Pensieri e discorsi/La mia scuola di grammatica
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LA MIA SCUOLA DI GRAMMATICA
Hoc erat in votis... Non già, cari giovani studenti, d’aver lasciata la Sicilia. Anzi, mi sembra di buon augurio cominciare paternamente, o cari giovani, con un consiglio. Quando sia venuto per voi il giorno di lasciare queste aule e spargervi per l’Italia a esercitare il vostro nobile ministero, non rifuggite e non riluttate, chiedete anzi con fede e letizia d’essere mandati nell’isola che si può chiamare del sole, e anche del fuoco, e anche dei poeti. Andate là dove sono orme di giganti nella terra, e nel cielo echi di tibie e di cetere e di avene; andate a vivere meditabondi presso i templi diruti di Selinunte e d’Agrigento, e gli anfiteatri di Siracusa e Tauromenio. Andate di gran cuore, o giovani toscani, con gli ardenti e pensosi giovani di Sicilia, nella cui bocca suona tanto gentile quanto sulla vostra la lingua del sì. Voi ne riporterete una visione di bellezza ineffabile: dopo pochi anni una gioia per sempre. Quando lasciai la divina isola, io non sapeva che non vi sarei tornato. Di su la Cariddi — è il nome d’un dei due vaporetti che vengono e vanno da Messina a Reggio — di su la Cariddi io guardava, inconsapevole del destino, i monti del Peloro e d’Antennamare nerissimi, col sole vermiglio dietro essi. Il mare si oscurava. Pungeva la brezza della sera. Io non dissi, Addio Sicilia! ed ella m’è ancora negli occhi e nell’anima. Non di lasciare la Sicilia era il mio voto, o giovani amici.
E nemmeno, illustri colleghi, propriamente il mio voto era di aver da voi l’unanime invito che mi rivolgeste. Sebbene: tale insperato onore m’abbellisce ormai tutta la vita. E siano grazie a te, o sereno compagno in alcuni dei belli anni di Messina, Vittorio Cian, di questo onore che mi fa nel tempo stesso più lieto e meno superbo, perchè fu mosso anche più dall’affetto per il mio animo che dalla stima per la mia dottrina. Che se anche non fosse stato così, se la stima che tu mi hai, del resto, mostrata pubblicamente con uno studio che io non meritava, ma che è degno di te; se codesta tua stima avesse avuto nel tuo proposito più valore che l’amicizia, ecco, o fratello, io non vorrei crederlo: chè mi piace anche più che essere lodato da uomo degno di lode, essere amato da cuore che riamo. Siano dunque grazie a te, e alla Facoltà intera, dai sodali che io venero, perchè ho potuto da loro imparare, a quelli da cui vorrei imparare, e che ammiro: a tutti, per abbracciarli tutti tra due nomi, dal Paoli al Formichi. Io sono vostro ospite e tra voi m’assido con piena fiducia e allegrezza. Eppure: essere da voi così benevolmente e liberalmente ospitato, non era nemmen questo il mio voto.
E nemmeno, Magnifico Rettore, anzi molto meno, o Rettore a cui debbo se all’invito della Facoltà seguì l’assenso del Ministro; molto meno il mio voto era di far parte di questa Università così augusta, sede, e per il passato e per il presente, di tanta sapienza. È onore, codesto, che fa tremare le vene e i polsi; e certo, quando io pensava a quest’ora, in cui voi m’avreste veduto e udito, tremavo, sì; e avrei certo respinto da me un onore da cui dovevo decadere subito dopo averlo ricevuto: anzi nell’istesso riceverlo. Mi faceva, è vero, animo il pensiero che certe mie povere virtù, non da tutti, non per tutto, non sempre apprezzate e apprezzabili, di scrittore in una lingua morta, potevano, se mai altrove, trovar grazia qui, dove le glorie del Bargeo del Manuzio e del Fabroni erano poco fa rinnovate con tanta purezza dal mio conterraneo Michele Ferrucci; qui, dove, per una tradizione non interrotta, si può ammirare un insigne giurista che scrive e parla elegantemente la lingua appunto del giure; qui dove a me fu dato vedere nel palazzo dei Medici il più acuto e dotto conoscitore della nostra arte letteraria, e che non disdegna, no, egli che conversa con le ombre di Lorenzo il Magnifico e di Angelo Poliziano, questa pervicacia di non voler lasciar fuori d’uso la lingua di Roma. Ma, nonostante questi incoraggiamenti che mi venivano dal passato e dal presente, io devo dire che il mio voto non era proprio quello di essere uno della vostra onesta compagnia, Magnifico Rettore.
