Ricordi storici e pittorici d'Italia/L'Isola d'Elba
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Traduzione dal tedesco di Augusto Nomis di Cossilla (1865)
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L’ISOLA D’ELBA
1852.
I.
Nella state il battello a vapore del governo toscano, il Giglio, si reca una volta per settimana nell’isola d’Elba per portarvi la corrispondenza governativa, e passeggieri. Impiega circa cinque ore nel tragitto da Livorno, perchè tocca a Piombino, dove fanno breve fermata.
Corre sempre lungo la posta toscana, godendosi la vista dell’ampia e verdeggiante maremma, la quale circoscritta all’orizzonte dai monti sovra cui sorge Volterra, digrada lentamente al mare. Si scorgono torri antiche ad ogni punto di sbarco, piccoli seni, alcune fabbriche e case di campagna, le quali interrompono la monotonia della vasta maremma, popolata di arbusti, e di cespugli di mirto, i quali danno ricovero ad abbondante selvaggina.
Ai tempi degli Etruschi sorgevano su questa riviera grandi e popolose città, rinomate per la loro civiltà, da Volterra fin verso Cara e Veia, nella campagna di Roma. Si passa davanti alla antica Cecina, vicino alla costa, dove ancora oggidì trovasi un abitato, il quale ha ritenuto lo stesso nome. Alquanto a mezzogiorno trovavasi l’antica Vetulonia, detta più tardi Populonia, una delle città più possenti dell’Etruria, la quale stendeva la sua signoria sopra tutte le isole del canale toscano. Dessa venne rovinata durante la guerra civile fra Mario e Silla, a tal segno che fin dai tempi di Strabone non rimanevano di essa che un’antica torre, ed alcuni ruderi di tempi, e delle sue mura. Scorgonsi ancora oggidì le sue rovine sur un promontorio di una piccola penisola, la quale si stacca dalla riva, ricoperta da siepi e da cespugli, e fra queste sorge un piccolo forte. La riva è deserta, e partendo da quel punto, si arriva nel porto di Piombino.
Questa piccola città di appena mille ducento abitanti, appartenne dapprima agli Appiani, e nel 1805, venne in podestà di Felice Baciocchi, côrso, duca di Lucca e Piombino, marito della principessa Elisa Bonaparte. Estinto il casato degli Appiani nel 1631 fu tenuta dalla Spagna, e nel 1681 venne in podestà di Ugo Buoncompagni Ludovisi, i cui discendenti la riacquistarono nel 1815, tenendola sotto l’alta signoria della Toscana. Le vie anguste della città, colle loro case colorite in giallo, il castello principesco sur un’altura, le mura nere, ed una torre in rovina sopra un ripido scoglio vicino al porto, si specchiano nelle onde, solitarie e quasi divise dal mondo. La vista della città è stupenda; si stende sovra un vero arcipelago di belle isolette. Giglio, Cervoli, Palmarola, Elba e Corsica, le quali emergono dai flutti azzurri del Mediterraneo. A mezz’ora di distanza l’Elba presenta le sue rupi imponenti, e le isolette di Cervoli e Palmarola le torri da cui sono coronate.
Nell’avvicinarsi all’Elba compaiono ognora più severi, più selvaggi i suoi scogli; ad eccezione di un piccolo porto a sinistra, non avvi indizio di sito abitato. Il monte scende ripido, scosceso, severamente maestoso in mare. Alla sommità di un monte sorge ardita una antica torre grigia, detta dal popolo Torre di Giove, nome adatto a quest’isola di Napoleone, verso la quale drizza la prora il battello.
Girato un bruno promontorio, muta prontamente la scena, recando grata sorpresa. Si apre tutto ad un tratto il vasto e bello golfo di Portoferraio, stupendo semicircolo di monti disposti a foggia di anfiteatro, le cui pendici sono ricoperte fino al mare di giardini, di ville, di fattorie, di cappellette, di magnifichi boschi di cipressi, di aloe in fioritura, da ricche piantagioni di gelsi di un verde cupo. Il golfo termina a diritta in una stretta penisola sulla quale sorge in bella posizione col suo porto la città di Portoferraio, detta anticamente Argo, e più tardi Cosmopoli, degno ricordo del fortunato Cosimo I dei Medici e prigione di Napoleone.
Giunsi nell’isola coll’idea di entrare in un idilio storico. Le linee grandiose ed imponenti del golfo hanno un non so che di solenne, di maestosamente tranquillo; la città sulla sua penisola, piccola, di aspetto grazioso propriamente toscano, compare pittorica, solitaria, segregata affatto dal tumulto, dai rumori dei mondo.
Le strade sembrano adossate le une alle altre, sono però visibili; le piccole piazze, i giardini di agrumi i quali si scaglionano sui monti, invitano a prendere ivi stanza. Tutta la città è di un colore giallo, la cui tinta calda si associa meravigliosamente al verde degli alberi, all’azzurro del mare. Vero soggiorno ad un principe spodestato, per dettarvi suoi ricordi!
Le torri stesse ed i tre forti della Stella, del Falcone, e del Castello Inglese, non hanno punto aspetto severo. Ai piedi di questi giace il porto, bello e sicuro, circondato da calate di buona costruzione, opera di Cosimo dei Medici. Si entra in città per la bella porta della Tromba, che sorge a metà del porto, e sulla quale si può leggere la seguente iscrizione magniloqua,
TEMPLA MAENIA DOMOS
ARCES PORTUM COSMUS MED. FLORENTINORUM DUX II.
A FUNDAMENTIS EREXIT A. D. MDXLVIII.
Il fortunato Cosimo, pertanto, ha qui fatto tutto; chiese, mura, cittadella, case, porto, e non ha lasciato più altro a costrurre a Napoleone, fuorchè la casa di villeggiatura del novello suo impero.
Il battello tocca ormai la scala per la quale s’imbarcò quest’ultimo per la Francia colla sua guardia, scena che l’imaginazione si è rappresentata le tante volte, e che si vidde riprodotta in pittura per ogni dove, col titolo di partenza di Napoleone dall’isola d’Elba. L’occhio non si stacca più dalla graziosa cittadina, e ricerca l’unica sua meraviglia, la casa abitata dall’esule imperatore.
«Non scorgete colà in alto quella casa dipinta in giallo, di aspetto allegro sotto il forte della Stella? Prospetta propriamente qui nel porto; non vedete colà, dove la sentinella sta davanti alla garetta?»
— «Quella casa con quelle piccole finestre? Vere Tuileries per un re pigmeo? Pare un casino di riposo di un giardino.» —
— «Ebbene, quello si è il palazzo dell’imperatore, attualmente casa abitata dal governatore.»
Una barca ci porta sulla calata, dove si sono affollati i pacifici abitanti della città, ansiosi di avere notizie.
Non havvi quella ingrata confusione di Livorno, dove fra barcaiuoti e facchini non si è quasi sicuri della vita. Tutto è tranquillo, quieto, contento. Varcata la Porta si entra in una strada la quale serve a mercato dei pesci e dei legumi, e da questa si giunge ad una piazza lunga e stretta, denominata Piazza d’armi, all’estremità della quale sorge la chiesa principale della città. Regnava ivi il profondo silenzio della domenica; tutto rivelava la quiete, ed il benessere di una vita tranquilla. Le case pulitissime sono rallegrate dalla presenza di fiori alle finestre, sui balconi; le botteghe piccole, i caffè piccoli parimenti, la locanda l’Ape d’oro modestissima, fanno prova degli scarsi bisogni degli abitanti. Entrammo in questa ultima col mio compagno di viaggio, trovandovi in una sala da pranzo semplicissima, due ospiti modesti e taciturni, un pranzo scarso, vino discreto dell’isola, ed un albergatore cortese.
Non potemmo quietare finchè non ebbimo salito alla casa abitata da Napoleone. Sorge questa in posizione alquanto elevata, fra i due forti della Stella e del Falcone, a fronte del golfo, ed a tergo gode di bella vista sul mare verso Piombino. Se non che questa vista sull’ampio mare e sulla costa attraente d’Italia, doveva riuscire vista di soverchia tentatrice, per un imperatore in esilio. La casa consiste in un corpo centrale a due piani, con quattro finestre, e tetto a foggia di terrazzo, con due piccole ale ai fianchi, di altezza alquanto minore. Si ha da queste accesso alla casa, non esistendo porta nel corpo centrale. Il piccolo giardino nel quale Napoleone soleva passeggiare il mattino e la sera, è cinto da un muro. Alcune piante di aranci, pochi fiori, due busti di marmo verde, formano tutta la ricchezza del giardino imperiale dell’isola d’Elba. Napoleone stesso prese pensiero di formarlo, e vi fece piantare alcune acacie. Trovai molto caratteristica la presenza in questo giardino di cannoni, imperocchè essendo desso dipendenza del forte della Stella, serve contemporaneamente a difesa; e fuori di dubbio i cannoni vi stavano già fin dai tempi dell’imperatore fra mezzo ai fiori, ed erano quelli probabilmente le piante predilette dall’imperatore, il quale vi avrà prestata maggiore attenzione che non alle rose, od ai fiori di arancio. È facile rappresentarselo intento a passeggiare pensieroso nel piccolo giardino, o seduto taciturno sopra un mortaio, formando progetti, o stendendo lo sguardo indagatore sul mare, verso le coste d’Italia che sono visibili all’orizzonte, ricercando il continente teatro della sua gloria, il quale gli ricorda le sue gesta, gli rimprovera la sua inazione, e lo punge di continuo, gridandogli «Cesare, tu dormi!»
