidis a laeva stet dulcis cura Poesis,
Cura stet a dextra, non minus aequa, Themis.
Utque magis pateant, sacra caput illa corona,
Lancibus et gladio praegravet ista manus.
Distinctis supra facibus, positisque sagittis,
Coecus et illacrimans conspiciatur Amor.
Nec minus et fratres adsint risusque, iocusque,
Quos tamen agnosci vix dolor ipse sinat.
Post ubi funereis conspersam floribus urnam,
Lacte Sacerdotes, profluerintque mero.
Ante illam agrestem de more sacrabimus aram:
Quisquis adest faveat, nos nova pompa vocat.
Parte hac Uranius, parte hac adstabit Alexis:
Dignus amicitia flebit uterque sua.
Illis coeptus amor pueris: mox tempore longo
Crevit, et extincto in Thyrside vivit adhuc.
Stabit et Aglauro, lectaeque ex ordine Nimphae,
Quae molli intexent florea serta manu.
Ipsa chori princeps tanto viduata marito
Carmina cum lacrimis, cum prece thura dabit.
Nec deerit Custos lauro redimitus, et illum
Flebilis hinc cinget, cinget et inde chorus.
Dumque alii tibi dona ferent, dumque ossa piabunt,
Dicemus laudes, o bone Thyrsi, tuas.
Et prius in sterili nascentur littore pisces,
Nutriet Arcadias aequoris unda feras:
Ante diem tenebrae, tenebras adducet Apollo,
Flammaque cum gelida foedus inibit aqua;
Immemores laudum quam simus Thyrsi tuarum,
Excidat ex isto quam tua fama loco.
Donec producet sacros haec sylva Poetas,
Grata iuventuti carmina donec erunt;
Semper apud vates merito celebrabere, semper
Addiscet numeros laeta iuventa tuos.
Sic tibi solemnes quoties statuemus honores,
Dicemus laudes, o bone Thyrsi, tuas.
Turba frequens Thyrsin, Thyrsin nemus omne sonabit,
Thyrsin clamabunt littora Thyrsin aquae.
Postremum tumulo mos es superaddere carmen,
Plura quod includet: sed breve carmen erit:
Hic iacet immiti consumptus funere Thyrsis,
Quid sit, ab hoc uno noveris, Arcadia.
egloga
CLAUDII NICOLAI STAMPA
DICATA
FRANCISCO CAVONI.
CORYDON, DAMON, MELIBOEUS.
CORYDON.
Cur Damon tam moestus abis? Meliboee capellas
Quis servat? nullo pecudes Custode relinquis?
Vos picea frontem impliciti, moestaque cupressu
Arcadiae fines et laeta mapalia luctu
Impletis querulo: quae tristis causa? quis auctor
Funereum celebrare diem vos impulit? Ille
Ille lupus forsan nostri insidiator ovilis,
Externa qui nocte mihi tot tantaque movit
Funera, et heu rabido laceravit dente bidentem,
Vestra quoque invasit confinia, et ore cruento
Compulit armentum? Vos bacchanalia noctis
Sub tenebras differre iuvat, multoque repletum
Baccho ferre caput; nunc irrepuisse furentem
Septa lupum piget, et vanis clangoribus auras
Rumpitis.
DAMON.
Haud tantum possent haec ferre dolorem.
Alta sedent imo sub pectore vulnera: nec Te
Cura premit? lugent flores, et flumina lugent,
Et nemora, et rupes, et quidquid durius extat:
Tu nostras Corydon insultas voce querelas?
CORYDON.
Nescio Pastores quae tanti copia luctus
Ingruat; ignoti liceat primordia fletus
Audire, et lacrymis socium me iungere vestris.
MELIBOEUS.
Tyrsis Leucasius (moeror praecordia rumpit),
Leucasius Thyrsis, quo non praestantior alter
Ludere sylvestri calamo, et sociare canendo
Otia Pastorum, crudeli morte peremptus
Occubuit.