Nè di essere venuto a terminare tranquillamente la vita in questa, così bella e così tacita Pisa, dove trovò pace e tepore persino Giacomo Leopardi; tra Livorno e Lucca, le città dove ho fatto tutto ciò che di meno peggio ho potuto fare nella mia arte; nella Toscana che sola può ispirare e ammaestrare uno scrittore italiano... No: nemmen questo: il mio voto era principalmente d’occupare la cattedra alla quale, illustri colleghi e Magnifico Rettore, m’avete chiamato: la cattedra, o giovani studenti, di grammatica latina e greca: modus agri non ita magnus.
Il mio compito, sì, è modesto. Per vero, qual è egli? Quello del tradurre i classici delle due lingue. Per un anno, voi più giovani tra i giovani studenti di lettere, dovete con me seguitare quello che facevate nel liceo: tradurre Omero, Platone, Virgilio, Livio. Io non devo esser per voi se non quello che fu per tre anni il vostro maestro di greco e latino. Anzi, meno. Ad altri spetta di trattare la storia delle due letterature; ad altri s’appartiene di insegnarvi metodicamente ciò di cui quel vostro maestro vi dava sparsamente qualche notizia: linguistica, archeologia, storia dell’arte, paleografia. A me resta sola l’interpretazione dei testi. Non sono a voi maestro di lettere, ma di lingua greca e latina. Invero questa cattedra che qui si intitola di grammatica, altrove si chiama di lingua. Nè le due lingue e la loro grammatica io devo trattare scientificamente, chè ciò è uffizio d’altri migliori di me. La mia è piuttosto un’arte: quell’arte che voi, giovani del primo anno, cominciaste a imparare, per il latino, otto anni fa, e a mano a mano che l’imparavate, metteste da parte; quell’arte che è come una chiave per entrare e che, quando s’è entrati, s’appicca al chiodo, perchè non fa più bisogno. Fa di bisogno sì, ma soltanto a chi sia uscito di nuovo; a chi, voglio dire, abbia intermesso lo studio; ma voi avete perseverato, avete progredito e migliorato via via: a chi possiede l’arte non occorre più la teorica, se non ci torna su, per rendersene ragione minuta ed esatta. Il che farete, ma, ripeto, con altri. Con me porrete il suggello ai vostri otto o cinque anni di pratica dei libri latini e greci. Noi tradurremo. Noi eserciteremo lo scambio d’idee e d’imagini tra i due mirabili linguaggi classici che hanno dopo morte affinato la loro vita, servendo al mero pensiero, e il nostro che è ancora anima e corpo, e si travaglia nella mutabile esistenza.
Io non farò che tradurre. Ma che è tradurre? Così domandava poco fa il più geniale dei filologi tedeschi; e rispondeva: “Il di fuori deve divenir nuovo; il di dentro restar com’è. Ogni buona traduzione è mutamento di veste. A dir più preciso, resta l’anima, muta il corpo; la vera traduzione è metempsicosi„. Non si poteva dir meglio; ma la tagliente definizione non recide i miei o i nostri dubbi. Mutar di veste (Travestie), in italiano può essere “travestimento„, e “travestire„ ha in italiano mala voce. Dunque intendiamoci: dobbiamo dare allo scrittore antico una veste nuova, non dobbiamo travestirlo. Troppo abbiamo, per il passato, travestito, e a bella posta e senza volere. Ne sono causa, forse, le speciali sorti della lingua e letteratura; il fatto è che per noi il problema del tradurre non è così semplice. Noi non abbiamo sempre e non abbiamo spesso la veste da offrire allo scrittore antico di prosa o di poesia: almeno non l’abbiamo lì pronta; almeno almeno non la sappiamo li per lì scegliere. E poi, quanto a metempsicosi, è giusta (almeno per questo proposito del tradurre) la distinzione di corpo e d’anima? Non è giusta. Mutando corpo, si muta anche anima. Si tratta, dunque, non di conservare all’antico la sua anima in un corpo nuovo, ma di deformargliela meno che sia possibile; si tratta di scegliere per l’antico la veste nuova, che meno lo faccia parere diverso e anche ridicolo e goffo. Dobbiamo, insomma, osservare, traducendo, la stessa proporzione che è nel testo, del pensiero con la forma, dell’anima col corpo, del di dentro col di fuori. A ciò bisogna studiare e ingegnarsi: svecchiare, sovente, ciò che nella nostra lingua pareva morto; trovare, non di rado, qualche cosa che nella nostra letteratura non è ancora. Dico, noi, e dico, nella nostra: forse gli altri popoli non hanno bisogno di tanto lavorìo. E sì: qualche volta a noi manca ciò che ad altri abbonda.