Confessiamo però che l’imagine di Napoleone all’isola d’Elba non ci commuove poi gran fatto; la forza d’animo di un uomo il quale lotta contro tutto il mondo, contro l’avversità è sempre degna di ammirazione, ma non ispira vera simpatia se non allorquando si propone uno scopo grande, nobile, degno della storia, e non ha di mira unicamente un fine tutto personale, non scevro di egoismo. La storia aveva posto Napoleone in disparte; allorquando uscì dall’isola d’Elba comparve quasi uomo che nulla aveva a fare più col mondo a cui era diventato estraneo; la sua lotta fu grandiosa, quale doveva essere la lotta di un uomo solo contro tutti; dopo scomparve in essa, quasi debole canna schiantata dall’impeto della bufera.
Napoleone a S. Elena è tutt’altro uomo. Colà ispira la profonda compassione dell’eroe di un gran dramma, imperocchè lo si vede morire coll’animo riconciliato e purificato dal dolore.
Caso strano! Trovasi in questo mare Tirreno ancora un’altra isola, alla quale la presenza di un altro imperatore che l’aveva scelta a luogo di ritiro, assicura un nome il quale non morrà nella storia. È questa Capri, il romitaggio del terribile Tiberio. Capri e l’Elba; Napoleone e Tiberio sono i due contrasti del dispotismo; in questa un imperatore trasferito a forza, il quale non si rassegna a quietare, arde della brama di occupare tuttora la storia di sè, non sazio mai di dominazione, di egoismo; in quella un altro imperatore, signore di tutto quanto il mondo che pende da un suo cenno, il quale con un sorriso per metà beffardo, per metà spaventoso, si confina spontaneamente sul più ristretto scoglio del suo impero, per vivervi la vita di un eremita.
Per dir vero fu una grande ingenuità quella delle potenze nel 1814, allorquando assegnarono per soggiorno a Napoleone l’isola d’Elba. Si sarebbe tentati di qualificare quell’innocente pensiero dei più grandi politici d’Europa, di aberrazione romantico-poetica. L’unica spiegazione per lo meno che io non ne abbia saputa trovare, mi sorse nella mente tutto ad un tratto, quando visitai le miniere di ferro di Rio, che allora mi dissi, aver avuto l’alta diplomazia del 1814 un pensiero grandemente poetico, nel confinare in questa isola del ferro, Napoleone, l’eroe di cento battaglie. Dalle viscere inesauribili di questi monti, trassero da oltre venti secoli i popoli il ferro per le loro armi, e Roma alla quale Porsenna, re di quegli Etruschi che coltivarono per i primi le miniere d’Elba, aveva imposto per condizione di non dovere adoperare più il ferro che nei lavori della agricoltura, formò col ferro di quest’isola, le spade le quali conquistarono il mondo.
Era possibile mai imaginarsi che il dominatore di mezza Europa, assuefatto a disporre a suo talento delle corone, potesse ridursi tutto ad un tratto alla parte di un militare in ritiro il quale pianta cavoli, ed alleva uccelli in un’isoletta poetica, tenendo pochi granatieri quasi passatempo, e dilettandosi di andare a caccia alla domenica con i suoi vicini? Si pensava per avventura a Diocleziano, a Tiberio, a Carlo V? Dominatori stanchi possono deporre una corona dopo averla trovata pesante, dopo averla portata a sazietà, ma nessuna corona per quanto sia pesante parve mai grave di soverchio, al soldato di ventura che riuscì a cingerne il suo capo. Questi non può cessare dal dominare, fintantochè la sorte non lo atterri. La fu propriamente strana aberrazione quella di avere mandato il leone côrso in questa isola, in aperto mare, fra la Francia e l’Italia, nel preciso centro delle ambite signorie.
Havvi del resto un non so che di fatale nella scelta di questo luogo, a terra d’esilio dì Napoleone. Il fato che atterra i grandi uomini è per lo più sempre di una tragica ironia. Suole prima abbattere la sua vittima per annientarla, allorquando tenta una seconda volta la fortuna. Napoleone nel salire in cima all’alto e rapido monte di Marciana, poteva di là scorgere la Corsica; contemplare le sue città, le sue foreste, i suoi monti, e mille luoghi, i quali gli rammentavano la sua gioventù. Doveva pure riuscirgli dolorosa una tal vista! Trovavasi di fronte a quella terra, di dove era partito giovane, ignoto figliuolo della fortuna, anelando a gloria, a grandi gesta. Ciò gli doveva riuscire incomportabile. Eragli forza tentare di rompere il cerchio magico; ma l’ironia della sorte non era stanca, imperocchè non gli risparmiò di dovere ricomparire ancora una volta dall’Elba in Francia, in quell’aspetto di avventuriere nel quale dalla Corsica aveva fatto il suo ingresso nel mondo.
Allorquando i marescialli Macdonald e Ney, annunciarono a Napoleone a Fontainebleau che poteva scegliere fra la Sovranità dell’Elba o di altra località, forse della Corsica, l’imperatore disse vivamente «No, no, non voglio aver nulla che fare colla Corsica.» Non fa d’uopo al certo di molta psicologia, per leggere a questo punto nell’animo di lui. «L’isola d’Elba? Chi conosce l’isola d’Elba? Mi si cerchi un ufficiale il quale conosca l’Elba! Cercatemi una carta dell’isola d’Elba! — L’Elba — però l’Elba!» ed un pensiero attraversò la sua mente. Erano i favoriti di sua sorella Elisa di Toscana, i quali avevano proposta l’Elba siccome quella che era vicina alla Toscana; e per tal guisa da tante vive lotte, ne nacque per Napoleone la ridicola dominazione di una piccola isola.
Il 20 aprile 1814 prese congedo dalla sua guardia, e non fa d’uopo ricordare qui cose ormai antiche e note a tutti. Ma considerare però la caduta di un uomo straordinario è sempre spettacolo salutare, che solleva l’animo a serie considerazioni intorno alla vita ed alle sue eterne leggi. Quando precipitano dall’alto uomini meschini i quali non emersero dal volgare per propria forza, ma unicamente per debolezza dei tempi, il loro fino ispira orrore, ma non è punto tragico. La caduta per contro di Napoleone è forse la più grande tragedia che ci porga la storia.
Che cosa diceva quest’uomo allorquando prendeva congedo dalla sua guardia, vale a dire dagli stromenti della sua possanza militare? Le sue parole furono un misto di verità e di bugia, di politica e di sentimentalismo. Tutta quella scena fu grandemente caratteristica, perchè grandemente teatrale. La pompa teatrale, l’apparato scenico furono assai più nell’indole di Napoleone, che di Alessandro e di Pompeo. «Serbatevi fedeli al novello re che la Francia si è scelta» diss’egli alla sua guardia che piangeva «non abbandonate la nostra cara patria così a lungo infelice. Non compiangete la mia sorte, sarò sempre felice, quando saprò che lo siate voi. Avrei potuto morire; nulla mi era più facile, ma non volli cessare di battere il sentiero dell’onore. Mi rimane tuttora a scrivere quanto abbiamo fatto assieme. Non posso abbracciarvi tutti, ma voglio almeno stringere al mio petto il vostro generale. Appressatevi generale... (abbraccia il generale...) Mi si rechi un aquila... (bacia l’aquila)... Cara aquila! Possano tutti i prodi sentire in cuor loro questo bacio. Addio miei figliuoti! I miei voti vi accompagneranno sempre. Serbate la mia memoria!»
Il 27 aprile l’imperatore spodestato giungeva sotto misero travestimento fra mezzo ai massacri della Provenza a Frejus, ribattendo la strada de suoi tempi felici. L’aveva percorsa quale trionfatore ritornando dall’Egitto, la rifaceva ora frettolosamente travestito da postiglione, da domestico in livrea.
Stavano in quel porto pronti alla partenza due legni, inglese l’uno francese l’altro. Napoleone diede la preferenza alla nave inglese. Il 5 maggio approdava a Portoferraio, sette anni dopo, in quello stesso giorno, doveva morire in un’isola lontana dell’Oceano, della quale allora ignorava pressochè il nome.