CORYDON.
Thyrsis superis concessit ab oris?
Thyrsis? nec tanti nostras pervenit ad aures
Exitii rumor? Thyrsis iam funere iacerbo
Deseruit vitae lumen? Crudelia fata!
Crudelis Lachesis, crudelior omnibus heu Mors!
DAMON.
Antiqua en fagus dilectas explicat umbras.
Hic inter, corilos viridi sedeamus in erba,
Thyrsidis et laudes, si quid concedet agreste
Ingenium, summo dignum Pastore canamus.
MELIBOEUS.
Incipe tu Corydon, tenuis modulamine avenae
Te sequar: idem etiam facies, ego cum mea solvam
Carmina: nostrorum, Thyrsis, sit meta laborum.
CORYDON.
Qualiter Æois cum Sol festinat ab undis,
Ridet humus, rident redivivis floribus Horti:
Occiduas pronus sed dum festinat ad undas,
Languet humus, languent depressis floribus Horti:
Sic dum, Thyrsi, tuae fulsit lux alma iuventae
Ridebant Nymphae, pecudes, pecudumque Magistri;
Sed dum aeterna tuam involvit caligo iuventam,
En lugent Nymphae, et pecudes, pecudumq. Magistri.
MELIBOEUS.
Qualiter umbrosis dum vernat frondibus arbor,
Avia tunc avibus reboant virgulta canoris:
Pondere brumali sed dum confunditur arbor,
Horrida non avibus reboant virgulta canoris:
Sic dum, Thyrsi, tuos placidum ver protulit annos
Omnes urgebat Pastores cura canendi;
Sed fatale tuos frigus dum comprimit annos,
Non ullos urget Pastores cura canendi.
DAMON.
Qualiter aestivas dum laurus protegit umbras,
Multi illam Satyri, multae coluere Napaeae;
Pallida sed sicco dum laurus cadet in agro,
Nulli illam Satyri, nulli coluere Napaeae:
Sic dum, Thyrsi, tuae laurus frondebat avenae,
Ridentes lucos, ridentia rura colebam:
Sed dum celsa tuae laurus siccatur avenae,
Squallentes lucos, squallentia rura relinquam.
CORYDON.
Qua levibus tophis sinuosum contrahit arcum
Alphaei lustrum, viridi de cespite surget
Feralis tumulus: calathis date lilia plenis.
Pallentes spargam violas, luteosque hyacinthos,
Et super imponam tumulo solemnia verba:
Hic iacet ille ovium Custos notissimus, hic est
Ille decus nemorum, Pastorum gloria Thyrsis.
MELIBOEUS.
Qua stat Sylvani procera cum fronte Cupressus,
Hic inter flores, et puri litora rivi
Ara mihi assurget; validi date munera Bacchi.
Circum plena novo fundam carchesia lacte,
Castaneasque, nuces, et pocula pinguis olivi,
Et duro incidam Cyparissi in cortice carmen:
Surgite, Pastores, Aram redimite Chorimbis,
Funereos lustrate focos: haec dona quotannis
Ferte sacris hilares, poscit nam talia Thyrsis.
DAMON.
Mollia qua mitis diffundit gramina vallis,
Indicam Arcadias festum solemne per oras.
Hic mea Cloris humum fragranti germine sparget;
Hic retinet modulos Evergius Andaniates,
Doctus et ipse levi calamos inflare labello,
Doctior aere tubae Latias memorare per urbes
Grandia facta Ducum: cui si non Mantua caedit,
Proximus huic tamen Ascreos invadit honores.
Hos pariter Lycidas incidit in Illice versus:
Thyrsis Leucasius crudeli en morte peremptus.
Heu lacryment Musae, lacrymet Cyrrhaeus Apollo:
Dumque Ilex crescet, crescent quoque carmina nostra,
Thyrsidis et laudes, atque eius gloria crescet.