Di che io mi consolo tanto, perchè c’è ancora da fare, c’è ancora dell’avvenire avanti noi, c’è qualche tesoro da scoprire, qualche statua da dissotterrare, qualche gioia da godere. Per esempio, il verso sciolto del Caro e del Monti è troppo sciolto; cioè, pur non potendo con ogni singolo endecasillabo comprendere un esametro, non cura di comprenderne due con tre, sempre, metodicamente, monotonicamente, come mi par che dovrebbe? Ebbene proveremo noi; faremo noi le terzine o rimate o assonanti o libere. O proveremo a tradurre con l’esametro italico. Ma ci sembrerà, l’esametro Carducciano, troppo libero d’accenti? E noi c’ingegneremo di farlo tanto regolare, tanto sonoro, quanto almeno quelli del Voss e del Geibel. Parlo soltanto del compito di quest’anno; dell’epica cioè e della narrazione in prosa. Ebbene: dovremo noi tradurre con lo stesso materiale linguistico Erodoto e Tito Livio? Ridurre, anzi, tutti gli scritti e tutti gli scrittori al comun denominatore della nostra lingua odierna? E in questo anzi è molto da pensare. Qual è la lingua dell’uso d’oggi? Si dice che la questione è risolta da un pezzo; e invece ricomincia con ogni scrittore che si metta ora a scrivere, pensandoci su; e a ogni momento, lo ferma e lo fa rimanere pensoso e dubbioso. Molti si appagano, per il parlare, del dialetto del loro paese; per lo scrivere, d’una διάλεκτος κοινὴ molto generica e incolora, molto artificiale e convenzionale, e molto dura, alla cui formazione e divulgazione hanno contribuito e assiduamente contribuiscono principalmente i giornali, che sono, come è naturale, la nostra principale lettura. Molti, sì; pochi, non se ne appagano; e questi pochi sono quelli che noi chiamiamo, e soli reputiamo, scrittori. I quali, appunto, rivendicano a sè, anche a sè, quel diritto che è consentito a tutti gli altri, specialmente agli scrittori che noi non chiamiamo scrittori, di partecipare alla formazione e divulgazione della lingua d’uso comune. Ma essi, le parole che credono necessarie o utili, non le derivano solitamente da lingue straniere o non le gettano in una forma inespressiva; ma o le prendono al popolo vivo, che è così buon fabbro, o le chiedono ai grandi morti, dei quali son vivi i pensieri e per ciò non sono ancor morte le parole: lampadine che possono essere raccese anche in un sepolcro, se esse hanno l’olio di vita.
Peraltro, io distinguo. C'è traduzione e c’è interpretazione: l’opera di chi vuol rendere e il pensiero e l’intenzione dello scrittore, e di chi si contenta di esprimere le proposizioni soltanto; di chi vuol far gustare e di chi cerca soltanto di far capire. Quest’ultimo, il fidus interpres, non importa che renda verbum verbo: adoperi quante parole vuole, una per molte, e molte per una; basta che faccia capire ciò che lo straniero dice. E così va bene, e questa è utile arte, necessaria per chi non sa la lingua che lo straniero parla e l’interprete sa. E di queste interpretazioni è buono se ne facciano in iscritto e a voce, specialmente a voce; e si usi pur la lingua più intelligibile, nel quarto d’ora o di secolo, ai più, e sia questa quant’ella voglia essere, sciatta e scinta. Ma all’interpretazione, nella scuola, deve tener dietro la traduzione: ossia il morto scrittore di cui è morta la gente e la lingua, deve venire innanzi e dire nella nostra lingua nuova, dire esso, non io o voi, il suo pensiero che già espresse nella sua lingua antica. Dire esso a modo suo, bene o men bene che dicesse già: semplice, se era semplice, e pomposo se era pomposo, e se amava le parole viete, le cerchi ora, le parole viete, nella nostra favella, e se preferiva le frasi poetiche, non scavizzoli ora i riboboli nel parlar della plebe. Saranno essi ben altro nelle nostre, di quel che nelle loro pagine: oh! sì, morti spesso o sempre, invece che vivi; ombre e non corpi; ma le ombre assomigliano ai corpi perfettamente; le ombre come degli eroi così dei poeti conservano nell’Elisio gli stessi gusti che avevano in terra. Se vogliamo evocarli nella nostra lingua, essi, quando obbediscano, vogliono essere e parere quel che furono; e noi non solo non dobbiamo menomarli e imbruttirli, ma nemmeno (quel che spesso ci sognamo di fare) correggerli e imbellezzirli; come a dire, togliere a Omero gli aggiunti oziosi di cantore erede di cantori, e a Erodoto le sue lungaggini di narratore chiaro, e a Cicerone le sue ridondanze di oratore armonioso, e a Tacito i suoi colori poetici di scrittore schivo del vulgo. Ognuno faccia indovinare, se non sentire, le predilezioni che ebbe da vivo, quanto a lingua e a stile e a numero e a ritmo.