II.
Erano le sei della sera; una giornata stupenda di primavera. La popolazione dell’Elba, suoi sudditi, stavano sulle calate. Poveri uomini in ruvido saio di lana, col beretto frigio in mano, stavano aspettando sbalorditi, avidi e bramosi di contemplare il grande uomo che aveva comandato al mondo distribuiti regni e corone colla stessa facilità colla quale gli altri principi regalano tabacchiere e conferiscono ordini cavallereschi; diventato ora loro signore, principe dell’Elba. Una banda musicale suonava sul porto, come ad uno spettacolo. Napoleone, malinconico, passò la notte a bordo. Quanto gli dovette parere ristretto quel golfo, le cui rupi lo tenevano quasi imprigionato!
Nello scendere il mattino dopo a terra, fu ricevuto dal generale Dalesme fino a quel punto comandante dell’isola. Gli aveva dato annuncio del suo arrivo, e scrittogli: «Generale, ho sacrificato i miei diritti alla felicità della patria, riservandomi il possesso e la sovranità dell’isola d’Elba; partecipate agli abitanti che ho scelta la loro isola a mia stanza; dite loro che saranno sempre l’oggetto delle mie più vive premure.»
L’Elba d’ora in avanti l’oggetto delle sue più vive premure! Un povero scoglio, a vece del mondo.
Il gonfaloniere ed i priori di Portoferraio gli presentarono le chiavi della città. Desso le accolse. Era la stessa scena che aveva ripetuta già le tante volte a Berlino, a Vienna, a Dresda, a Milano, a Madrid, a Mosca... Soltanto gli attori erano cambiati... Un povero gonfaloniere di Portoferraio che balbettava per la confusione, e due priori della piccola città.
Napoleone salì alla casa del governatore che diventò il palazzo imperiale, col suo piccolo giardino dei cannoni, con poche aiuole di fiori. Cominciò tosto ad ampliarlo. Vidi costrutte da lui una bella sala da pranzo ed un dieci o dodici stanze di varia dimensione, le quali attualmente sono occupate dal governatore della città e della fortezza. Nella camera da letto di Napoleone stanno appese tuttora incisioni che ricordano la spedizione di Egitto, e nel suo gabinetto di lavoro esiste tuttora il suo scrittoio. Questo era il nuovo palazzo delle Tuileries dell’imperatore, vera immagine della sua signoria in miniatura alla quale corrispondeva pur anche la sua corte. Grande maresciallo del palazzo era il conte Bertrand; il conte Cambronne, il generale d’artiglieria Drouot, e gli altri formavano la corte, la quale in totale comprendeva trentacinque cariche titolate.
Per dir vero il soggiorno di Napoleone all’Elba ricordava la villeggiatura di un imperatore romano, il quale sottraendosi al cerimoniale della vita solenne di corte in città, si porta con pochi favoriti e pochi servi ad Anzio od a Baia, per godervi l’aria pura ed il riposo. Però no; l’aria dell’Elba doveva comparire a Napoleone ben più opprimente di quella stessa dello scoglio di S. Elena, dove era giunto pienamente rassegnato.
Gli si erano lasciati, quasi a comparse, un settecento uomini di fanteria della guardia, ed un ottanta cavalieri. Si rifletta un istante a questo pugno di veterani, cacciati in una piccola isola quasi reliquie di un naufragio, ed accampati sulla spiaggia. Chi avesse potuto ascoltare i discorsi di questi soldati di tempra ferrea, francesi, côrsi, italiani, polacchi, avrebbe fuor di dubbio udite cose meravigliose, ricordi di mezzo il mondo che avevano percorso, delle piramidi, delle pianure ghiacciate e fatali della Russia, delle Alpi, di Leipzig, di Marengo, del sole di Aulsterliz, di Eylau, e ciò non sarebbe stato tutto. Nomi come quello di Ney, — tu pure o Ney quanto quel nome ti accora — di Marmont, di Bernardotte, — e questi empiono di rabbia il cuore di quei vecchi guerrieri — del fastoso Murat! Che fu di Murat? Questi almeno è tuttora re in Italia. Con un vascello in un giorno o due lo si può ancora andare a trovare. «Pazienza sclama l’Italiano» — Vive l’empereur! grida il francese — Tutto non è ancora perduto dice il Polacco. Talvolta si va ancora in piazza d’armi; l’imperatore non ha dimenticato l’antico mestiere. Si dà fuoco alle artiglierie, ma i cannoni tuonano al vento. La è una povera musica!»
È d’uopo fare qualcosa. L’imperatore dell’Elba volle fin dai primi giorni conoscere i suoi stati, e percorse l’isola a cavallo, in compagnia del rappresentante d’Inghilterra Niel Campbell. Si ritenne abbia voluto farsi accompagnare da questi, e da una scorta per timore di un attentato. Nudriva timore sovratutto del comandante della Corsica, Brulart, il quale era stato capitano dei volontari nella Vandea, antico amico di Giorgio Cadoudal, e che era stato di recente mandato in Corsica quasi a scherno di Napoleone. Due giorni bastarono a far persuaso l’imperatore che i suoi stati non erano vasti, ma formò tosto il disegno di aprire strade, di condurre acque, di costruzioni, di migliorie di ogni natura. Voleva abbellire l’Elba come Tiberio aveva abbellito Capri. Il suo spirito irrequieto aveva d’uopo di pascolo; era mestieri uccidere il tempo.
Napoleone nella piccola isola d’Elba, occupato ad aprire strade a muovere sassi, rappresenta l’uomo assorto nei suoi pensieri, il quale traccia figure e linee nella sabbia; ricorda il vecchio Federico, il quale seduto dopo perduta la battaglia di Brunnenrohre, tormenta il terreno col suo bastone.
Il suo sguardo cadde un giorno sullo scoglio di Palmarola. Mandò quattordici guardie a prendere possesso di quell’isoletta che nessuno pensò a disputargli, siccome quella che era interamente disabitata. Le vecchie guardie innalzarono una torre, e per tal guisa furono ampliati i confini dell’impero.
Napoleone fece pure occupare, e munire di alcune fortificazioni, la piccola e deserta isola di Pianosa, donde Augusto aveva mandato in esilio suo nipote Agrippa Postumo, che Tiberio non tardò a far uccidere per mezzo di un sicario. Forse Napoleone fu a ciò indotto da quel ricordo imperiale, o dalla sorte toccata ad Agrippa, che pensava potere essere pure la sua.
Costrusse magazzini, calate, scuderie, un lazzaretto, e perfino il piccolo teatro di Portoferraio, nel quale aveva il suo palco imperiale, nè più nè meno che a Parigi. Fece pure scelta per sè di una casa di campagna. Una strada aperta da lui alla diritta del golfo, porta a questa Versailles dell’Elba. L’imperatore vi si recava sovente a piedi od a cavallo, fermandosi a conversare con i villici i quali percorrevano la via, spingendo davanti di sè i loro ciuchi, carichi dei prodotti della terra. La valle dove sta la villa di S. Martino, e dove Scipione Nasica prima, aveva posseduto un palazzo amenissimo, si apre fra le imponenti montagne che sorgono dal lato prospiciente la Corsica. La attraversa un rivo profondamente incassato, sulle sponde del quale crescono numerose e folte piantagioni; vi si scorgono molte abitazioni nascoste in parte dalle fronde degli alberi, e dove la vista è libera, si vedono lunghi filari di vigne, che ricordano la Campania felice di Napoli. Chi avesse l’animo tranquillo, potrebbe vivere ivi giorni lieti e sereni. Le rose vi fioriscono tutto l’anno, l’aria vi è temperata e balsamica, ed alla imboccatura della valle verso Portoferraio, si scorge il golfo ed il mare.
La villa appartiene attualmente al principe Demidoff. Questo Creso russo intende costrurvi un museo, dedicato a Napoleone. Deve riuscire stupendo, con portici marmorei ed ampie sale, sulle cui pareti dovranno essere dipinte a fresco le gesta più illustri dell’imperatore. Napoleone stesso, il quale aveva piantati gli agrumi intorno al terrazzo della casa di campagna, si era contentato di far dipingere in istile egiziaco la sala da pranzo. Si scorge che i ricordi d’Egitto erano quelli che preferiva; gli rammentavano l’epopea eroica della sua giovinezza. In oggi il principe Demidoff ha raccolto quante maggiori reliquie potè radunare di Napoleone, della storia imperiale, ed è sua intenzione allogarle nelle sale di S. Martino. Non vi potrà portare però una reliquia vivente della quale fu possessore, ma che pare non abbia saputo conservare, e sarebbe stata questa la principessa Matilde Bonaparte sua consorte, figliuola dell’ex re Gerolamo, reliquia desso pure di Westfalia.
