Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
- 30 - |
La risoluzione d’imbarcarsi, di sottrarsi a quella profonda sollitudine, di lasciarsi di bel nuovo nel mondo, di andare ancora una volta incontro a quelle lotte da giganti, deve essere stato istante solenne nella vita di Napoleone, quale fu in quella di Cesare il passaggio del Rubicone. Era uno di quei colpi disperati che il successo giustifica dicendoli arditi e grandi quando riescono, e condanna quando falliscono, qualificandoli di pazzia e di avventatezza. Tali istanti, in cui un uomo energico va coraggiosamente incontro alla sua sorte, traggono a sè tutta la simpatia, e quando l’impresa riesce, la stessa temerarietà di questa, accresce la grandezza dell’eroe. In questo punto Napoleone ricorda Fernando Cortes, allor quando fece dar fuoco a suoi vascelli; e per dir vero si mosse il primo a riconquistare la Francia, ed a muovere guerra a tutte le potenze d’Europa, con pochi soldati di più di quanti ne avesse il grande avventuriero spagnuolo, allora quando gli riuscì di soggiogare gl’Indiani. Convien dire però che precedevano Napoleone in Francia due possenti presidi, la magia del suo nome, e l’odio contro la ristaurazione.
Era la sera di un sabbato, il 26 febbraio; la principessa Paolina dava una festa da ballo; la guardia e le altre truppe stanno pronte alla partenza sulla piazza d’armi, ottocento uomini all’incirca. Nel porto sono pronti a mettere alla vela sette legni; l’imperatore è irrequieto, il piccolo omicino passeggia su e giù, va alla finestra, guarda il cielo che è fosco, il mare che è agitato. La guardia si deve imbarcare in questo istante. Alea jacta est.
Erano le otto di sera, allorquando Napoleone sceso sulla calata s’imbarcò. Nel momento in cui l’uomo possente saliva a bordo per tentare una seconda volta la fortuna, parmi una vove gli volesse gridare dietro «La è eterna ed immutabile legge del fato in ogni cosa, che tutti quanti sono saliti all’apice della fortuna debbano precipitarne ben più rapidamente di quanto vi siano innalzati.» Sono parole di Seneca, di quell’antico uccello di sventura, il quale avrebbe avuto tanto maggiore diritto di ricordare quella