E poi, se nella nostra tradizione letteraria non troviamo quel che ci vorrebbe, lasciamoci ispirare e quasi obbligare dagli antichi a cercare il nuovo. L’Italia non è già morta! Il suo ciclo non è già chiuso! Non è già detto che Dante debba rimaner solo! Non è già impossibile che come con lui fummo i grandissimi del medioevo, non dobbiamo con altri essere i primi delle età nuove! Io mi consolo, ripeto, nel vedere che ci mancano tante cose. Le acquisteremo. O meglio: le acquisterete, o giovani! L’Italia è povera e ricca. Vedetela qua e là dispersa per il mondo. Quelli che picchiano là col piccone sono italiani; ma anche la melodia ch’esce da quella finestra, è italiana: del Mascagni o del Puccini, i due vicini nostri. Quelli che tendono la mano più là, sono italiani; ma italiano è il dramma che si recita dentro quel teatro: un dramma del d’Annunzio, da noi non lontano anch’esso. E quelli che dissodano quella terra vergine, sono italiani; raspano picchiano soffrono; ma presto un guizzo d’energia elettrica, per la via dell’etere, porterà sino a noi i loro lamenti e le loro speranze: e quella via invisibile e intangibile l’ha aperta un ragazzo, non più che un ragazzo, d’Italia; cui volle presso a noi il nostro Re Giovane.
Le nostre, o cari giovani, sono le cose piccole; piccole, però, sino a un certo punto. La nostra scuola, io vi dico, non deve soltanto far voi bravi maestri, critici ed eruditi; nè voi dovete venir qui con solo questo proposito. L’Italia ha bisogno de’ libri suoi, che educhino, istruiscano, esaltino, affermino il suo popolo: non li vuol più prendere in prestito. Vuol insomma una letteratura sua, una letteratura, s’intende, leggibile, suoi romanzi, suoi drammi, sue tragedie e commedie. Voi vedete che comincia, cioè ricomincia ad averli; tuttavia non in quella copia e non sempre di quella sorta che ci vorrebbe. Tra voi è giusto che noi aspettiamo di vedere i nuovi scrittori e poeti. Chè non è bene si affermi e confermi un certo dissidio tra l’uffizio del poeta (chiamo così anche chi scrive in prosa ma con l’intento di farsi leggere da tutti) e il ministero dell’insegnante. L’antichità si figurò come maestro perfino il vecchio Aedo cieco; anche ad Andronico diede scolari fanciulli. In Italia fu lettore, non si sa di che, forse di teologia o forse di grammatica, probabilmente anche Dante Alighieri: è lettore ancora, e a lungo ci resti, Giosuè Carducci. E io ho veduto e udito sulla cattedra il poeta, e non mai mi pareva aver più maestà che allora. E quando leggeva l’Inferno dell’Alighieri, tale, di voce e di gesti e d’occhi, doveva essere Dante, quando leggeva l’Eneide:
Di quibus imperium est animarum umbraeque silentes
et Chaos et Phlegethon loca nocte silentia late...
La scuola, o giovani, vi presenterà, sia pure irrigiditi dalla disciplina, ma non sì che la loro anima non si riveli, prima vostri fratelli minori, poi vostri figlioli. La loro compagnia, grande e sempre varia, vi darà documenti e ispirazioni. L’aver sempre un pubblico avanti voi, v’invoglierà ad averne uno sempre più vasto. Il dover sempre parlare vi animerà a scrivere; e il dover parlare in modo di essere intesi e sentiti, v’insegnerà a scrivere in modo semplice e forte. E il riserbo che dovete mantenere sempre avanti ai fanciulli vostri scolari, diverrà, avanti il gran pubblico, quella verecondia che abbellisce ogni bellezza.
Tra voi, e non parlo soltanto a voi studenti di lettere, ma a tutti gli studenti, sono i futuri nostri poeti. Ora, non lasciate passare il tempo e l’occasione. Un libro, voi sapete, si compone di res e verba. In molti dei libri, che sono indirizzati al diletto, o a dir meglio al movimento dello spirito, o sono inesatte e false le cose, o improprie le parole. Avessi a dire qual difetto mi sembri peggiore, se delle res o delle verba, io letterato affermerei che è quello delle cose. E così pensava anche Orazio. Io vedo, in Italia e fuori, che nessuno scrive meglio di alcuni naturalisti. Lo scrittore in Italia che mi sembra ora più simile al divino Manzoni, è un architetto. E al contrario difficilmente trovereste un poeta in verso e in prosa, che non erri, descrivendo una campagna, in botanica, e narrando un’anima, in psicologia: e questi errori di cose ci offendono nel poeta molto più che nello scienziato qualche trascorso di parole. Ma insomma cose e parole ci vogliono. Ora in una Universitas studiorum vi è facile, o giovani di lettere, apprendere almeno i rudimenti di qualche scienza, che voi presentite vi abbia a essere utile col tempo al vostro uffizio di scrittori: scienza filosofica, giuridica, fisica, naturale, medica: col tempo, vi può essere altrettanto facile, da quei rudimenti progredire sino ad una conoscenza esatta e ampia. E così fuggirete il pericolo, in che spesso noi incorriamo, di scriver di nulla, quando non scriviamo di critica letteraria o storica, e di poetare sognando, mentre la realtà canta intorno a noi.