Gli operai che lavoravano attorno alla villa mi dissero essere intenzione del Principe Demidoff, non sì tosto il museo sarà all’ordine, far partire ogni venerdì un piroscafo a sue spese da Livorno, per portare le persone ad ammirare la raccolta da esso formata. Finora però l’ingresso era vietato ad ognuno, come rilevavasi da apposito avviso, e per tal modo non mi fu dato neanco di potere visitare l’interno della piccola e modesta villa.
Nel far ritorno a Portoferraio mi fu di compenso uno stupendo lume di luna, che a tante cose suole dar pregio. Le rovine, i ricordi di ogni natura guadagnano al chiarore della luna cotanto favorevole alla riflessione; la magia di una luce dubbia, si confà meravigliosamente con tutto il passato.
È possibile amare Napoleone? Fra un migliaio di anni saravvi taluno che nei siti consacrati dai ricordi di sua vita, si senta commosso al punto di versare lagrime? Nol saprei; però non lo crederei.
Havvi nella storia un grand’uomo, il quale in qualche parte si può paragonare a Napoleone, cioè Timoleone. Comprendo che nel pensare a questi mi siano venute le lagrime agli occhi quando visitai il teatro di Siracusa. Napoleone avrebbe avuto paura di questo Greco, che avrebbo rimandato con disprezzo a Corinto, ai pari di quanto fece Dionigi il tiranno. Altri tempi, altre celebrità. Napoleone nella sua gioventù andava pazzo per questi eroi di Plutarco, ma, diventato imperatore, Tacito gli riusciva increscioso, e tesseva un panegirico a Tiberio.
Lo si è paragonato le tante volte a Prometeo incatenato alla rupe, che questa frase oramai non ha più senso; il paragone però conveniva a questo eroe in esilio, il quale seppe rompere le catene dell’Elba finchè la forza e la violenza lo avvinsero con nuove catene adamantine ed infrangibili allo scoglio di Sant’Elena. E dopo quale lotta gigantesca? Blucher e Wellington dovettero domare questo genio, dopo che la forza e la violenza ebbero abbattuto il semidio. Un generale di usseri, Blucher, adoperato dalla sorte quale stromento per rovinare Napoleone, o come diciamo in linguaggio volgare, per batterlo; imperocchè che cosa poteva far altro un puro soldato qual era Blucher se non battere... quale amara ironia! Se non che la natura si vale delle grandi forze, allora quando vuole creare, sviluppare qualcosa; i piccoli mezzi le bastano, allorquando non si tratta che di ultimare, o di distrurre.
A Napoleone dovettero sembrare anni le settimane che passò all’Elba. Si lagnava amaramente con Campbell, sovratutto perchè si tenessero lontani da lui la consorte ed il flgliuolo; perchè gli si negasse un favore che per umanità non si sarebbe ricusato all’esule il più meschino.
Sua madre lo venne visitare nella state. In quale condizione rivide Letizia Ramolino il suo figliuolo! Il suo cuore vanitoso di madre era precipitato desso pure dall’apice della grandezza; però non si spezzò. Il nobile cuore per contro di Giuseppina aveva cessato di battere alla Malmaison, trenta giorni dopo la prima caduta di Napoleone. Venne pure Paolina Borghese sua sorella, stata quasi Elena novella, a piedi della quale deponevano le loro corone i re, ed ora quasi sepolta in quella solitudine dell’Elba!
Molte persone vennero, e partirono di nascosto. I sette punti di approdo dell’isola non furono mai cotanto frequentati. Nel corso di nove mesi, approdarono mille duecento legni; ottocento Italiani, seicento Inglesi, vennero per vedere il grand’uomo dell’Elba, e fra questi molti ufficiali che vestivano divise italiane, inglesi, francesi, e che venivano di Marsiglia, di Corsica, di Genova, di Livorno, di Napoli, di Civitavecchia, di Piombino. Napoleone li riceveva tutti; conversava con tutti, vivace e brioso, domandando a tutti informazioni intorno alle condizioni dei loro paesi sul continente.
Un giorno arrivò a Portoferraio una signora forastiera con un ragazzo. L’imperatore le fece accoglienza misteriosa. Dopo pochi giorni la signora ripartì per l’Italia col ragazzo, in segreto come era giunta. Tutti ne parlavano, non si sapeva chi fosse, ma la signora non aveva potuto sfuggire agli sguardi, alla curiosità degli sfaccendati, imperocchè è facile immaginarsi come Napoleone si dovesse trovare all’isola d’Elba nella condizione di un personaggio ragguardevole, capitato in una piccola città di provincia, il quale diventa il punto di mira di tutti gli sguardi, l’oggetto di tutti i discorsi. La donna era una contessa polacca; il ragazzo, figliolo di Napoleone, frutto di una passeggera distrazione nella severa Polonia. Ignoro che cosa sia avvenuto di poi di quel ragazzo, ma credo che in dicembre del 1852 siasi presentato quale inviato ufficiale di Francia alla regina Vittoria d’Inghilterra, dimostrando che, ad onta dell’Elba e di S. Elena, il mondo diventò di bel nuovo bonapartista, dacchè otto milioni di Francesi acclamarono con trasporto a loro imperatore Luigi Bonaparte, figliuolo e reliquia dell’ex re d’Olanda.
Fu quasi un sogno. La storia sogna talvolta, come gli individui, antiche simpatie, tempi trascorsi. Nel 1852 sognò di Napoleone.
Intanto l’imperatore all’Elba fu come suolsi dire volgarmente, posto alla gogna, da zie e da cugine. Si disse in tutta Italia che una tale damigella X... avesse conquistato il suo cuore, che desso la ricevesse nelle ore romantiche, tanto nel suo palazzo che in villa; che anzi quella portasse già in seno un secondo piccolo Napoleone, e che ne menasse vanto. Quella damigella era figliuola di un agiato proprietario dell’isola, stato gonfaloniere di Portoferraio; desso poi era cognato di un signor Y.... di Livorno, e la sorella di quest’ultimo, era una vera Messalina, era pubblicamente ganza dell’inglese Z... negoziante in Livorno, il quale Z... poi era nemico arrabbiato di Napoleone. e tutta cosa della spia Giunti e compagni. Per tal guisa, anche l’Elba ebbe la sua cronaca scandalosa.
Del resto il danaro cominciava a far difetto. Il reddito di Napoleone toccava appena quattrocento mille lire. Perciò nel trattato di Fontainebleau gli era stato fissato un assegno annuo di due milioni cinquecento mille lire, che la Francia in isfregio del trattato non si faceva premura di soddisfare. L’imperatore ne mosse lagnanza; lord Castelreagh prese a patrocinare la sua causa, ma il governo francese tirava per le lunghe, e non pagava. Temeva probabilmente che l’esule si potesse valere del danaro a preparare un colpo di mano, stava sopra pensieri per una sorpresa in Italia; che ad un tentativo di sbarco in Francia nessuno pensava per certo.
Nell’isola poi, alla portata ugualmente della Francia come dell’Italia, ambedue questi territori dovevano comparire allo spirito irrequieto del sovrano spodestato quali adatti ad un tentativo di ristaurazione. Quante volte passeggiando su e giù nel piccolo giardino, nel gabinetto di lavoro, colle mani dietro la schiena, non avrà l’esule pensato sia a ricostituire in Francia il caduto impero, sia a tentare novella via, quella di fondare in Italia una nuova monarchia!
Sostiamo alquanto, imperocchè questo è un punto rimasto oscuro nella storia di Napoleone, e che merita essere considerato, come lo meritano tutte le risoluzioni presentatesi possibili ad un grande carattere. Si può dire che un nuovo avvenire fu ad un punto di sorgere, e del quale non si possono calcolare le conseguenze per l’Italia, durante la breve stanza di Napoleone all’isola d’Elba. Imperocchè quali sarebbero state tali conseguenze, se quest’uomo, Italiano desso pure, cessando dal volgere lo sguardo alla Francia, fosse comparso in Italia sotto nuovo aspetto, proponendosi di riunire le membra sparse di quella bella contrada, di ordinarla quale imperatore romano-italiano, sedendo in Campidoglio, a Roma, nella città eterna.
