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III.

Se non chè basta di questo sogno. Napoleone diede ascolto agl’Italiani; li tenne a bada, ma non pensò mai seriamente ad uno sbarco nella penisola. Senza dubbio vi avrebbe portata sopra la sua attenzione qualora nulla gli fosse rimasto a sperare dalla Francia, ma tutte le relazioni che gli pervenivano di colà da suoi agenti, lo avevano fatto persuaso che non aveva che a mostrarsi perchè la ristaurazione dovesse dileguarsi, come nebbia da un soffio di vento.

Intanto vivevasi vita incresciosa nel palazzo imperiale di Portoferrario. Paolina, l’anima di quella società, dava di quando in quando una piccola festa, ma per mancanza di danaro si era dovuto ridurre la casa, porre in disparte progetti di nuove costruzioni, e di più si erano vendute alcune artiglierie. L’imperatore viveva sepolto fra le carte, i giornali, le lettere, e nel suo piccolo gabinetto era sempre lo stesso uomo che alle Tuileries, sempre quel Napoleone il quale formava progetti giganteschi, meditava piani di battaglie, nudriva nell’animo pensieri di sconvolgere il mondo.

Mentre desso sedeva per tal guisa nella piccola stanzetta della casa del governatore di Portoferrario, sulla quale sventolava la modesta bandiera dell’Elba, bianca e chermisina colle api imperiali, l’alta diplomazia era radunata a Vienna in congresso; i rappresentanti di tutte le potenze d’Europa sedevano attorno ad un tappeto verde; mille e mille penne scricchiolavano sulla carta a stendere protocolli; tutte quelle lingue si snodavano a pronunciare discorsi, e tutto ciò per quell’omicino che stava all’Elba. Questi tranquillo, appartato, solo quasi un negromante il quale evoca gli spiriti nella sua caverna; quelli romorosi, chiassosi, immersi nel tumulto delle feste, delle discussioni. Quale contrasto! Tutto ad un tratto il piccolo uomo di ferro del-