Dunque studiate le res, e, s’intende, non trascurate le verba. Ora, quanto a queste, volevo dirvi che la mia umile scuola di grammatica vuole esservi utile non solo per il vostro certo uffizio di maestri, ma anche per il probabile e augurabile ministero di scrittori. A ciò io indirizzerò i miei non facili, nè sempre felici, tentativi metrici e gli studi di lingua e di stile. Ma sopra tutto, a ciò, spero, gioverà il fatto, che non dovendo io se non interpretare e tradurre, io posso scegliere nei singoli autori ciò che in loro è bello o più bello. Per vero, io non sono così antiquato da confondere l’idea di antichità con quella di bellezza; ma so quel che tutti sanno, che nelle letterature greca e romana è in alcuni scrittori o almeno in alcuni scritti ciò che si può chiamare l’eterno, che è sempre nuovo. E così vi gioverà una esercitazione, che io farò con voi e per voi: quella di ripensare nelle lingue antiche non solo qualche prosa ma anche qualche poesia moderna. Io non voglio dir parola dell’utilità che ha tale esercizio per chi deve poi insegnare ai fanciulli. Quest’utilità è sottintesa. Ma dico alto a quelli che volessero, in nome della modernità condannare quest’avviamento allo scrivere e al poetare in una lingua non più atta al commercio, dico alto che v’è un commercio d’idee e sentimenti più utile persino che quello delle cose, e che non è affatto impossibile che nell’avvenire si formi, anzi torni a formarsi, una letteratura internazionale su quelle nazionali; una letteratura che lasci queste, pure e native, al loro posto, ma che sopra esse faccia circolare il pensiero e il sentimento comune.
E so anche altro. Non credo io che la classicità greca e romana sia in tutto e per tutto educativa per il nostro spirito moderno; ma so ch’ella non è, come si va affermando, a dirittura immorale e antisociale.
No. Quei libri sono le nostre βιβλία e formano insieme il grande Testamento giapetico della nostra civiltà. Noi li sfoglieremo con la religione che meritano i libri sacri. Che importa se vi sono le pagine di sangue o d’ignominia? Le salteremo noi che non abbiamo il compito della storia e della critica. Non vi sono di tali pagine anche nella Bibbia semitica? Eppure non vi è momento solenne o doloroso, nella vita d’un uomo o d’una gente, in cui un misterioso conforto non suoni con voce lontana e persuasiva dall’antico libro de’ libri letto da un padre di famiglia o da un vecchio pastor di popoli.
E questo effetto a noi fa Omero, a noi fa Virgilio. Non è folle superstizione quella delle sortes. Tutta la letteratura greco-romana è pervasa dal presentimento d’una società buona e felice. Essa è veramente la Bibbia dell’umanità. Orazio trovava in Omero tutta la filosofia; e aveva ragione: quei due sono poemi di vita; e la vita insegna sempre, sebbene un po’ tardi ai singoli viventi, come ella voleva essere vissuta.
Io ho cominciato col dirvi Hoc erat in votis: modus agri non ita magnus. Sì: possono essere nel mio animo, non ancora al tutto rasserenato dalla catarsi, cattive nubi, fumacchi oscuri di ambizione e di sopraffazione. Forse l’animo irrequieto mi fece per un momento spiacere quest’uffizio, così bello, così a me appropriato, così da contentarsene e da esaltarsene. Ma le mie βιβλία mi soccorrevano col loro consiglio. Il vecchio pastore d’Ascra, del paese caldo di state, rigido d’inverno e buono mai, con l’autorità sua esprimeva rafforzava la massima d’Orazio, e diceva: πλἐον ἦμισυ παντὀς. È più il mezzo che il tutto! Ebbene (dimentichiamo ora la persona mia) ebbene quest’errore evidente di matematica è il precetto che circola per tutta la letteratura greco-romana, e la santifica, o volete piuttosto, la umanizza, e fa sì che, in questi tempi di egoismo negl’individui e di imperialismo nei popoli, essa letteratura sia un farmaco, per non dire un vessillo.