Non havvi dubbio che questo disegno venne formato; ma ad onta di tutte le più accurate indagini non fu possibile stabilire fino a qual punto Napoleone sia entrato in relazioni con i promotori della unità d’italia, i quali avevano il loro centro a Torino. Questo progetto, maturato dagli unitari italiani di creare dell’Italia una monarchia costituzionale colla capitale in Roma chiamandovi allora Napoleone a capo, non ha minori fautori oggidì, che nel 1814. Napoleone avrebbe dovuto essere imperatore a Roma; i re di Sardegna e di Napoli si sarebbero dovuti compensare con danaro; a Milano, Venezia, Napoli, e Firenze avrebbero dovuto avere stanza altrettanti vice re per dare soddisfazione agli umori propri municipali, e l’assemblea nazionale avrebbe dovute alternare la sua stanza in quelle varie città. Il Papa sarebbe stato ridotto ad un’ombra nulla più, della quale sarebbe stato facile, volendolo, sbarazzarsi. Tale era il progetto italiano che per la sua attuazione richiedeva una guerra, e la guerra dovevasi suscitare tra la Francia e Murat, il quale trovavasi tuttora a Napoli. Allorquando gli eserciti sarebbero stati di fronte l’uno all’altro, avrebbe dovuto comparire Napoleone, il quale fuori di dubbio avrebbe tratto a sè i soldati italiani e francesi, costringendo per tal guisa i Borboni a riconoscerlo.III.
Se non chè basta di questo sogno. Napoleone diede ascolto agl’Italiani; li tenne a bada, ma non pensò mai seriamente ad uno sbarco nella penisola. Senza dubbio vi avrebbe portata sopra la sua attenzione qualora nulla gli fosse rimasto a sperare dalla Francia, ma tutte le relazioni che gli pervenivano di colà da suoi agenti, lo avevano fatto persuaso che non aveva che a mostrarsi perchè la ristaurazione dovesse dileguarsi, come nebbia da un soffio di vento.
Intanto vivevasi vita incresciosa nel palazzo imperiale di Portoferrario. Paolina, l’anima di quella società, dava di quando in quando una piccola festa, ma per mancanza di danaro si era dovuto ridurre la casa, porre in disparte progetti di nuove costruzioni, e di più si erano vendute alcune artiglierie. L’imperatore viveva sepolto fra le carte, i giornali, le lettere, e nel suo piccolo gabinetto era sempre lo stesso uomo che alle Tuileries, sempre quel Napoleone il quale formava progetti giganteschi, meditava piani di battaglie, nudriva nell’animo pensieri di sconvolgere il mondo.
Mentre desso sedeva per tal guisa nella piccola stanzetta della casa del governatore di Portoferrario, sulla quale sventolava la modesta bandiera dell’Elba, bianca e chermisina colle api imperiali, l’alta diplomazia era radunata a Vienna in congresso; i rappresentanti di tutte le potenze d’Europa sedevano attorno ad un tappeto verde; mille e mille penne scricchiolavano sulla carta a stendere protocolli; tutte quelle lingue si snodavano a pronunciare discorsi, e tutto ciò per quell’omicino che stava all’Elba. Questi tranquillo, appartato, solo quasi un negromante il quale evoca gli spiriti nella sua caverna; quelli romorosi, chiassosi, immersi nel tumulto delle feste, delle discussioni. Quale contrasto! Tutto ad un tratto il piccolo uomo di ferro dell’Elba sorge dal suo tavolo, il congresso si scioglie, i principi ed i diplomatici partono in tutte le direzioni, ed il mondo diventa ancora una volta, teatro di accanita guerra.
Napoleone era profondamente informato di quanto succedeva tanto in Francia quanto a Vienna. In principio del 1815 la discordia erasi introdotta fra gli alleati, e minacciava di prorompere a guerra. Francia, Austria, ed Inghilterra, si erano unite in un trattato segreto contro la Russia e la Prussia. La Francia domandava parimenti la ristaurazione dei Borboni a Napoli, il trono di Murat vacillava, diventava quindi desso l’alleato naturale di Napoleone per l’attuazione di quel progetto di riunione d’Italia, a capo della quale avrebbe l’esule dell’Elba dovuto essere chiamato.
La terribile parola di S. Elena era pervenuta già all’orecchio di Napoleone. La sua risoluzione fu presa prontamente, e fermamente. Viveva sempre più appartato, evitava di parlare a Campbell. Non lo riceveva più che di rado, allorquando il commissario inglese faceva ritorno da Livorno dove soleva recarsi di quando in quando. Un legno di guerra francese incrocicchiava di continuo attorno all’isola, dacchè erasi sparsa la voce che l’imperatore si stesse preparando ad uno sbarco in Italia; la corvetta inglese poi che stava a disposizione di Campbell, incrociava di continuo fra l’Elba, Genova, Civitavecchia e Livorno.
Napoleone stesso poi, quale sovrano dell’isola, possedeva una marineria da guerra composta di quattro legni; usciva questa spesso in mare ad esercitarsi sotto la nuova bandiera dell’Elba, che gli stessi pirati barbareschi rispettavano, ed anzi facevano dessi regali frequenti ai capitani delle navi dell’Isola, dicendo che pagavano il debito di Mosca. Napoleone faceva uscire soventi le sue navi per celare il suo disegno, e lo seppe nascondere al punto, che solo Bertrand e Drouot vennero resi consapevoli del segreto, e ventiquattrore soltanto prima dalla partenza. Alle donne nulla fu detto, e nella vicina Corsica erane informato Colonna soltanto, l’amico di Paoli, confidente di Napoleone.
La risoluzione d’imbarcarsi, di sottrarsi a quella profonda sollitudine, di lasciarsi di bel nuovo nel mondo, di andare ancora una volta incontro a quelle lotte da giganti, deve essere stato istante solenne nella vita di Napoleone, quale fu in quella di Cesare il passaggio del Rubicone. Era uno di quei colpi disperati che il successo giustifica dicendoli arditi e grandi quando riescono, e condanna quando falliscono, qualificandoli di pazzia e di avventatezza. Tali istanti, in cui un uomo energico va coraggiosamente incontro alla sua sorte, traggono a sè tutta la simpatia, e quando l’impresa riesce, la stessa temerarietà di questa, accresce la grandezza dell’eroe. In questo punto Napoleone ricorda Fernando Cortes, allor quando fece dar fuoco a suoi vascelli; e per dir vero si mosse il primo a riconquistare la Francia, ed a muovere guerra a tutte le potenze d’Europa, con pochi soldati di più di quanti ne avesse il grande avventuriero spagnuolo, allora quando gli riuscì di soggiogare gl’Indiani. Convien dire però che precedevano Napoleone in Francia due possenti presidi, la magia del suo nome, e l’odio contro la ristaurazione.
Era la sera di un sabbato, il 26 febbraio; la principessa Paolina dava una festa da ballo; la guardia e le altre truppe stanno pronte alla partenza sulla piazza d’armi, ottocento uomini all’incirca. Nel porto sono pronti a mettere alla vela sette legni; l’imperatore è irrequieto, il piccolo omicino passeggia su e giù, va alla finestra, guarda il cielo che è fosco, il mare che è agitato. La guardia si deve imbarcare in questo istante. Alea jacta est.
Erano le otto di sera, allorquando Napoleone sceso sulla calata s’imbarcò. Nel momento in cui l’uomo possente saliva a bordo per tentare una seconda volta la fortuna, parmi una voce gli volesse gridare dietro «La è eterna ed immutabile legge del fato in ogni cosa, che tutti quanti sono saliti all’apice della fortuna debbano precipitarne ben più rapidamente di quanto vi siano innalzati.» Sono parole di Seneca, di quell’antico uccello di sventura, il quale avrebbe avuto tanto maggiore diritto di ricordare quella sentenza a Napoleone, dopo avere visto finire in modo orribile i grandi della terra, gl’imperatori Tiberio, Caligola, Claudio, Cesare Germanico, dopo essere stato per ben otto anni esiliato in Corsica, e dopo avere potuto per propria esperienza conoscere la natura ed il modo con cui hanno termine le umane grandezze.
Intanto Napoleone salpò dall’isola, inosservato dalla corvetta inglese la quale stava a Livorno. Il mare era diventato tranquillo. Si sperava arrivare prima dell’alba sopra Capraia, se non che il vento cessò, e si stette la giornata ancora in vista dell’isola. Verso le quattro pomeridiane si era all’altura di Livorno, e tosto si viddero prima due fregate, poi un legno da guerra francese, il Zefiro, che si venivano accostando.
Le truppe volevano andare all’albordaggio, ma Napoleone diede loro ordine di nascondersi sotto il ponte. Il Zefiro domandò al legno che cosa vi fosse di nuovo all’Elba, e Napoleone stesso, imboccato il portavoce, rispose: «L’imperatore sta benissimo.» Per tal guisa venne scansato felicemente il pericolo.
Napoleone aveva scritto, prima ancora d’imbarcarsi, due manifesti diretti l’uno all’esercito, l’altro al popolo in Francia, ma non essendo possibile decifrarli li gettò in mare, e ne dettò due altri. Tutti coloro a bordo che sapevano scrivere scrivevano; si scriveva sui tamburi, sulle pile di granate, su tutti i banchi. Dovette essere uno spettacolo originale in quel momento quello dello Inconstant, che tale era il nome del legno che portava l’imperatore, e può soggiungersi ancora della sua sorte.
Le proclamazioni sono le due in data del 1.° marzo 1815, dal golfo Juan, che si leggono in tutte le storie di Napoleone, e che per tanto si possono qui ommettere.
Lo spirito tutto soldatesco dell’epoca, nella quale l’esercito aveva la precedenza sopra il popolo, il generale sopra il sovrano, compare per l’ultima volta in tutta la sua ruvidezza in quei manifesti. Chi potrebbe ora leggere senza provare senso ingrato tutta quella fraseologia soldatesca e battagliera, dei prodi, dell’esercito; sempre ed unicamente dell’esercito!
Il 1.° marzo alle tre, la flottiglia entrò nel golfo Juan, ed alle cinque Napoleone ripose il piede sul suolo di Francia. Le truppe si accamparono alquanto in alto, in un bosco di olivi.
Napoleone in questa congiuntura fu propriamente simile agli eroi romantici della Corsica sua patria. Desso pure era come dessi avventuriere, e nella foggia propriamente côrsa. I guerrieri più rinomati della sua patria in tal guisa avevano tentato rendersene padroni, venendo dall’esilio.
Nel 1408, Vincentello d’Istria sbarcava nell’isola con due Spagnuoli e due Côrsi, per tentare toglier l’isola ai Genovesi, e dopo una lotta gloriosa, veniva preso e decapitato.
Nel 1490, Giampolo invadeva la Corsica con quattro Côrsi e sei Spagnuoli, i quali componevano tutto il suo esercito, e dopo una lotta gloriosa, moriva in esilio.
Per ben tre volte il prode Renuccio della Rocca ritornò in Corsica dal suo esilio, la prima con diciotto uomini, la seconda con venti, la terza con solo otto compagni. Ogni volta inalzò la bandiera della insurrezione, lanciando manifesti a suoi concittadini, e facendo assegnamento sul loro concorso. Dopo una lotta gloriosa fu nel 1511 ucciso nelle montagne.
Nel 1564, il più valoroso fra tutti i Côrsi Sampiero, sbarcò nell’isola con trentasei Côrsi e Francesi, e desso pure, dopo una lotta gloriosa contro le armi di Genova, rimase ucciso nei monti.
Con cinquecento granatieri francesi, duecento cacciatori côrsi e cento lancieri polacchi, i quali per difetto di cavalli dovevano portare le selle sulle loro spalle, il côrso Napoleone Bonaparte mosse contro la Francia e contro le truppe di questa. Dopo una lotta gloriosa, venne mandato in esilio a S. Elena.
In ottobre del 1815, Giovacchino Murat muoveva di Corsica con un pugno di Còrsi verso Napoli, per conquistarvi un regno, ed appena eseguito l’audace suo sbarco, veniva preso e fucilato.
Ai tempi nostri il côrso Luigi Bonaparte, con due soli compagni, giungeva a Strasborgo per conquistarvi un regno di trentacinque milioni di abitanti, ed il tentativo essendogli fallito, lo rinnovava con soli due compagni ancora a Boulogne. La storia ha il dovere di considerare questi tentativi arrischiatissimi, quali abili preludi dell’uomo, il quale riusciva realmente dopo a diventare imperatore dei Francesi. Prima però di dirlo fortunato, converrà aspettare e vedere il suo fine.
Rapidamente, disse Seneca, rovinano le cose predestinate a rovina. Rapido fu il cammino di Napoleone dal golfo Juan a Waterloo, ed a S. Elena. Il 2 marzo era a Cerenon, il 3 in Barêine, il 4 in Digne, il 5 in Gap, il 7 marzo a Lione, il 14 a Chalons ed il 20 marzo alle nove di sera giungeva a Parigi. Il primo giugno al campo di maggio, politicamente parlando, era di già un uomo rovinato. Il 18 giugno cadeva a Waterloo, il 21 giugno rientrava fuggitivo a Parigi, ed il 22 dettava: «Ma vie politique est terminée, et je proclame mon fils sous le titre de Napoléon II empereur des Francais.»
Il 15 luglio saliva a bordo del Bellefronte, il 7 agosto del Northumberland. Il 16 ottobre l’eroe infelice sbarcava a S. Elena.
Colà — è l’ultima scena della storia di quest’uomo meraviglioso — in quella lontana isola d’Africa, giace tranquillo e pallido sul suo letto di morte, esalata la sua grand’anima, ricoperto del pastrano bigio di Marengo; a suoi piedi sta il busto marmoreo di suo figliuolo il re di Roma; inginocchiati a fianco del suo letticiuolo singhiozzano Bertrand, Antommarchi, suoi fedeli amici, e suoi domestici. Il sole s’immerge in mare. Il sacerdote che diede all’imperatore la estrema unzione innalza le braccia ed esclama «Sic transit gloria mundi.»
Napoleone gettò in S. Elena uno sguardo sulle sue gesta, sulla sua influenza, componendo alla sua carriera una iscrizione monumentale nelle solenni parole seguenti.
«Io ho chiuso l’abisso della anarchia, riordinato il caos, ho posto fine alla rivoluzione, sollevato i popoli, frenati i re. Ho trattenuto ogni emolo, ricompensato ogni merito, ampliati i confini della gloria. Tutto ciò era pure qual cosa. Ora in qual parte mi si potrebbe attaccare, sulla quale un abile storico non valesse a difendermi. Forse sopra miei disegni? Gli sarà facile a questo proposito scolparmi. Forse per il mio dispotismo? Sarà pur forza ammettere che la ditattura era necessaria. Si vorrà dire che io sono stato ostile alla libertà? Converrà por mente che l’arbitrio, l’anarchia, la massima confusione stavano tuttora sulla soglia. Si dirà forse aver io amata troppo la guerra? Sarà d’uopo dimostrare che non sono stato mai l’aggressore. Che io aspirassi alla monarchia universale? Converrà dimostrare che il concorso casuale di vari fatti, che i nostri nemici stessi furono quelli che mi spinsero passo a passo in quella via. Finalmente mi si ascriverà a colpa la mia ambizione? Certamente che ne ho avuta e molta; ma la più grande, la più nobile forse che abbia mai albergato in anima umana, l’ambizione di introdurre, di stabilire l’impero della ragione, di assicurare il libero esercizio, il libero godimento di tutte le umane facoltà. E forse, giunto a questo punto, lo storico imparziale troverassi costretto a lamentare che ambizione di tal natura non abbia potuto essere soddisfatta, non abbia potuto raggiungere suo scopo.»
Tal giudizio portava a sè Napoleone a S. Elena. E per verità fu in certa guisa un Messia, come tutti i grandi uomini che la storia ci rappresenta destinati al pari di Atlante a portare per un certo tempo il mondo sulle spalle, od a compiere le imprese di Ercole a vantaggio della civiltà. E noi stessi, i quali accusiamo la umana natura perchè si lascia sedurre più facilmente dal dispotismo militare di un Napoleone, che dalla sapienza civile di un Solone, o di un Timoleone, noi stessi, i quali accusiamo questo grand’uomo di avere fallito al proprio còmpito, di avere creduto all’egoismo, alla bramosia del potere; non possiamo a meno di rimanere compresi di rispettoso stupore davanti all’imponenza del suo aspetto, e di riconoscere il grande impulso dato da lui alla vita dei popoli, ed alla generale civiltà.
IV.
Ho dato a Cesare quanto spettava a Cesare; ora voglio dare agli Elbani pure quanto loro si appartiene. Sono dessi circa ventimille, popolo pacifico, interamente toscano per usanze, costumi, favella, senza nessuna particolarità nazionale. L’isola è troppo piccola (misura poco più di sette miglia quadrate), troppo vicina alle coste della Toscana, perchè vi si sia potuto sviluppare un carattere nazionale distinto, e proprio. Non esistono costumi Côrsi, in quest’isola cotanto vicina alla Corsica; e venni assicurato, che se nei tempi andati si avveravano alcuni esempi della sete di vendetta cotanto generale in Corsica, oggidì non se ne sente più fare parola. Non è se non ridotto agli estremi, che il bandito côrso cerca rifugio all’Elba dove sa di non potersi manterere. Le due isole hanno però un pregio comune, l’ospitalità.
Gli abitati dell’Elba sono i seguenti: Portoferrario, la fortezza di Longone colla marina di Porto Longone, Marciana colla sua marina, Poggio, Campo Portolivieri, Pila, Sampiero, Rio e la sua marina, e Sant’Ilario.