Invero che dice quella massima, che nel vessillo è come segnacolo? Dice, o giovani, che noi uomini, noi popoli, la nostra vita non dobbiamo voler viverla tutta. Essa è la condanna dell’egoismo in nome della felicità. Il bambino agiato mangia il suo pane avanti il bambino povero. Come potrebbe egli credere che la metà del suo pane sia più dell’intiero? E sì: egli ne dà mezzo al compagnino famelico: il mezzo che gli resta, per un miracolo ben semplice ma ben vero, lo sazia più, lo rimanda più contento... alla scuola d’aritmetica. Ma ecco: io sfoglio la mia bibbia Arya. In uno di quelle βιβλία, che non è sempre casto, leggo due versi che spiegano più altamente, con una vertiginosa sublimità anzi, il pensiero del pastore Eliconio:
Quello che a me dài solo, tra due partiscilo, il cielo;
e la metà più grande anche del tutto sarà.
Qual mito più eccelso di questo di Pollux che rinunzia a una parte dell’immortalità a favore del fratello? C’è, non dico un mito, c’è, è vero, qualcosa di più sublime; qualcosa di così inarrivabile, che ha dato il suggello del suo nome, a tale tendenza precipuamente umana. Invero ella c’è stata sempre, dal giorno che il bruto si fece uomo: oh! non per interesse — egli era più felice prima! — ma per una rinunzia ch’egli fece a parte, sia pur minima, della sua vita, a pro’ di qualcun altro che gli assomigliava. Questa rinunzia, e le altre via via, che l’uomo ha fatte, ha sempre trovato dopo, ch’erano utili anche a lui; ma nel farle, non era tratto dall’utile. Egli ubbidiva a un sommovimento del suo cuore, a quella voce di dentro, per cui l’uomo è uomo. Ma questo fatto continuamente avveratosi, d’una rinunzia che aggiunge, d’una privazione che accresce, d’un dolore che bea, non ebbe la sua sanzione, che quando fu detto sacrifizio, e quando l’incenso, che nel sacrifizio vaporò, fu l’alito di vita che usciva dalle labbra arse d’una vittima volontaria.
Nel sacrifizio, necessario e dolce, sino all’olocausto, è, per me, l’essenza del cristianesimo; e credo che si possa essere cristiani senza credere a un solo de’ suoi dogmi metafisici, e credo che si possa credere a tutti questi dogmi, senza essere cristiani. E di tale cristianesimo ognun vede come abbiamo bisogno di questa età, nella quale gli uomini si sono gettati sulle nuove terre e sulle nuove forze scoperte, col primordiale ardore di bruti. Quella soave emozione che dopo assai tempo che il bruto predestinato scorrazzava sulla terra nuova, lo fece arrestare avanti la donna inferma di maternità e il bimbo malato di vita, quell’emozione sembra spenta. La scienza se ne risente: ella ricusa di vedere che nel brutale svolgimento dei fatti storici, provocati dalle necessità economiche, passa una corrente calda di carità. Ella vede lotta, non altro che lotta, anche nei fatti di quella società che cominciò necessariamente con una tregua e che deve concludere con una pace. Io vedo, o sento, che ella ha torto. L’uomo, in circostanze normali, quando non è preso dalla febbre delle bestie, ubbidisce a questa verità: che più uno sacrifica della sua vita, in vita, meno, in morte, ne lascia distruggere dalla morte; meno ne ha sacrificato, e più se ne trova nel momento che ella s’annulla.
Quindi non c’è nulla di così vivo come le rinunzie della vita; e nulla di così dolce, come il dolore liberamente accettato. Il calice, a cui si dice Transeat a me, ha l’amaro soltanto agli orli.
Ma ho parlato del Cristo o di Socrate? In vero non ho bisogno di cercare esempi per dimostrarvi l’intima cristianità delle letterature classiche: tanto gli esempi sono presenti allo spirito. E al nostro spirito subito, se si parla di sacrifizio, apparisce non solo il prigioniero d’Atene, ma quello che egli evocava avanti i cinquecento: l’eroe figlio d’una Dea che non fece alcun conto della morte e del pericolo, e più temè il vivere da vile senza vendicare gli amici. Subito a noi apparisce il primitivo eroe del dovere, non solo quando dice alla sua madre Dea, Subito io muoia!, ma quando al cavallo parlante di morte risponde, Lo so da me! E spinge avanti i cavalli col grande grido che emise anche il Cristo. Profonda somiglianza!