Le case vi compaiono nere ed oscure al pari di quelle della Corsica, imperocchè sono costrutte del pari con pietre della località. Gli abitati sorgono in generale sulle alture a motivo dei Barbareschi, e sono protetti da torri. Quelli vicino al mare hanno ridotti i seni naturali di questo ad uso di porto, e vi danno nome di marina. Fertile e bella è la valle la quale scendendo dai monti di Marciana a dritta del maggior golfo fino a Porto Longone, attraversa diagonalmente buona parte dell’isola, porgendo un magnifico contrasto colla natura grandiosamente selvaggia dei monti, imperocchè questi sorgono imponenti, ripidi, scoscesi; ed il monte Cavanna presso Marciana il più elevato di tutti, e di altezza pressochè uguale al Vesuvio. L’isola poi si abbassa verso la costa d’Italia. Contemplandola dalle spiagge della Corsica, l’Elba presenta l’aspetto di una rupe gigantesca e forma di due piramidi, imperocchè i monti presso Marciana si dividono; la parte di fronte alla costa d’Italia, a Piombino, è più bassa e la più ricca, trovandosi in quella le miniere di ferro ed i frutti. I monti di Marciana sono ricchi di stupendo granito, di marmi, di alabastro, di cristalli, e di altri minerali. Marciana produce ottime castagne; le olive sono poche e di cattiva qualità, ed in tutta l’isola poi, scarseggia il combustibile. I limoni crescono dovunque, e sono ricercati, in particolare guisa quelli di Campo. Il vino abbonda parimenti, ed il migliore è quello di Capoliveri dove si coltiva l’aleatico, che per bontà non la cede a quello di Toscana. Nelle valli più ampie si coltiva largamente il gran turco, per modo che nulla manca a quelle popolazioni per campare in quel clima mite e dolce vita facile, imperocchè oltre ai frutti preziosi dei giardini e dei campi, la terra presso Rio somministra loro in quantità inesauribili il ferro, ed il mare il sale ed i pesci. Fin dai tempi degli Etruschi e dei Romani si pescavano presso Portoferrario le sardelle, ed i tonni i quali vi affluiscono in straordinaria quantità. I pesci ed il ferro, trassero fin dalla più remota antichità all’Elba i popoli navigatori, e l’isola al pari della Corsica fu visitata dai Fenici, dai Cartaginesi, dai Tirreni, e dai Romani. Nella antichità ebbe nome Etalia, più tardi Iloa, nel medio evo Ilva, e finalmente Elba.
Una buona strada carrozzabile porta traversando diagonalmente l’isola per Capoliveri verso Longone, alla sponda del mare. Si gira il golfo fin presso S. Giovanni, piccolo villaggio dei pescatori con una cappella, di dove le barche vanno a Portoferrario. Presimo posto in una di quelle barche, ed a vele spiegate, con vento prospero, traversammo rapidamente il goifo giungendo a S. Giovanni. Si sale ivi una altura sulla quale si scolgono ruderi di costruzione romane, quindi per una valle si scende alla parte opposta del golfo.
Ivi trovasi presso al mare una casa di campagna, proprietà di un agente del principe Demidoff, e non ricordo avere vista località più graziosa, e più romita. La casina è di bello aspetto e circondata da un giardino piantato a fiori, e ad agrumi; le sta a tergo la collina coltivata a viti, e guarda sul bel golfo verso Portoferrario, che visto di là compare amenissimo. Scendendo nella valle pare trovarsi in un continuo giardino, ed il paesaggio è talmente ricco, talmente ameno, che nasce desiderio di fermarvisi quanto più sia possibile. Scorgonsi dovunque campi fertilissimi, monti verdeggianti, cespugli in fiore, e qua e là a sprazzi il mare che scintilla.
Un’ondata di pioggia ci costrinse, nella valle di Capoliveri, a cercare rifugio nella casa di un contadino. Trovammo ivi numerosa compagnia di villici, uomini e donne, occupati a far seccar i fichi. Si fecero tutti premura di offrirci pane, uva, e vino nuovo, e scorgendo che il mosto non ci andava guari a genio, un buon vecchio andò a cercare un grosso fiasco, e ci porse vino nero, che trovammo essere eccellente aleatico raccolto sul luogo.
Ricomparso poco dopo splendidissimo il sole (eravamo in settembre) proseguimmo la nostra strada verso Porto-Longone, dove arrivammo sul mezzodì. Questa seconda città dell’isola è posta in vicinanza di un piccolo seno di mare, ed appoggiata alla rupe scoscesa sulla quale scorge imponente la fortezza. Due strade ripide scendono sulla spiaggia, dove le onde giungono fin vicino alle case. La spiaggia poi è tranquilla e pressochè deserta; alcune barche si stanno dondolando sulle onde, pochi pescatori e marinari sono occupati a riparare altre barche sdruscite, e stanno cantando una canzone monotona. Tutti i balconi e le finestre sono occupate da vasi di fiori, e tutte le case hanno giardini ricchi di vegetazione come quelli dell’isola di Procida. Il clima vi è più meridionale di quello di Portoferrario. L’aloe vi cresce in tale abbondanza e di tal bellezza da recare stupore; la strada che del porto mena all’altura su cui scorge Longone, è fiancheggiata tutta quanta ai due lati di piante di quello. Erano al momento in fiore, ed i loro steli che sorgevano diritti a foggia di candelabri, facevano una vista propriamente stupenda. Non avevo mai visti aloe così belli nè in tanta quantità, neanco nelle parti le più meridionali della Corsica, e per rinvenire gli uguali dovevo aspettare in Sicilia, dove un viale di tali piante formato senza regola ed a norma unicamente dei capricci della natura, guida al solitario tempio di Segesta. Oltre gli aloe crescono quivi pure le palme.
Per un ripido sentiero si sale alla fortezza di Longone. Sorge questa sopra l’altipiano di una rupe imponente, e colle sue mura e colle sue torri, in parte diroccate, compare antica e maestosa. La costrussero gli Spagnuoli ai tempi di Filippo IV e di Filippo V. Era cosa strana che questa piccola isola d’Elba in un’epoca appartenesse contemporaneamente a tre diversi padroni; imperocchè nel mentre il principe di Piombino possedeva l’isola Portoferraio venne nel 1537 in potestà di Cosimo de’ Medici, ed il re delle due Sicilie occupava Porto-Longone. Nel 1736 l’Elba e Piombino vennero annessi al reame di Napoli; nel 1801 l’isola fece parte del regno di Etruria, e finalmente nel 1805 venne riunita all’impero francese.
La fortezza deve essere stata validissima, non essendo possibile per la sua posizione signoreggiarla da verune parte. Sorge all’estremità della città propriamente detta, vera immagine di distruzione, di rovina e di abbandono. Buona parte della fortificazione furono fatte saltare in aria nel 1815 per ordine di Napoleone, dopo che ebbe abbandonata l’isola. Del resto ebbe la fortezza a sostenere parecchi assalti nelle guerre tra Francia e Spagna, ai tempi di Lodovico XIV. Un ufficiale della guarnigione toscana, nella cui famiglia gentilissima trovammo per un giorno ospitalità, ci fece vedere quanto vi era degno di attenzione. Egli era comandante della compagnia di disciplina, e seppe formare di quei condannati, i quali per la più davano poche speranze, una specie di collegio militare. Ci fece vedere con giusta soddisfazione i progressi de’ suoi allievi nella lettura, nella scrittura, nell’aritmetica, e negli elementi delle scienze. Nella fortezza trovammo un pugno di veterani toscani, alcuni dei quali tuttora dell’era napoleonica che conoscevano la Germania, e vantavano la bellezza delle sue campagne, e la pulizia delle sue città. Tutto quanto ci fece vedere il nostro ospite dell’ordinamento della sua compagnia, del suo trattamento, nel suo codice penale, era un vero modello di rettitudine militare e di ordine; tutto vi era previsto, ed ogni cosa perfino i ferri lunghi, ed i ferri corti, ed il fatale bastone avevano il loro sito determinato.
La lunga permanenza degli Spagnuoli in Porto-Longone, vi ha lasciata tuttora traccia delle loro costumanze, e nelle conversazioni vi è tuttora in uso il Don.
Napoleone possedeva pure in Longone il suo così detto palazzo, casa di nessuna apparenza nella quale scendeva, quando colà si recava dalla capitale. I dintorni della fortezza gli andavano molto a genio, e soleva pranzare all’aria aperta, in un sito a mezza costa, sedendo sopra un banco scavato nella rupe, attorno al quale aveva fatto piantare alcuni gelsi. Valery ne fa menzione nella Sua descrizione dell’isola. Di là stava osservando col cannocchiale i dintorni, i bastimenti che passavano, e le coste d’Italia.