Ci vorrà del tempo prima che il figlio della Dea si ammansi nel figlio della levatrice, e che questo si indii in Gesù. E tuttavia, quando Gesù era per nascere, il mondo pagano era preparato a riceverlo. Nessun popolo, se si guarda a ciò che leggeva e scriveva, se consideriamo i suoi poeti e profeti, era più preparato delle genti, a cui poi si rivolgeva Paolo. Roma, che il cristianesimo doveva sconvolgere e conquistare, e farsene la sede, aveva prima dell’avvento due vates che s’amavano tra loro. Essi sono per eccellenza i poeti della vita mediocre, cioè del sacrifizio, cioè cristiana. Erano anche quelli, tempi, come i nostri, in cui gli uomini sembrano tornati nuovi in nuovo mondo, e incominciano la loro via dalla barbarie alla civiltà. Perchè il genere umano fa questa sua via quasi riluttando, condotto a mano, come fanciullo protervo, da una dolce necessità. Quando può, sfugge, e torna indietro di corsa; e allora quella forza soave va a riprenderlo. Orfeo ricomincia a sonare la sua cetra. Ebbene questa cetra era allora in mano d’un figlio di liberto, nella cui gente era stata la schiavitù, e d’un figlio di contadino, nella cui gente era stato il lavoro.
E il figlio del libertino straniero ora con pedestri sermoni ora con odi alate mostrava in sè la cara felicità che è nel poco. Lasciamo da parte le massime filosofiche, e consideriamo soltanto quello che egli con l’esempio persuadeva e faceva amare.
Noi lo vediamo nella sua villetta cibarsi d’erbe e legumi, conditi assai con un po’ di lardo, e distribuire ai vernae di sua mano la loro parte, dopo aver fatto sacrifizio ai Lari: lo vediamo lavorare anch’esso, coltando qualche campetto e liberandolo dai sassi. I vicini campagnoli ammirano certo l’amico dei potenti, le cui cene sono così semplici; sorridono forse, vedendo il poeta e il cittadino che adopera il marrello e la vanga; ma egli può dire, scrivendo dalla città:
Niuno costì quel poco di bene con gli occhi mi lima
lividi, non mi ci mette l’oscuro veleno dell’odio.
Orazio si sente amato, e l’invidia non è intorno a lui. Che desiderar di più? Egli là vive la vera vita: là è re. Oh! se tutti si contentassero così, non sarebbe felice la società umana? Perchè non si ritorna ai bei tempi in cui privatus... census erat brevis, Commune magnum? Sì: la grandezza tenerla per il comune, per ciò che è di tutti, strade, curie, templi; e appagarsi del poco nella sua casetta?
E il figlio dell’agricoltore, che ha il nome da stelle, da quelle stelle che sono più osservate dai contadini, perchè comprendono tra il loro sorgere e il cadere, le messi e le vendemmie, Virgilio, prima di lui, in presenza delle ultime e più feroci guerre civili, faceva risonare la zampogna pastorale. Non scelse egli quell’umile genere alessandrino di poesia, per un fine meramente artistico: no: non avrebbe in esso accolti i gridi di dolore dei contadini spogliati. E poi, mostrò con l’opera che seguì, in cui il fine sociale è evidente, ch’egli non era anima oziosa da trastullarsi in disparte con la piva boschereccia, mentre intorno pioveva sangue. No: dal principio alla fine della sua vita, Virgilio non cantò che la pace. Egli volle apparire tra le armi come quell’ostentum, di cui parla Suetonio, che sedeva su un greppo del Rubicone, quando Cesare era per passare: arundine canens. Egli, che poi avrebbe, per bocca d’un vecchio morto nell’Elisio, gridato le grandi e postume parole a Cesare: Proice tela manu..., egli, sin dai suoi primi canti, diceva: Giù le armi! E, Giù le armi, ripete uscito dalle selve ma rimanendo ancora in campagna: nella campagna italica così bella qualche anno indietro, ora quasi desolata. Ed ecco l’Italia torna “la grande parente delle messi„, torna la terra saturnia dell’antica giustizia. Vediamola. O miracolo! In essa non sono schiavi. Tutti sono contadini sul suo, e vivono in pace e amore, poichè non c’è, nella terra ideale, non c’è occasione nè alla pietà nè all’invidia. La grande proprietà è sparita, per un incanto, un carmen, del poeta contadino, del poeta che ha il nome dalle Pleiadi: la questione sociale è risolta: la Giustizia è tornata sulla terra.
Non è forse questa la parola, se non del domani, o cari giovani, del domani a cui voi assisterete, almeno del dopo domani che io auguro ai vostri figli di vedere? Il domani è incerto. Si sono create oggi le grandi ricchezze, che tendono a divenir grandissime, ad accentrarsi, a aduggiare della loro ombra immensa il lavoro del genere umano. Domani, chi sa? i lavoratori, cioè la massima parte del genere umano, che producono quell’immensa ricchezza che loro non tocca, vorranno ch’ella sia di tutti. Vorranno essi, che sono i più: i meno non vorranno: non tutti vorranno. Sarà dunque un assetto, quanto si voglia giusto; ma la libertà, sommo bene degli uomini, migrerà dalla terra. Domani forse migrerà; ma tornerà dopo domani, a ogni modo.
Le grandi campagne arate dagli schiavi sacri del Dio Stato, si spiccioleranno di nuovo. Dalle grandi macchine se ne genereranno molte piccole. Piacerà il lavoro domestico. L’industrie diverranno tutte arti. Tutti avranno dalla vita il loro dono piccolo e caro. Ronzerà in ogni casa la macchina familiare. Ognuno avrà la sua casa, che non importa sia grande; il suo bene, che è bene non sia tanto. Dopo la terribile esperienza fatta, gli uomini si rassegneranno a essere felici. Di grande ci sarà solo ciò che è di tutti. Commune magnum.
Questo fu l’ideale dei due poeti, che si chiamano dell’impero, e dovrebbero essere detti della giustizia e libertà: l’ideale specialmente di Virgilio. Ma tutti e due trascorsero la loro vita guardando in alto. Pochi anni, un po’ più di tre lustri, avanti alla nascita del Cristo, Orazio cantava la palingenesia rivolto al sole. Egli chiedeva, anzi si aspettava, la fine, con la clemenza e con trattati, di ogni guerra, l’abbondanza della terra, ben lavorata, e le virtù sociali degli uomini, ben educati. L’inno è, in certo modo, il compendio armonioso dell’opera di Virgilio che era morto due anni prima. Egli si era recato nel 735 in Grecia per finire l’Eneide, chi sa? forse destinandone la pubblicazione a due anni dopo, alla solennità dei Ludi secolari. A ogni modo, in quella solennità si udì, per bocca di Orazio, la virgiliana parola del perdono e della pace. Chè Virgilio, lasciate anche le campagne come già le selve, aveva cantato sì le guerre, ma per annunziarne la fine. Il suo pensiero è sempre quello: quello d’un rinnovamento, d’una risurrezione, d’una redenzione. L’aveva auspicata per l’anno settecentoquattordici. Era stato deluso, e se la riprometteva ancora: ancora aspettava nella terra, regnata già da Saturno, gli aurea saecula.
I quali non vennero allora, non sono venuti ancora. Venne però il Cristianesimo. Cominciò quel movimento dell’anime, per il quale gli uomini si dovevano riconoscere per fratelli; per il quale la vita non doveva apparir bella e buona, se non smezzata col prossimo. Nacque il Cristo. E io dico che nessuno può dirsi il precursore di lui a più buon diritto di questo poeta italico che passò la vita a profetare la palingenesi. Fu egli, anche se non è vero quel che a me pare verissimo, che attingesse da fonte orientale l’idea d’un Messia aspettato, fu egli, che non voleva la schiavitù e voleva l’uguaglianza con la libertà, che sparse le foglie di edera e di nardo, di colocasia e di acanto per la strada per cui doveva venire sull’asinello della povertà l’uomo Dio.
E così a me pare intuizione portentosa quella di Dante, nel fare del paganesimo buono, in persona del buon Virgilio, colui che va innanzi, nella notte, rischiarando il cammino dietro sè. Seguiamolo anche noi. Facciamo risplendere, nella nostra umbratile scuola di grammatica, il lume di questa bontà. Adoriamo le traccie le quali chi segue, diventa poeta e sapiente. Chè, per concludere, e perchè io non vi paia più modesto di quel che la vera modestia comporti, voglio ricordarvi qualche cosa di cui in me stesso m’esalto. Voglio ricordarvi che io ho scoperto il nome che in mistero ha il Virgilio dantesco; e che è altissima gloria di Dante aver dato al poeta pagano, e altissimo onore di Virgilio aver ricevuto dal poeta cristiano. Questo nome è quello del peregrino malvestito e del giovine ben convertito della Vita Nova, è quello di colui che ragionava della sua donna nella mente dell’autor del Convito; è quello che è sì dell’arte e sì della sapienza: è Amore, che conduce sì a Matelda e sì a Beatrice.
È bensì vero che quest’amore è, per rispetto all’arte, sinonimo di studio: studio, anzi, specialmente di grammatica, la nostra grammatica, o giovani, ossia l’arte d’intendere gli antichi scrittori; ma, per rispetto alla sapienza, Virgilio è più propriamente l’amore: l’amore che è appunto l’essenza del cristianesimo, e che Dante, così, ravvisava anche nel paganesimo. E lo studio e l’amore insieme irraggino e riscaldino la mia scuola, sul cui fronte sono scritte le parole della modestia e della fratellanza, πλέον ἥμισυ παντός, e le facciano meritare il nome che io ambisco per lei quanto null’altro, un nome che è umile come quello che nelle passate istituzioni scolastiche indicava una classe un po’ più su della grammatica ma un po’ più giù della rettorica; e altissimo, come quello che abbraccia paganesimo e cristianesimo, e semiti e giapetici, e antichi e moderni, e il grande avvenire: il nome di umanità.