Di fronte a Longone sorge il piccolo forte di Fucardo, con una lanterna per i naviganti. La riva è grandiosa e pittorica, e dal lato di terra i monti scozzesi e selvaggi, ricordano fino ad un certo punto gli scogli di Capri senza possedere però la tinta calda tutta meridionale di questa. In queste gole selvagge e vicino alla strada la quale porta alle miniere di ferro di Rio, sta nascosto fra i cipressi e gli arbusti il romitaggio di Monserrato fondato dagli Spagnuoli. È impossibile alla fantasia immaginare sito più severo, più alpestre. Scendemmo col nostro ospite la rupe per arrivare al Rio. La strada corre in regione deserta ricca di cespugli e di acque, le quali vi mantengono vegetazione lussureggiante. Una di quelle fonti porta il nome di Barbarossa, non già a ricordo dell’imperatore tedesco, ma bensì del famoso corsaro, il quale saccheggiò Porto-Longone nel 1544. Vive tuttora la memoria del suo nome nella maggiore parte delle isole del Mediterraneo, e probabilmente in tutte, perchè non avvenne forse una dove non abbia penetrato colla sua presenza quel più ardito fra tutti i pirati.
Proseguimmo la nostra strada sempre fra le piante e le colline sassose, alternando la vista dei monti, della campagna e del mare fino a Rio. Ivi scende muggendo dall’alto per gettarsi in mare un rivo, il quale ha dato il suo nome alla località. Si dice che questo corso d’acqua, il più perenne dell’isola, non abbia sua origine in essa, ma venga per mezzo di canale sottomarino dalla Corsica. E le foglie ed i rami di piante che il rivo porta seco, rivelano manifestamente la sua origine côrsa. Checchè ne sia di questa novella Aretusa, parmi riassumere dessa poeticamente la sorte di Napoleone.
Altro ricordo pure della Corsica si trova nelle miniere di ferro di Rio. Cercava qui rifugio Pietro Cirneo, così nominato per le sue storie, che fu nel secolo XV l’annalista più elegante della Corsica, e la cui vita agitatissima ha somiglianza di romanzo. Fuggito dalla casa di suo padrigno, venne ragazzo a Rio, guadagnandosi la vita a guidare gli asini che scendono carichi di minerale al porto.
Il colore rossiccio del suolo sopra cui moviamo il passo rivela di già che ci troviamo su terra ricca di ferro; non si scorge dovunque che questa polvere di ferro, e ne rosseggiano le colline popolatissime di aloe, i quali colle loro foglie ruvide e di color bruno di acciaio, danno l’idea di fasci, di daghe e di spalle. Tutto aveva questo colore rossiccio di ferro, gli abiti, la faccia, le mani degli operai di Rio; perfino gli stessi cani, che ci venivano incontro abbaiando. Anche il porto a cui scendemmo è di colore rossiccio per la polvere di ferro, e sulla spiaggia stavano grandi cumuli di minerale che aspettava di essere caricato nelle barche.
Cercammo del direttore delle miniere. Desso era un Tedesco, la qual cosa mi fece doppiamente piacere. Fra tutti i popoli il solo tedesco è il vero minatore; desso solo sa inoltrarsi con intelligenza nelle viscere della terra, e spiare il senso dei più intimi penetrali della natura. Desso scava avidamente finchè abbia trovata la buona vena, e dimentico di sè stesso, non si da più pensiero della voluttà dell’aria libera, della bellezza della primavera. Talora dorme nella miniera al pari di un Epimenide, o come l’imperatore Barbarossa nel Kiffhäuser, quel vecchio minatore tedesco colla corona d’oro e la lunga barba cresciuta traverso al tavolo, o come il Tannhauser nel monte di Venere.
Ora ci venne incontro il signor Ulrich, un vero e franco Tedesco di buona lega; anche la sua stretta di mano era ferrea; il suo parlare tronco e positivo, la sua voce vibrata. Ci offerì l’ospitalità di cuore quali a concittadini; ci condusse sui lavori e ce ne spiegò la natura, e le condizioni. Havvi poco tempo che stanno sotto la sua direzione le miniere dell’Elba, che una compagnia toscana coltiva per proprio conto. Le trovò desso in pessima condizione, ma in pochi mesi seppe migliorarle per modo, che fin d’ora si può con sicurezza far assegno sopra un prodotto annuo di trentacinque mille tonnellate, mentre dapprima non ne avevano mai date più di ventidue mille. Si estraggono centoventi mille libbre di minerale al giorno, ma nella state i lavori languono, perchè l’agricoltura chiama a sè gli operai che per la massima parte sono paesani di Rio. Nell’inverno per contro si lavora molto attivamente.
Queste miniere sono coltivate da tempi remotissimi, senza che mai il minerale abbia minacciato venir meno; un monte di circa cinquecento piedi di altezza è tutto ferro. Nelle vicinanze sono ancora altre miniere quelle di Ferranera, di Rio Albano, e la Calamita un vero monte di magnete. Queste miniere erano coltivate fin dai tempi degli Etruschi, i quali ne recavano il materiale a Populonia, nella cui giurisdizione era compresa l’isola, ed ivi colla fusione ne estraevano il ferro. La mancanza di combustibile nell’isola vi rende impossibile la fusione del ferro sul luogo, ed ancora oggidì il minerale viene fuso in forni che sorgono presso l’antica Populonia e recato per mare a Napoli, Genova, Marsiglia e Bastia.
Il signor Ulrich ci fece conoscere il modo scialacquature col quale gli antichi, ed i moderni tuttora coltivarono quelle miniere. Si accumularono sulla collina monti ingenti di terra ferruginosa, coprendo i filoni del minerale. Tutta quella terra posta in disparte quale inutile, contiene tuttora un materiale eccellente. Il signor Ulrich prese un pugno della terra sulla quale stavano, e facendocela vedere disse «Guardate, signori, questa terra tolta qui alla superficie, dà tuttora un ferro superiore a quello che in Francia si ricava dal più profondo dei monti di Alvernia.» Il minerale qui si trova fin dalla superficie, e nell’ambito di parecchie miglia, può dirsi letteralmente di camminare sopra il ferro. Le miniere di Rio sono più ricche di quelle famose del principe Demidoff in Siberia, e forse sarebbe difficile trovare nel mondo le uguali.
Finora sono coltivate a cielo aperto, e di lavori sotterranei non esistono che due gallerie, e ciò non ostante, si scoprono i più ricchi filoni. Chi credesse trovare nelle miniere, di Rio pozzi, gallerie, tutto quel mondo fantastico degli abissi che si rinviene nella maggior parte delle miniere, sarebbe in errore, come mi trovavo io prima di avere visitato queste propriamente meravigliose.
Gettai uno sguardo sui dintorni; sono deserti e malinconici, e la collina stessa, il suolo tutto rossiccio, ferruginoso, porgono aspetto di tristezza e di desolazione, come i dintorni ricoperti di lava e di cenere, di un vulcano. Una piccola fortezza, o piuttosto una torre rovinata, di colore bruno, sorge in cima ad una rupe propriamente di fronte alle miniere. È questa la torre di Giove. In faccia a queste miniere terribili, di dove si sono ricavate tante e tante spade, lancie, e palle per il furore della guerra, e di dove pare sia sorta l’età del ferro come ha cantato il poeta, si dovrebbe innalzare un monumento a Napoleone, interamente di ferro; un colosso dell’Elba, e sul piedestallo si dovrebbe incidere l’ordine di Porsenna re degli Etruschi, «che quindinnanzi il ferro non debba servire più ad altro che agli usi dell’agricoltura, e delle industrie.»
Questo bel detto, il più umano della ferrea Roma, mi richiama alla memoria un fatto analogo, un’altra condizione di pace dell’antichità greca. Allorquando Gelone di Siracusa dettò la pace ai Cartaginesi dopo la battaglia di Imera, pose per condizione: dovessero cessare dal sacrificare vittime umane al Moloch. Ed anche l’ordine che i popoli avessero a cessare di offrire vittime al Moloch della guerra, dovrebbe essere scolpito sul piedestallo del colosso progettato per l’isola d’Elba.
Non saprei però se sia per sorgere quest’era pacifica, e se l’olivo di Elihu Burritt sia per mettere radici, imperocchè i popoli non mi paiono diventati guari più morali, nè più savi da quanto fossero ai tempi di Porsenna e di Gelone di Siracusa. Le nazioni continuano oggi come per il passato a sacrificare vittime al Moloch politico e religioso dell’onore, ed a lasciare spegnere dal ferro il fiore delle loro generazioni, quasi la umanità possedesse come l’idra cento teste, e fosse capace centuplicarsi di continuo.
Prendiamo intanto congedo dall’isola del ferro, e se non con una accusa alla umanità, almeno con un sorriso ironico sui lodatori entusiasti dell’era nostra, col grido almeno di Porsenna. «Non più spade, non più lancie, non più sacrifici umani a qualsiasi Moloch.»